Copertina
Autore Angelo Morino
Titolo Quando internet non c'era
EdizioneSellerio, Palermo, 2009, La memoria 781 , pag. 244, cop.fle., dim. 12x16,7x1,5 cm , Isbn 978-88-389-2322-7
PrefazioneElsa Guggino
LettoreRiccardo Terzi, 2009
Classe narrativa italiana , citta': Torino
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Pagina 25

All'inizio di questa storia ho ventiquattro, venticinque anni. Una fotografia dell'epoca, in bianco e nero, mi ritrae a mezzo busto. Molti capelli ricci, un filo di perline tubolari intorno al collo, occhiali a goccia dalla montatura metallica e un braccialetto pure questo di metallo. Sul davanti della maglietta a maniche corte, si intravede un disegno che riproduce un viso simile al mio. Capigliatura arricciata e sguardo coperto da grosse lenti scure. Non credo che la duplicazione della mia immagine fosse un effetto intenzionale. Di questa fotografia mi piacciono gli occhi simili a due fessure, che guardano sbiechi. Mi piace anche la piega cattiva delle labbra, socchiuse a mordere l'unghia di un dito. Come se fossi preso da un pensiero tenace e mi avessero colto mentre più ne sono dominato. Intorno a me, non c'è niente che indichi dove la fotografia è stata scattata. Nessuno sfondo significativo, nessun dettaglio rivelatore. Alle mie spalle solo un muro con qualche scrostatura, un pezzo di ringhiera e gli ultimi gradini di una scala su cui sto seduto. Che il momento fissato nella fotografia appartenga a un'estate, lo si deduce da come sono vestito. Ma non saprei indicare con precisione a quale anno risalga. Ce ne sono due o tre che mi sembrano probabili, ma senza che riesca a decidermi per l'uno e per l'altro. Sono felice nel momento in cui vengo ritratto? E sono davvero il bel ragazzo che sembro, o l'obiettivo ha catturato qualcosa di illusorio, appartenuto a un solo istante?


Mi sono sentito dire abbastanza spesso che, in certe fotografie di ventenne, ho una faccia brutale, da giovane assassino. Resta il fatto che, in questi anni, la mia vita non potrebbe essere più diversa da quella di un simile personaggio. Mi sono laureato da poco, all'università di Torino. Ho presentato una tesi su un argomento di letteratura ispanoamericana e l'ho discussa alla facoltà di Lettere e Filosofia. Una tesi in cui faccio professione di fede in un certo modo di affrontare la materia letteraria. Perché in Italia sono - sì - uno dei primi studenti a occuparmi di letteratura ispanoamericana. Ma sono pure seguace di quel metodo critico in voga che è lo strutturalismo. Mi è sembrata una benedizione essere in salvo da passive ripetizioni di quello che altri hanno detto. Finita la scuola degli stereotipi, che quasi ogni anno mi ha visto affrontare gli esami di riparazione. Un ragazzo difficile, riottoso nell'applicarsi, sempre classificato fra gli ultimi. Uno che avrebbe potuto fare di più e meglio, ma che non ne aveva voglia. Adesso, a un esercizio critico fondato sul ripetere idee altrui se n'è sostituito un altro, di ordine descrittivo. Finalmente, con lo strutturalismo, una pratica in cui entrano in gioco forze e conoscenze personali, per modeste che siano. Una metodologia, sì, proprio quello di cui c'era bisogno. Abolita la storia della letteratura, con tutte quelle notizie che davano ragione di ogni cosa. Abolite le vite degli scrittori e le loro relative ingerenze nelle opere. Tutto molto più semplice: si ricostruisce un oggetto, se ne disegna il simulacro, si bada alle regole del suo funzionamento. Si parla di cose concrete, generi, tecniche e modi della narrazione. Si mira a una scienza della letteratura e, addirittura, la si ritiene realizzabile. In tutto questo, c'è pure uno spirito da pionieri, che sorregge nell'andare avanti, come alla scoperta di territori nuovi.


