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| << | < | > | >> |IndiceCLARA - Raccontare, raccontarsi l ELENA - L'amore a morte 4 ISOLINA - La disobbedienza 9 MATILDE - Cattiva 13 CESARA - Mnemosine 16 CINZIA - Gli orecchini di perle 21 KYTTA - La fata e il suo folletto 24 ELIDE - Capitan Bellezza 26 CATERINA - La «seconda» 29 LUCIA - La prima, e l'unica 32 RITA - Ninfa Egeria 35 ANTONIA - Il segreto 39 FRANCESCA - Il corpo nemico 43 SILVANA - Una supereroe dei nostri giorni 48 GIULIA - Cartoline da Hollywood 51 GIUSTINA - Peccato di grasso 55 LETIZIA - Wonder woman 59 LICIA - Madri e figlie 65 NORA - La macchina blu 68 SILVIA - Poesie al call-center 71 EMILIA - L'esercito dei ragionieri 72 JOLANDA - Quando avevamo le mani 77 ROSSELLA - Americana 83 NATALIA - Una Robin Hood 87 DARIA - Una moderna ragazza antica 91 SERENA - Tanga e guepière 94 MARIA PIA - Libertà di espressione 97 LIVIA - Una croce per tutte 99 MARA - Il rossetto 102 VANELLA - Il tempo dei tulipani 104 ANNA MARIA - Terra madre 109 ANNITA - Una rosa è una rosa, è una rosa...112 BIANCA - Ma chère mère 114 CRISTIANA - Scarpette rosse 123 CLAUDIA - Uno chemisier di seta beige 126 ROSA - Fare e disfare 131 MARINA - La bionda 135 AMALIA - La stazione 136 MIRKA - Caterina e la signora 138 IRENE - Fantanesh 143 ORNELLA - L'uomo di sfiducia 148 ANNALIA - Uomini 152 MARILÙ - Un matrimonio imperfetto 156 LILIANA - Fantasma materno 162 FIORENZA - Brutto scemo 164 ROBERTA - Calcoli sbagliati 166 PAOLA - Lasciami stare 168 MARTINA - Paure 175 MONICA - Fatti guardare in viso 178 LAURA - Il figlio maschio 180 CARMELA - «Home, sweet home...» 190 CARLA - La belva 194 BARBARA - Le amiche 198 BRUNA E SIMONA - Cicatrici 203 MARCELLA - Tra donne 205 ANNA - Let it be 209 MARIA IDA - Le cose della vita 212 ROSSANA - Il vestito rosso 217 Ringraziamenti 221 |
| << | < | > | >> |Pagina 1«BEATI i popoli che non hanno bisogno di scrivere», ha sentenziato qualcuno. Le donne hanno bisogno di scrivere, io ho bisogno di scrivere, ormai le donne leggono e scrivono molto più degli uomini. Ha scritto Proust: «Un libro è il prodotto di un 'io' diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, in società, nei nostri vizi. È solo in fondo a noi stessi che possiamo cercare di comprenderlo, questo 'io', cercando di ricrearlo dentro di noi». Forse è qui la spiegazione di un rapporto così intenso negli ultimi anni tra le donne e la scrittura, bella o brutta che sia: le donne cercano, si cercano in fondo a se stesse, cercano un loro «io» diverso da quello «delle loro abitudini» private e pubbliche, e dei loro «vizi». Ma anche qui, per le donne, è un po' più complicato che per gli uomini: gli scrittori, per raccontare il loro io più segreto, lo scarto tra l'apparire e l'essere più profondo e misterioso, hanno sempre avuto a disposizione il femminile, i personaggi femminili delle loro storie in cui hanno travasato il loro non detto, l'indicibile, la trasgressione desiderata e considerata impossibile: «Madame Bovary c'est moi», ha scritto una volta per tutte Flaubert. Le donne, no: anche se di tanto in tanto ci provano, ed è tutt'al più un puro esercizio letterario, non possono servirsi del maschile per raccontare il loro «io» profondo, lo scarto tra quello che sono e quello che in fondo a se stesse, scrivendo, «cercano di ricreare», tanto per continuare a citare Proust. Non è il maschile la loro verità più profonda e nascosta anche a loro stesse. E non è neanche il femminile delle loro abitudini, pubbliche e private. È qualche altra cosa che si affannano, che mi affanno a cercare: «Io...» E io non sono esattamente il lavoro che faccio, l'aspetto fisico che mi sono data, l'uomo che ho scelto, i figli che ho avuto e amato più di me stessa, ma che non avevo deciso di avere. Non sono la quotidianità mia e di tutti: la spesa, la cucina, i conti di casa, i letti da rifare. Non sono il «noi» dell'azienda e delle sue logiche che pure mi sforzo, per sopravvivere, di fare mie, recitando, qualche volta magistralmente, per otto ore al giorno. Difficile sentirmi un «io» che sia anche un «noi» della Storia e della politica. È paradossale, ma alla fin fine l'«io» che vado cercando quando scrivo, lo ritrovo solo leggendo i grandi romanzi a firma maschile, con grandi personaggi femminili inventati dagli uomini. Scrivo