Copertina
Autore Edgar Morin
Titolo L'anno I dell'era Ecologica
SottotitoloLa Terra dipende dall'uomo che dipende dalla Terra
EdizioneArmando, Roma, 2007, Temi del nostro tempo , pag. 13,5, cop.fle., dim. 13,5x21,4x0,9 cm , Isbn 978-88-6081-289-6
PrefazioneBianca Spadolini
TraduttoreBianca Spadolini
LettoreLuca Vita, 2008
Classe ecologia
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Indice


Prefazione all'edizione italiana                          7
    (di Bianca Spadolini)

Introduzione                                             15

L'anno I dell'era ecologica                              17
    (supplemento al "Nouvel Observateur", 1972)

Il pensiero ecologizzato                                 29
    («Le Monde diplomatique», 1989)

Il pianeta in pericolo                                   49
    ("Le Nouvel Observateur", ottobre 1990)

Energia, ecologia, sociologia
Dalla politica dell'energia alla politica della civiltà  59
    (dibattito nazionale "Energie 2003")

Oltre lo sviluppo e la globalizzazione                   79
    (Firenze, Palazzo Vecchio, 18 novembre 2002)

L'imperativo ecologico                                   97
Dialogo tra Edgar Morin e Nicolas Hulot
    (a cura di Nicolas Truong)

I tre principi di speranza nella disperazione           119
    (gennaio 2007)


 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA



La raccolta che presento riunisce una serie di articoli e di saggi brevi di Edgar Morin che coprono un arco di anni relativamente lungo — dal 1972 sino a tutt'oggi —, accomunati da uno stesso intento, quello di definire e fortificare la coscienza ecologica. L'estensione nel tempo conferma l'impegno non dell'ultima ora dello scienziato e del filosofo francese, una sensibilità al problema ecologico di lunga durata, connaturata alle ricerche che il biologo, prima che il filosofo e il militante, andava svolgendo. Parallela a questa presa in carico del problema ambientale, matura la prospettiva sistemica di Morin che cerca di ridefinire la metodologica scientifica di fronte ad un mondo profondamente mutato e che non può più essere compreso e affrontato con la stessa ottica che tradizionalmente e trionfalmente aveva accompagnato la conquista scientifica nel mondo occidentale.

Non sorprende, dunque, che la comprensione del problema ecologico nasca non solamente dalla constatazione e dalla tematizzazione dei cambiamenti ambientali e dalla conseguente reazione ai danni, prevedibili e catastrofici, che l'uomo ha causato all'ambiente, ma da un cambio di rotta nella prospettiva con cui l'uomo, in generale, e la scienza, in particolare, si rapporta con la natura.

In tal senso, l'a-detodologia di Morin abbandona la gnoseologia classica, che isola l'oggetto dal contesto ambientale per porlo su un piano astratto e sperimentale, per riportalo nel contesto in cui è stato osservato. Ma una volta che l'oggetto perde la sua oggettività, il soggetto, inaugurato dalla filosofia cartesiana, perde la certezza e la chiarezza autoreferenziale della sua visione per essere gettato in una paradossalità da cui deve cercare di uscire mediante una diversa strategia cognitiva. Come narra il matematico George Spencer-Brown, se l'universo volesse prendere coscienza di se stesso, dovrebbe allentare da sé un peduncolo in modo da potersi osservare; ma una volta che tale tentacolo occhiuto si fosse allontanato dal contesto in cui era nato, non ne avrebbe più fatto parte e l'osservazione ne sarebbe risultata estranea e falsata dalla lontananza. Come sappiamo, Spencer-Brown, al pari di Morin, non trova una via d'uscita a tale situazione paradossale; non può far altro che osservare che l'osservazione, nella sua distinzione dal contesto da cui scaturisce, deve prendere atto dell' impasse che genera e rientrare in se stessa per continuare ad osservare su due livelli, uno interno ed uno esterno all'osservazione stessa.

Proprio questo rientro della distinzione in se stessa pone l'osservazione come auto-osservazione e come etero-osservazione. La strategia di Morin si inserisce a questo punto: se abbandoniamo il concetto di oggetto e lo sostituiamo con quello di sistema aperto, colui che osserva perderà la sua autonomia rispetto all'ambiente da cui si distingue per ritornare a farne parte, ma con la consapevolezza che scaturisce dall'esserne suo osservatore privilegiato.