La discussione della mia tesi si è conclusa meglio di quanto mi augurassi. Ma soprattutto mi ha offerto la possibilità di dare un seguito ai miei studi. Me l'hanno proposto subito dopo la laurea. Dovrei seguire le tesi dei miei ex compagni, tenere aperto un paio di pomeriggi alla settimana l'Istituto di Ispanistica dove ho studiato e, così, aspettare l'occasione di un concorso, di una borsa di studio. Certo, agli inizi, zero prospettive immediate di guadagno. Ma non ho avuto dubbi nell'accettare. Anzi, ci speravo, in una proposta del genere. Nessun bisogno di raccomandazioni grazie al buon nome di una famiglia o a conoscenze influenti. Sono un giovane che si sta facendo da sé, valendosi di quello che sa e di quello che sa fare. Forse non è stato tempo sprecato tutto quel leggere romanzi su romanzi, durante ìl ginnasio e il liceo, invece di chinare la testa e applicarmi nello studio. A tornarmi utile, adesso, è proprio una conoscenza diretta della letteratura che, a suo tempo, mi hanno osteggiato. È così che, a meno di un anno dalla laurea, divento titolare di un assegno mensile cosiddetto per la formazione didattica e scientifica. L'Istituto dove prendo servizio non è quello in cui ho lavorato finora, da precario. Sempre a Palazzo Nuovo, appartiene, però, alla facoltà di Magistero. Un passaggio tutto all'interno, dall'Istituto di Ispanistica di Lettere a quest'altro, due piani più sotto.


Palazzo Nuovo è la sede delle facoltà umanistiche. Un edificio in forma di parallelepipedo, a sei piani, costruito negli anni sessanta. File e file di ampie finestre allineate sulle due facciate più lunghe, come le cellette di un favo. Dal primo piano fin sopra l'ultimo, a intervalli regolari, salgono dei profilati in acciaio che chiudono la costruzione in una specie di gabbia. La scalinata, l'atrio e il primo piano, tutto occupato dalle aule, sono le zone più affollate dagli studenti. Ai piani superiori, le biblioteche e i vari istituti con gli studi dei docenti, che si affacciano su lunghi corridoi rettilinei. Qui le pareti e il pavimento sono rivestiti di materiale plastico verde, imbottito, che attenua la luce e i rumori. Le porte che si aprono sui corridoi sono di vetro smerigliato, a grana grossa, e contribuiscono a dare l'impressione di essere dentro un acquario. Io ci passo molto tempo, al terzo piano, nell'Istituto di Ispanistica. Una giornata senza andarci mi mette a disagio, ho sempre qualcosa da sbrigare. Più che un luogo dove svolgere il proprio lavoro, è un luogo dove incontrarsi. Circola energia, come stare al centro di quanto accade, persino i dissapori migliorano la giornata. Mi occupo anche della biblioteca, programmo nuovi acquisti, colmo vuoti o rimedio a dimenticanze. Il tempo passa rapido, nuovi progetti si definiscono e, intanto, nascono le amicizie che aiutano a vivere. Quanto alla somma di denaro che mi viene corrisposta, è esigua, ma mi asseconda nel vivere come voglio. E quello che voglio è trafficare con la letteratura e organizzarmi il tempo senza orari troppo rigidi.