per scappare: da quello che faccio, che dico, che appaio. Per cercare qualcosa d'altro e di diverso che so che c'è, ma che continua a sfuggirmi. Scrivo per raccontare la mia disobbedienza, la mia non appartenenza, la mia anarchia, il mio dolore segreto, la mia dissomiglianza. Scrivo per «cercare di ricreare me stessa»: «Io...» | << | < | > | >> |Pagina 43SARÀ che appartengo a una generazione di donne educata a vivere il corpo come un rischio, un pericolo sempre in agguato, un «tesoro» che chiunque poteva rapinare e che andava salvaguardato come una cassaforte con chiusura a combinazione segreta o segretissima, sarà che sono cresciuta in una cultura in cui le mestruazioni erano una cosa «sporca» di cui non si doveva parlare, una specie di malattia mensile che impediva di fare il bagno e persino di toccare i fiori, in un'epoca neanche tanto lontana in cui le donne incinte dovevano avvolgere la pancia in enormi mantelle per farsi vedere il meno possibile, e la menopausa era il segnale indiscutibile e definitivo del doversi mettere da parte, «basta, è finita, sei diventata vecchia e devi ritirarti dal gioco». Sta di fatto che io, sin da ragazza, ho deciso di staccare l'interruttore con il corpo: non mi piaceva, era troppo ingombrante, mi era antipatico, mi sono sempre sentita qualcosa di più e di diverso da lui, non avevo nessuna intenzione di assoggettarmi alle sue leggi. Con il corpo, da quando mi ricordo, ho aperto una specie di duello: vediamo chi la vince. E gli ho chiesto, anzi gli ho imposto di farsi da parte, di farsi vivo il meno possibile, di non intralciarmi: io ero e volevo essere qualcosa di diverso dal mio corpo. Bambina, alta come le margherite del mio giardino, mi ricordo mia madre che, facendosi largo tra dalie e margherite, mi inseguiva con il cucchiaio della minestra o il rosso d'uovo crudo nel cucchiaio, annegato nel succo di limone per poterlo mandare giù senza accorgermene: in tempi in cui non era di moda (nessuno ne parlava e ne sapeva niente) sono stata anche, per un certo periodo, una bambina anoressica. E poi, naturalmente, bulimica. Sono passati gli anni. Il corpo li registra: male qui, male lì, il metabolismo rallenta, la pressione cresce, dovresti fare ginnastica, palestra, piscina, perché non ti prendi un personal trainer, perché non fai dei massaggi, non vai dal dietologo, non fai un po' di laser, qualche infiltrazione? Perché non ti curi, come dovresti, del tuo corpo? E il mondo intorno straripa di corpo, di corpi femminili: manifesti, pubblicità anche molto volgare, chiacchiere di ragazze sull'autobus o negli uffici, si parla a voce alta di ciclo mestruale, con disinvoltura e persino un po' di esibizionismo, anche la menopausa è un buon argomento di conversazione, «tu usi il cerotto?», «io prendo gli ormoni per bocca», «a me hanno consigliato un surrogato degli ormoni, non fa ritornare il ciclo e sembra meno dannoso». Il corpo, sia pure in maniera opposta a prima, è ridiventato centrale: centrale come nutrirlo o lasciarlo a digiuno, centrale l'efficienza del suo apparato muscolare. Centrali le sue leggi, e tutto un nuovo esercito di celebranti pronti a metterle in pratica. Io, nei confronti del corpo, non riesco a cambiare atteggiamento, stato d'animo: era e resta un nemico con il quale combattere, un qualcosa che mi ha sempre ostacolato e continua a ostacolarmi, non un piacere ma un fastidio con il quale fare continuamente i conti. La mia testa è più giovane del mio corpo, e mi fa rabbia che il mio corpo non si adegui alla mia testa come vorrei; mantengo ribellismi e voglia di trasgressione, anche illusioni; da ragazza, il mio corpo invece si è adagiato in una dimensione da «signora» che non mi somiglia; sono piena di energia, di voglia di fare, e il mio corpo continua a cercare di impedirmelo, mandando continui segnali di allarme. Mi chiede con sempre maggiore insistenza di occuparmi di lui. E io continuo a volermi occupare di altro da lui: perché il corpo mi annoiava e mi annoia, ai massaggi preferisco le letture e i pensieri, alla piscina che puzza di cloro, in mezzo a un mare di scalmanati, non posso farci niente, preferisco una bella conversazione, una discussione politica, lo studio di qualcosa, una nuova sfida per il mio cervello. Il corpo reclama i suoi diritti, mi dicono. Io parlerei piuttosto di