La teoria dei sistemi di Morin, pertanto, potrebbe richiamare alla mente il romanticismo soprattutto nella versione schellingiana; ma la contrapposizione spirito/interiorità vs. natura/esteriorità non sembra essere l'obiettivo ultimo dell'a-metodologia di Morin: la naturalità dell'osservatore — pur nella drammatica separazione dell'occhio che non può vedere se stesso se non nel mentre che osserva, come direbbe Wittgenstein — è indiscutibile. Il problema risiede semmai nella capacità che l'uomo, con la violenza che comporta il suo intervento modificatore rispetto alla natura, sia in grado di regolare se stesso così come la natura sa fare nei suoi rapporti di associazione e di complementarità.

Il mutamento di paradigma prospettato da Morin sta appunto nella coscienza rispetto all'osservazione delle conseguenze letali generate dall'operare umano secondo la logica della hybris industriale, tecnica, scientifica; nella necessità di prendere atto definitivamente che gli strumenti del progresso e dello sviluppo, se non vengono piegati alle regole negantropiche ambientali, conducono l'uomo, in quanto parte integrante dell'ambiente da cui pretende di distaccarsi, a perire con esso.

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Pagina 17

L'ANNO I DELL'ERA ECOLOGICA
(supplemento a "Le Nouvel Observateur", 1972)



La parola "ecologia" rimanda a quanto già contenuto nelle parole luogo, ambiente circostante, natura: ma essa aggiunge complessità alla prima, precisione alla seconda e sottrae alla terza la mistica, anzi l'euforia. Il concetto di luogo, povero in sé, rimanda solo a caratteristiche fisiche e a forze meccaniche: il concetto di ambiente circostante, pur restando vago, è migliore, nel senso che implica un avviluppamento placentare; il concetto di natura ci rimanda a una matrice, una fonte di vita, anch'essa vivente; questa idea è poeticamente profonda, ma ancora scientificamente debole. Questi tre concetti trascurano il carattere più interessante del luogo, dell'ambiente circostante e della natura: il loro carattere auto-organizzato e organizzativo. È per questo che occorre sostituire un termine più ricco e più esatto, quello di ecosistema.

Che cosa è un ecosistema? L'ecologia, in quanto scienza naturale, è giunta a questo concetto che include l'ambiente fisico (biotopo) e l'insieme delle specie viventi (biocenosi) in uno spazio o una determinata "nicchia". Ma l'ecologia attuale non ha potuto ancora trarre da questo concetto tutte le sue possibilità perché, per comprenderlo davvero, sarebbe necessario concepire una teoria dei sistemi e insieme una teoria dell'auto-organizzazione.

Diciamo in modo schematico che l'insieme degli esseri viventi in una "nicchia" costituisce un sistema che si organizza da solo. Esiste una combinazione di rapporti tra le diverse specie: rapporti di associazione (simbiosi, parassitismi) e di complementarietà (tra colui che mangia e colui che viene mangiato, tra il predatore e la preda), gerarchie che si costituiscono e regolamenti che si stabiliscono. Si crea un sistema di combinazione, con i suoi determinismi, i suoi cicli, le sue probabilità, i suoi rischi. È questo l'ecosistema, che lo si consideri a livello di una piccola nicchia o dell'intero pianeta. Detto in altri termini, esiste un fenomeno di integrazione naturale tra vegetali, animali, ivi compreso l'uomo, da cui deriva una sorta di essere vivente che è l'ecosistema. Questo "essere vivente" è estremamente robusto e, al tempo stesso, estremamente fragile. Estremamente robusto, poiché si riorganizza quando, per esempio, appare una nuova specie o scompare una specie che aveva un suo posto nella catena delle complementarietà; così si sono evoluti gli ecosistemi, senza perire, fino a questo secolo, a dispetto dei massacri che compiva l'uomo cacciatore, a dispetto delle strutturazioni che effettuava l'uomo agricoltore, a dispetto delle prime forme di inquinamento che provocava l'uomo urbano. Il carattere auto-riorganizzatore spontaneo è la forza dell'ecosistema. Ma, al pari di un essere vivente, esso può essere ucciso se gli si inietta un veleno chimico a dosi che provocano la morte a catena di specie legate le une alle altre e se si alterano le condizioni elementari della vita – come la riproduzione del plancton marino, per esempio. Già si vedono laghi morti, campi privi di vita animale.