Poco dopo la laurea, mi sono allontanato dalla casa dei miei genitori, a una cinquantina di chilometri da Torino. Figlio unico, al centro delle loro attenzioni, ma anche insofferente nel rimanerci, aspettavo da tempo questo distacco. Una vita indipendente, lontano dal luogo dove sono nato, mi permette di agire con meno finzione, secondo i miei desideri. Sono omosessuale e intendo vivere da omosessuale. Ma, nel dirlo e nel rivendicarlo, c'è un blocco della parola, innanzitutto davanti a mio padre e a mia madre. Comunque, è anche quanto sta intorno a precludere ogni possibilità di vivere a cuor leggero. Un'aria di paese, con poco ossigeno, dove respiro a stento e desidero una cosa sola: allontanarmi. Qui non trovo un mio posto, non faccio gruppo, vivo isolato. Sento di essere oggetto di un'ingiustizia che, almeno ai miei occhi, non trova spiegazione e che mi riempie di rabbia. Tutto solo perché sono attratto dai ragazzi e non dalle ragazze. Insomma, rispetto alla famiglia e ai luoghi dell'adolescenza, meglio, molto meglio metterci di mezzo la distanza. Dare un taglio e organizzarsi altrove. A Torino mi perdo e mi confondo in mezzo alla folla. E poi, qui, è anche possibile trovare alleanze, sostegno, accoglienza in gruppi che si stanno formando. Sono anni in cui le cose iniziano a muoversi. Sempre meno propensione a tacere, a subire, a vivere di nascosto. Ma, a Torino, non è da sottovalutare l'altro vantaggio: i punti di incontro, dove fare sesso è facile. Come la conoscenza di una certa geografia, spesso raccolta di sghembo o comunicata a mezza voce, che ho messo insieme. Chi mi ha riferito l'esistenza delle ultime file di certi cinema, dove ci si aspetta col cuore in gola? Come sono venuto a sapere dei giardini pubblici dove, la sera tardi, si entra con i sensi all'erta e se ne esce sazi solo fino all'indomani mattina?


Nella prospettiva di una carriera accademica, ho cominciato a scrivere brevi saggi di taglio rigorosamente strutturalista su scrittori ispanoamericani. Li pubblico in riviste specializzate, «Strumenti critici» o «Belfagor». Mi sono pure messo a tradurre romanzi, dallo spagnolo in italiano. Ho cominciato quando ero ancora uno studente, fra il terzo e il quarto anno all'università. Tutto accaduto più o meno per caso. Ma dicono che lo faccio bene, che ci sono portato, e io non mi tiro indietro. L'importante è non disperdermi, rimanere nel mio ambito. Lavoro su parole e frasi, ricompongo uno stile, cerco di riprodurre una cadenza. Certo, è diverso se, invece che tradurre, lavoro a un intervento saggistico. Una cosa è tradurre e un'altra è scrivere, me ne sono reso conto in fretta. E - questo - che si tratti sia di un saggio di argomento letterario, sia di qualcos'altro a cui non voglio neppure dare nome. Se traduco, il testo esiste già, quella che devo fare è un'operazione di spostamento da una lingua a un'altra. Se scrivo, parto da zero, non ho la sicurezza di un testo previo, niente mi rassicura. C'è, nel tradurre, un sentirsi a proprio agio, sorretti, mai soli, che manca nello scrivere. Lavorando da una lingua all'altra, c'è persino una sensazione di soddisfare una richiesta, di compiere il proprio dovere, di fare quello che andava fatto. Comunque sia, traducendo o scrivendo, sono nel mio elemento. Mi piace vivere dedito solo alla mia passione: la letteratura. Perché è soprattutto questo che sono: un giovane studioso che ha letto molto, fin da adolescente. Uno che ama la letteratura e che ne ha una buona conoscenza per la sua età. Uno che, bene o male che sia, vive come se la letteratura fosse la cosa più importante, non solo per sé, ma anche per gli altri.


Trasferendomi a Torino, ho preso in affitto una camera con bagno a due passi dal Po, poco lontano da Palazzo Nuovo. È in un caseggiato di piazza Vittorio Veneto. Che è una piazza bellissima, con tre lati di facciate settecentesche e un quarto lato aperto sul fiume, oltre il quale le strade iniziano a salire su per la collina. Fra la piazza e la collina, lo sguardo registra la chiesa della Gran Madre di Dio e le sue colonne neoclassiche che reggono il frontone. Come un panteon incongruo, trasportato lì non si sa da dove. La mia camera è all'interno dell'appartamento di un'anziana coppia. Fratello e sorella, rimasti entrambi da sposare. L'ho trovata leggendo gli annunci sul quotidiano cittadino. Nei mesi precedenti ero ospite nella mansarda di un amico, in un palazzo del centro che marciva pezzo per pezzo. Sì, l'edificio poteva vantare di avere dato accoglienza a Antonio Gramsci. Ma in certi punti della scala bastava appoggiare il palmo della mano contro la parete e l'intonaco vi rimaneva attaccato. Comunque, è stato pure per via dell'inverno a venire, che ho pensato bene di trovarmi un'altra sistemazione. Non sarei sopravvissuto in un sottotetto, con pochi vetri alle finestre e una stufa a gas arrugginita. È così che mi sono rassegnato alla convivenza in un appartamento altrui. Il denaro di cui dispongo non basta per una casa tutta mia, dove incontrare chi voglio e quando voglio. Per fortuna, questo che mi tocca, è uno stare insieme molto discreto. I due anziani proprietari si aggirano in altre stanze, remote, tanto i rumori arrivano attutiti. Solo i loro passi o, meglio, lo scricchiolio dei pavimenti di legno causato dai loro passi me ne segnalano la presenza. Niente rapporti personali. Un saluto, un mezzo sorriso, due parole di circostanza quando ci incontriamo nell'entrata comune. Il che accade di rado.