prepotenze, e alle prepotenze ho sempre cercato di non arrendermi: il corpo vuol essere più forte e determinante di me e dei miei progetti di vita; io tento, ho sempre tentato, di essere più forte di lui. Sì, lo so che è stupido, irrazionale, che alla fine sarà lui a vincere. Ma per intanto... Certo che tutti mi dicono che sbaglio: non sai cosa ti perdi, non capisci i piaceri che possono venirti dal corpo se te ne occupi come devi, per non parlare del solito mens sana in corpore sano. E via con gli eserciti delle nuove ragazze che restano tali anche superati i cinquanta, forti del loro fisico che portano in giro come un trofeo, una conquista (e lo è, una conquista, con tutta la fatica che costa...), una vittoria. Io? Non ci riesco. Non mi diverto. Non posso. | << | < | > | >> |Pagina 72LA mia generazione, almeno una certa parte della mia generazione, quella alla quale appartengo, è cresciuta nel mito del liceo classico, della cultura umanistica o, meglio, della cultura in generale, e del primato delle idee. Abbiamo coltivato in silenzio una sorta di razzismo: quello che riguardava i ragionieri. Il ragioniere e tutto quello che rappresentava - la mancanza di fantasia, di umorismo, l'ordine inteso come incapacità di immaginare la ricchezza del disordine, il pensare piccolo rispetto al pensare grande, la convinzione che l'eleganza fosse il completo grigio con la cravatta a pallìni arrampicata stretta a impiccare i colli delle camicie troppo rigide - era tutto quello che non ci piaceva e non volevamo essere. La ragioniera assunta in banca al più ci faceva un po' pena, poveretta, la sua famiglia non aveva potuto permettersi di farla studiare di più e meglio. Io sono stata privilegiata: liceo classico e laurea in filosofia. Ho lavorato, e lavoro ancora, nella scuola e fuori dalla scuola. Ma assisto a uno strano fenomeno, quasi una nemesi storica: il ragioniere (e consimili), ai gradini più bassi nella scala dei valori e della considerazione sociale quando io ho cominciato a studiare e a lavorare, oggi è diventato tra i protagonisti indiscussi. È lui a dettar legge, a guardare dall'alto in basso i poveri illusi che si muovono nel mondo della cultura e delle idee. È con il ragioniere che tutti dobbiamo fare i conti: «Avrei un'idea, un progetto, ho fatto o vorrei fare una ricerca», e il ragioniere con il quale ti devi confrontare, e che finalmente si prende la sua rivincita sociale con l'arroganza inevitabile dei nouveaux riches, ti guarda dall'alto in basso, con impazienza (non ha tempo da perdere, lui...) e supponenza (cara, sono io il capo...), ti dimostra chiaramente che dell'idea, del progetto, e non parliamo della ricerca, gliene importa meno di niente, a meno che... A meno che tu, piegandoti fino alla genuflessione alla sua materia, i conti, non sia in grado di fargli cambiare opinione: e allora devi imparare a sorvolare sul progetto, l'idea, la ricerca, l'interesse culturale, e concentrarti sui numeri, quanto costa, quanto rende, chi paga, come paga, quando paga - «lei lo ha compilato un piano di fattibilità?», «la previsione di budget, qual è?», «si rivolga al responsabile qualità dell'azienda» -, e la qualità, di nuovo, non ha niente a che vedere, come credevi, come pensavi, con la validità dell'idea e la competenza culturale da cui nasce, ma è di nuovo e unicamente una questione di soldi, di conti, di «entrate» e «uscite» come nei bollettini bancari che ti arrivano a casa mensilmente. La mia generazione ha coltivato il mito dei pensieri, delle parole, delle idee, soprattutto delle buone idee. Ha creduto nei libri, più che nei libri dei conti. Si è trovata totalmente impreparata di fronte alla nuova generazione dei vincitori, che ha costruito il suo protagonismo, e i suoi conseguenti alti stipendi, con l'unico mito dei numeri: quanti ascoltatori? quanti biglietti venduti? quanti pezzi ordinati? e soprattutto quanto costa, quanto rende, quanto incassa? Ai loro occhi, il cosa e il come contano meno di niente. Conta il quanto: e a officiare senza il minimo dubbio, il minimo distacco critico, la celebrazione del quanto, ecco la truppa compatta, e sempre più numerosa e sicura di sé, dei ragionieri (o consimili). Il problema è che non sono cambiati: sono esattamente com'erano quando io mi sono iscritta al liceo e poi all'università, quando ho