Qui, occorre comprendere una cosa: il problema più grave non è tanto che l'uomo utilizzi e dilapidi l'energia naturale: di energia ne troverà da vendere nell'irradiazione solare e nell'atomo. Non lo è neanche il fatto che egli scarichi nell'ambiente i suoi rifiuti: ogni essere vivente è escrementizio e "inquina" l'ambiente in cui vive. Ma gli escrementi entrano in un ciclo naturale: biodegradabili, essi sono anche bionutritivi. Il rischio è nel veleno che degrada senza poter essere a sua volta degradato, riversato in quantità tali da degradare l'organizzazione complessa degli ecosistemi. Ora, degradare l'ecosistema significa degradare l'uomo, poiché l'uomo, come ogni animale, si nutre non soltanto di energia ma anche, come ha detto Schrödinger, di neghentropia, vale a dire di ordine e di complessità.

Qui interviene un dato fondamentale che è stato ignorato dal pensiero occidentale. Cioè che l'essere vivente, e a fortiori l'uomo, è un sistema aperto. Un sistema chiuso, per esempio un minerale, non effettua alcuno scambio con l'ambiente esterno; un sistema aperto vive soltanto in virtù del fatto che è alimentato dall'esterno, vale a dire, nel caso dell'essere vivente, dall'ecosistema. Ogni sistema aperto vivente (auto-organizzatore) è, evidentemente, relativamente indipendente nell'ecosistema: sviluppa il suo determinismo per rispondere ai rischi esterni e le sue "libertà" per rispondere al determinismo esterno. Esso ha una sua originalità. Ma questa indipendenza è dipendente dall'ecosistema, vale a dire che essa si costruisce moltiplicando i legami con l'ecosistema. Così, per esempio, un individuo autonomo del XX secolo costruisce la sua autonomia partendo dal consumo di una grande quantità di prodotti, di una enorme quantità di energia (tutti estratti dall'ecosistema) e da un lunghissimo apprendimento scolastico (che altro non è se non la conoscenza del mondo esterno). Così, più diventiamo indipendenti, più diventiamo dipendenti dal mondo esterno: è il problema della società moderna che crede, invece, di emanciparsi dal mondo esterno dominandolo.

Aggiungiamo: più un sistema è evoluto, vale a dire complesso e ricco, più è aperto. L'uomo è il sistema più aperto di tutti, il più dipendente nell'indipendenza. Mai la civiltà era dipesa da un numero così vasto di fattori ecosistematici e qui, per ecosistema, non intendo soltanto la natura, ma l'ecosistema tecno-sociale, che si sovrappone al primo e lo rende ancora più complesso. Potrei dimostrare che l'ecosistema non è soltanto nutritivo in materia ed energia: garantisce anche l'organizzazione e l'ordine, nutre l'uomo in neghentropia, è per ogni essere vivente, ivi compreso l'uomo, coautore, cooperatore, coprogrammatore del proprio sviluppo.

È quindi tutta l'ideologia occidentale a partire da Descartes che poneva l'uomo soggetto in un mondo di oggetti, che occorre ribaltare. È l'ideologia dell'uomo unità insulare, monade chiusa nell'universo, contro la quale il romanticismo ha potuto reagire solo poeticamente, contro la quale lo scientismo ha potuto reagire solo meccanicamente facendo anche dell'uomo una cosa.

Il capitalismo e il marxismo hanno continuato a esaltare "la vittoria dell'uomo sulla natura" come se distruggere la natura fosse l'impresa più straordinaria che si potesse compiere. Questa ideologia dei Cortés e dei Pizarro dell'ecosistema ha portato nei fatti al suicidio; la natura vinta è l'autodistruzione dell'uomo.