In questa camera, le notti sono lunghe e solitarie, dedite al leggere, soprattutto nei mesi freddi, quando manca la voglia di uscire. Non che, qui dentro, io possa mai godere di una temperatura confortante. Le estati opprimono con un odore di cera che prende alla gola e spinge fuori. D'inverno, invece, il riscaldamento non viene mai acceso. Il caldo artificiale nuoce alla salute, i doppi vetri delle finestre bastano a isolare dal freddo, mi è stato spiegato fin dalla prima volta che ci ho messo piede. Quanto alla città che mi sta intorno, non ha vocazione notturna. Una città operaia, dove ci si corica presto e presto ci si sveglia. Poco dopo l'ora di cena, si chiude su se stessa, le strade si spopolano. Tutti a letto dopo un po' di televisione o il primo spettacolo al cinema. Da mezzanotte in poi, persino il centro rimane deserto, attraversato solo da qualche automobile disorientata. Qui vicino, tra le mie mete per fare due passi dopo cena, i Murazzi del Po sono in abbandono, con i vecchi depositi per le barche pieni solo di buio. Non vi circolano neppure barboni in cerca di qualche anfratto dove rifugiarsi per la notte. Insomma, un generale regime di parsimonia, quasi di penitenza. Tale la cornice intorno al giovane di ventiquattro, venticinque anni che sono, proprio quando le cose iniziano a muoversi.

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A sette mesi dal viaggio a Barcellona, Cesare muore. Accade in una qualche ora di buio, dopo giorni trascorsi in casa, chiuso lì dentro a bere. Lo immagino deambulare da una stanza all'altra, parlare da solo ad alta voce, incapace di stare fermo. A un certo punto, deve avere perso l'equilibrio ed essere caduto sopra un tavolino di legno, sfasciandolo. Non si rialza più. Un po' dopo l'alba, lo trovano i vicini, che, durante la notte, l'hanno sentito monologare a lungo e che, al mattino, hanno notato la porta sul pianerottolo rimasta socchiusa. Forse Cesare voleva uscire, scendere in strada, cercare l'aria che gli veniva meno. Ma poi se n'è dimenticato o non ce l'ha fatta. Io vengo informato per telefono. Mi chiamano dalla segreteria dell'Istituto, fra le nove e le dieci del mattino, mentre sto ancora dormendo. Questa volta non ci sono state richieste di aiuto. Nessun colpo di telefono quando era ancora possibile intervenire. Un'emorragia interna, dice il referto medico. Si preferisce non tirare in ballo l'alcolismo. Non sarebbe dignitoso per un professore dell'università. Da tempo stava male, il cuore ha ceduto, dicono quasi tutti, rimanendo nel vago. La bara viene ospitata, chiusa, nell'aula magna accanto al rettorato, nella sede storica dell'ateneo. Dall'ospedale, dove hanno fatto l'autopsia, è lì che la portano. Fanno pure un discorso commemorativo. Più tardi, al cimitero, subito dopo la sepoltura, mi avvio verso l'uscita. Ho difficoltà a camminare, come se il terreno mi mancasse sotto un piede e fossi divenuto zoppo. Nel viale principale incontro un'amica di Cesare, che un po' conosco anch'io. Non so cosa dire e me la prendo col cielo, senza sole, così scuro. Ma no, non devo prendermela, Cesare sta sicuramente meglio adesso, lì dov'è, mi dice lei con un sorriso. Aggiunge, come per consolarmi: non c'era più rimedio, stava troppo male, una fortuna che sia finita, credimi.