cominciato a lavorare e sembrava che la ricchezza mia e di tutti fossero le idee. L'esercito dei ragionieri (e consimili) avanza in ranghi serrati e si impadronisce ogni giorno di più di ogni minimo spazio della nostra vita privata e collettiva, e sono, come sempre, come prima, vestiti di grigio, impiccati nelle loro cravatte strette sui colli della camicia serrati fino all'ultimo bottone, non sorridono, un po' perché non ci riescono e un po' perché pensano che sorridere sia scendere di livello. Come prima, come sempre, mancano di fantasia, l'umorismo non sanno dove stia di casa, e non parliamo dello spirito critico e autocritico. Per darsi importanza, autorità, invece di parlare aggrediscono, ringhiano, abbaiano: sapendo di non riuscire a sedurre, cercano di mettere paura. Ma adesso tutti dobbiamo misurarci con loro: sono loro i nuovi padroni. Noi che credevamo che due più due potesse fare una volta tre e una volta anche cinque, oggi, a loro che sono diventati i nostri unici, implacabili, esaminatori, dobbiamo rispondere con umiltà e senza esitazioni: «Quattro, signor direttore, signor amministratore delegato». Almeno riuscissi a convincermi che ho cambiato idea: che sono davvero utili, i nuovi salvatori della patria. Almeno riuscissi a farmeli piacere. | << | < | > | >> |Pagina 162MI sono sposata per liberarmi di mia madre: non ne potevo più del suo amore sempre preoccupato, del suo doverismo, del suo perfezionismo, del suo controllo, delle sue regole. Lei era convinta che il suo mondo, quello che proponeva anche a me, fosse l'unico giusto e possibile: sveglia all'alba, ginnastica per mezz'ora tutte le mattine, doccia, colazione sana - yogurt e tè -, vestirsi bene ma sempre con moderazione, senza cedimenti alla fantasia che magari poteva portarmi sulla strada del cattivo gusto. E poi studio, cultura, saggezza. Lavoro, con serietà e senso di responsabilità. Uomini: «Attenzione a quelli che frequenti!» Sesso: «Meglio che ne parliamo apertamente tra noi, visto che io, tua madre, sono una donna aperta e disponibile... se hai voglia, occasione, intenzione di sesso, dimmelo, mi raccomando: andiamo subito dal ginecologo a farti prescrivere la pillola, per non incorrere in disastri che potrebbero costarti cari». Basta: io ho fatto sesso senza dirglielo, senza andare dal ginecologo, senza prendere la pillola, e poi, forte della mia trasgressione, della mia disobbedienza, ho deciso di andarmene di casa. Sì, mi sono anche sposata con il ragazzo con il quale ho fatto sesso, senza dirlo a mia madre, al ginecologo, e senza pillola, e ho fatto tutto, sesso prima e matrimonio subito dopo, con grande soddisfazione: finalmente ero capace di dimostrare a mia madre e a me stessa che di mondi possibili, oltre al suo perfettissimo, ce n'erano molti altri, e che in qualcuno di questi mi sarei potuta trovare sicuramente più a mio agio, anzi, questo nuovo mondo tutto mio lo avevo già trovato. Però, non so come mai, ogni volta che facevo l'amore con il mio uomo, nel momento dell'orgasmo, quando mi perdevo in lui e perdevo me stessa, lo chiamavo «mamma»: io non me ne sono mai resa conto, è stato lui a raccontarmelo. | << | < | > | >> |Pagina 164TI ho scelto e ti ho sposato, brutto scemo, per tutto quello che non eri: non eri già sposato, tanto per incominciare, e quindi non eri bugiardo come tutti quelli che avevo incontrato prima di te e che mi avevano nascosto moglie, figli e magari anche una o più amanti in carica. E poi non eri cattivo, non eri prepotente, non eri maleducato, non eri brutto, non eri stupido, non eri uno di quei puzzolenti alternativi con la maglia bucata e i capelli un po' sporchi, ma non eri neanche uno di quegli schifosi uomini in carriera sempre in blu, cravatta regimental e due cellulari in tasca e alla vita. Non eri e non mi sembravi misogino, di conseguenza ho pensato che forse mi avresti lasciato vivere e lavorare da essere umano e non solo da «moglie e madre dei tuoi figli». Non ho preso in considerazione tutte le altre cose che non eri: non eri allegro, non sapevi farmi ridere, non sapevi giocare e farmi giocare, non sapevi ballare, non sapevi e non volevi spendere né spenderti. Non sapevi neanche far tanto bene all'amore. Ma soprattutto non sapevi vivere e farmi vivere.
E adesso?
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