La coscienza ecologica è:

1° la coscienza che l'ambiente è un ecosistema, vale a dire una totalità vivente auto-organizzatasi (spontanea);

2° la coscienza della dipendenza della nostra indipendenza, vale a dire il rapporto fondamentale con l'ecosistema, che ci porta a rifiutare la nostra visione del mondo oggetto e dell'uomo insulare. Del resto, è il solo modo di comprendere le verità delle filosofie non occidentali – asiatiche e africane –, di riconciliarci con esse e di giungere a una visione universale del mondo. L'uomo deve considerarsi come il pastore delle nucleoproteine – gli esseri viventi – e non come il Gengis Khan del sistema solare. Infine, su un piano pratico immediato, l'uomo deve riconsiderare tutto il problema dello sviluppo industriale.

In un breve lasso di tempo, alcuni spiriti sono passati dall'idolatria della crescita, panacea e parametro assoluto, al suo totale rifiuto come flagello apocalittico. A mio avviso, la vera presa di coscienza ecologica è che: la crescita industriale non è ambito chiuso all'interno del quale devono collocarsi tutti i nostri dibattiti e i nostri problemi politici e sociali; bisogna considerare questa crescita come un feed-back positivo (vale a dire l'aumento di una deviazione riguardo l'ecosistema), come un enorme aumento di entropia (vale a dire di disordine nell'ambiente, di forze di disintegrazione nell'ecosistema) e come una tendenza esponenziale che tende verso l'infinito (vale a dire verso zero, verso la distruzione), come farebbe una spinta demografica non controllata. In realtà, la crescita industriale è ancora meno controllata dell'espansione demografica. Anche in quel caso, si tratta di ribaltare la visione. La risposta non starebbe dunque in una nuova soluzione miracolo, la crescita zero, la condizione stazionaria, ma nella crescita controllata. Ora, tutto ciò pone un problema enorme, che è quello della politica su scala planetaria, poiché è evidente che il controllo della crescita deve venire dai bisogni planetari e non soltanto da quelli delle nazioni industrializzate. Si pongono allora inevitabilmente degli interrogativi: Quale controllo? Chi controllerà? E se si pone la questione dello sviluppo economico in questi termini, occorre anche porre la questione dello sviluppo dell'uomo, vale a dire di una mutazione dell'intera organizzazione sociale.

Il capitalismo è incapace di risolvere il problema del controllo della crescita e, più in generale, il problema ecologico? Questo dipende dal livello al quale si pone il problema ecologico. Se si considera esclusivamente il suo aspetto tecnologico ed economico, allora è possibile — io dico soltanto ma chiaramente possibile — che il capitalismo sia in grado, grazie a uno sforzo tecnologico, di risolvere i problemi di inquinamento: costruire motori d'auto puliti, eventualmente senza benzina, ridurre i numerosi inquinamenti chimici in questo o quel settore dell'industria o dell'agricoltura, ecc. Ciò gli imporrà dei limiti, ma esso può superarli attraverso un aumento di concentrazione e di organizzazioni, soggetto e al tempo stesso stimolato dai controlli dello Stato. In questo senso, l'ecologia può dargli una nuova sferzata, come hanno fatto spesso le crisi economiche, letali nel loro principio, ma talvolta stimolanti nei loro effetti. D'altra parte, potrà svilupparsi un capitalismo ecologico che fabbrichi e venda il non-inquinante, il sano, il rigenerante. Che cosa dico? Tutto questo è già cominciato, e non soltanto in modo mitologico (come la pubblicità dei dentifrici, delle bevande gasate e persino di veleni come il tabacco che ci promettono l'alito fresco), esiste già un capitalismo alimentare, turistico, vacanziero e immobiliare, che vende la natura, il sole, l'acqua pura, la salute, ecc.