La casa editrice creata con Edda è chiusa. Già prima della morte di Cesare, il lavoro all'università è passato in secondo o terzo piano. Dopo lo strutturalismo e le ricerche semiotiche della scuola di Tartu, decostruzionismo e postmodern sono treni lasciati passare senza neppure informarmi su provenienza né su destinazione. E lo stesso sta accadendo con gli studi di genere, che comunque, per via di un'affinità con gli scritti del femminismo, mi sembrano più familiari. Ho trentasei anni e continuo ad avere difficoltà nel vedermi e nel pensarmi come un uomo. All'inizio non mi sono accorto di come stavano andando le cose. Ma, adesso, è un'evidenza: non ho più controllo sulla mia vita. Ci sono cose e cose che si disorganizzano, che mi sfuggono, che vanno in perdita. Fra queste, il linguaggio. Non so più articolarlo in una struttura, dargli una forma continua, andare oltre il frammento. Dopo il primo libro, volevo mettermi subito a scriverne un altro. Ma non reggo progetti a lunga durata, mi manca il fiato. Traduco, questo sì. Mi metto davanti a un libro che esiste già e che ricostruisco con altre parole. Quanto a scrivere di mio, al massimo un'introduzione, una postfazione, ma pure queste mi costano una grossa fatica e non sono fra le mie migliori. Non leggo più libri, mi limito a comprarli e a sfogliarli. Com'è possibile che tutto questo sia accaduto proprio a me? Qual è il punto in cui ho messo il piede in fallo? E in tali condizioni che mi presento a un concorso bandito per cinque posti di professore associato e, con tre voti su cinque, ne esco vincitore. I due membri della commissione che non mi votano, seguono le direttive di un mio collega che si prende la briga di istruirli sull'immoralità della mia vita. Sono un notorio omosessuale, non ne faccio mistero, ho persino condotto vita di coppia in pubblico con un altro degenere. Uno che non si vergogna, che ignora cosa sia il pudore, che è meglio tenere lontano dall'insegnamento. Sarei persino capace di attentare ai sani costumi della gioventù. Insomma, il canonico armamentario dell'omofobia, al completo.


Dopo la vincita al concorso, quanto alla sede, mi tocca quella dell'Aquila, sull'Appennino abruzzese, e devo prepararmi per il trasferimento. Nessuna possibilità di pendolarismo su una tale distanza. Si tratta di affittare una seconda casa, che mi permetta di rimanere lì durante periodi lunghi. Fino a Roma sono sette ore di viaggio in treno e, di lì all'Aquila, due ore di autobus. La prima volta che ci vado, in avanscoperta, non so ancora dell'esistenza dell'autobus. Risolvo tutto col treno, passando per Terni e per Rieti: le due ore quasi si raddoppiano. Scendo in una stazione decentrata e, salendo fra vecchie case in rovina, vado in cerca della città. Dov'è L'Aquila? È questo niente sotto il sole, in mezzo a montagne color verde scuro? Passo accanto a un antico lavatoio pubblico, con una lapide che ne fa risalire la costruzione al 1272. È quello famoso, con le novantanove cannelle che fuoriescono dalla bocca di altrettante maschere, tutte diverse l'una dall'altra. Quando la salita termina, mi ritrovo in una piazza in pendenza, con chiese, fontane e negozi. Molta gente in movimento, è tardo pomeriggio, l'ora del passeggio. Mi siedo in un bar all'aperto e ordino un doppio whisky. Lo bevo in un paio di sorsi e me ne faccio subito portare un altro. L'indomani mattina vado alla presidenza della mia nuova facoltà. Vado pure negli uffici del personale, firmo documenti, prendo servizio. È il mese di giugno e, a partire da ottobre, è qui che dovrà svolgersi la mia vita. E davvero un lavoro che mi si addice, quello del professore universitario? Non sarebbe meglio rinunciare a una cattedra che mi porta in un luogo a me così estraneo?

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