A livello fondamentale o radicale, tuttavia, il problema ecologico ci obbliga a prendere in considerazione la ristrutturazione della vita e della società umana. In questo senso, all'ecologismo di "destra", che è prima di tutto tecnologico, si oppone un ecologismo di "sinistra". Le idee di socialismo sono state i miti annunciatori di questa aspirazione; la parola rivoluzione ha espresso la profondità della ristrutturazione necessaria; ma le formule cosiddette socialiste o rivoluzionarie attuali sono a mio avviso le caricature, le deviazioni e gli schemi rudimentali della straordinaria mutazione necessaria. La mia convinzione è che la società non esista ancora. Da mille anni, essa cerca a tentoni una formula, senza però averla mai trovata.

Per esprimere il mio sentimento, mi servirò dell'analisi prebiotica. Prima e perché nascesse la prima cellula vivente, questa meraviglia di organizzazione che è la base di tutti gli organismi che si sono sviluppati a partire da allora, c'è voluto un miliardo di anni di reazioni chimiche, di assemblaggi di macromolecole, fino alla comparsa, per caso o per necessità se ne discute ancora, del primo sistema metabolico autoriproduttore possibile. A mio avviso, la storia umana, attraverso il rumore e il furore, i tentativi e gli errori, è una storia pre-societaria. Per arrivare a un'altra storia, sono necessarie sia la manifestazione di movimenti profondi, quasi inconsci, sia la presa di coscienza elementare di verità prime e di pericoli mortali.

Esiste una critica dell'economia politica da parte dell'ecomovimento. Ora, non si tratta di sostituire, ma di integrare e di superare - ivi compreso l'ecologismo che, isolato e oggetto di ipostasi, diventerebbe una parola feticcio e un mito dello stesso stampo di quelli che l'hanno preceduto. Occorre, a mio avviso, costruire una metateoria e una nuova pratica. Ma, per questo, manca ancora l'essenziale: una scienza dell'uomo che sappia integrare l'uomo nella realtà biologica, determinando i suoi caratteri originari. Senza lo sviluppo di questa scienza, saremmo impotenti come la borghesia sarebbe stata impotente senza lo sviluppo delle tecnologie, come il socialismo in quanto movimento ascendente sarebbe stato impotente senza le teorie sociologiche di Saint-Simon, di Fourier, Proudhon, Bakunin e Marx. Abbiamo bisogno di una teoria dei sistemi auto-organizzatori e degli ecosistemi, vale a dire che occorrre sviluppare una bio-antropologia, una sociologia fondamentale e una ecologia generalizzata. Per questo, non c'è bisogno di affidarsi allo sviluppo delle scienze; quest'ultimo si verifica in modo quantitativo, con mezzi enormi, ma con un enorme disordine, dovuto alla burocratizzazione, alla tecnocratizzazione, alla iperspecializzazione della ricerca scientifica. Le grandi scoperte, le teorie d'avanguardia nascono nelle brecce del sistema, come la scoperta del codice genetico da parte di Watson e Crick, e persino, per citare un esempio preso nell'ambito delle discipline classiche, la decifrazione della "lineare B" di cui parla in modo così esaustivo Vidal-Naquet nella prefazione al libro di John Chadwick. La scienza progredisce oggi in modo statistico, per il numero delle ricerche, e non in modo logico. Jacob Bronowski osserva a buon diritto che il concetto di scienza sul quale viviamo attualmente non è assoluto né eterno. È il concetto di scienza che deve passare a un livello di complessità, di ricchezza, di lucidità più elevato. A mio avviso, la nuova ecologia generalizzata, scienza delle interdipendenze, delle interazioni, delle interferenze tra sistemi eterogenei, scienza al di là delle discipline isolate, scienza realmente transdisciplinare, deve contribuire a questo superamento.

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[2007]



Edgar Morin: Giovanissimo, sono stato sensibile alle Réveries du promeneur solitaire di Jean-Jacques Rousseau. Amavo il mare, la montagna e per lungo tempo non riuscivo a scrivere se non davanti a una finestra aperta sui paesaggi toscani. Ho un bisogno di natura ancorato al profondo del mio essere. Ma è in California, nel 1969-70, che alcuni amici scienziati dell'università di Berkeley hanno destato in me la coscienza ecologica. Lì ho trovato in particolare un articolo di Paul R. Ehrlich sulla morte dell'Oceano che ha avuto su di me una forte influenza. Con le opere di Bateson e di von Foerster, nasceva in me un pensiero ecologizzato. Nel 1972, esce il rapporto Meadows (intitolato in francese Halte à la croissance? [Stop alla crescita?] commissionato dal Club di Roma e "Le Nouvel Observateur" organizza un dibattito per il quale io intitolo il mio intervento "L'anno I dell'era ecologica", convinto che dovesse aprirsi una età nuova di fronte alla devastazione della biosfera. Ma questo segnale di allarme che alcuni di noi, tra cui André Gorz, avevano lanciato non è stato ascoltato, perché nessun indicatore tangibile sembrava confermarlo. Più tardi, dal prosciugamento del Mare d'Aral all'inquinamento del lago Baikal, dalle piogge acide alla catastrofe di Cernobyl, dalla contaminazione delle falde freatiche al buco dell'ozono nell'Antartico, il movimento ecologico ha spiccato il volo e una prima coscienza del deterioramento della biosfera ha stimolato importanti conferenze internazionali, come quella di Stoccolma (1972), di Rio (1992), di Kyoto (1997), che sfortunatamente non hanno saputo creare delle vere e proprie istanze coercitive. Il tasto dolente di questa serie di devastazioni è senza dubbio il riscaldamento climatico, verosimilmente legato alle nostre attività tecno-economiche, come lo testimoniano tanto l'uragano Katrina a New Orleans quanto l'autunno estremamente clemente che abbiamo appena vissuto in Europa. C'è voluto del tempo perché questa coscienza locale e globale progredisse. E Nicolas Hulot e la sua fondazione hanno saputo catalizzare e incarnare in Francia questo momento storico e critico.


Nicolas Hulot: Ecologisti non si nasce, si diventa. E io lo sono diventato gradualmente. Ma si può benissimo avere un'anima naturalista ed essere il peggiore degli ecologisti. Innegabilmente, una sensibilità verso la natura più inasprita predispone, favorisce la presa di coscienza. Proprio come i miei genitori, ho sempre constatato che la vicinanza con la natura mi giovasse più che starne lontano. Ricordo il piacere indescrivibile di vedere mio padre illuminarsi mentre faceva gli innesti di rose in un minuscolo fazzoletto di terra. Ho scoperto di recente che la natura produceva una quantità inimmaginabile di linguaggi chimici, che essa comunica con i ferormoni e numerosi altri modi di trasmissione di messaggi. Tendo a pensare che ho un discreto numero di recettori e che le vibrazioni della natura mi parlano intensamente. Lo spettacolo di un oceano, il fruscio delle foglie, il salto di una gazzella o la visione furtiva delle corna ramificate di un cervo tra due querce nella foresta di Rambouillet destano in me una profonda meraviglia. Sono cose che si constatano, ma che non si possono descrivere. Nel mio cammino iniziatico, ho vissuto choc visivi ed emozionali di grande intensità. Giovane fotografo, mi sono trovato a misurare a grandi passi aree geografiche sublimi, come il Limpopo e lo Zambesi. L'Africa è stata indiscutibilmente la terra dei miei grandi choc umani, naturali ed esistenziali, il continente del risveglio. Tuttavia, ho creduto a lungo che la natura fosse soggetta a imposizioni, che noi vivessimo in un mondo infinito, che l'impatto dell'uomo fosse irrisorio di fronte a questa immensità geografica. L'intensità e la frequenza unica dei viaggi che ho effettuato, in particolare per la trasmissione Ushuaïa, mi hanno consentito di rendermi conto della ristrettezza del nostro pianeta, dell'intensità dei degradi. Gli scienziati come i poeti mostrano che le traiettorie della natura e dell'umanità sono indissolubili, che la nostra comunanza di origine è anche la nostra comunanza di destino. La presa di coscienza si è allora trasformata in convinzione. Persino in terrore, quando mi sono reso conto della fragilità dei nostri mezzi a fronte dell'ampiezza della catastrofe ecologica annunciata. Di qui l'importanza del sostegno di un intellettuale come Edgar Morin, che non ha aspettato che la realtà si imponesse per riflettere sull'origine dei problemi ecologici.


Resistenza, chiave culturale

E.M.: Il nostro modo di pensare inseparabile dal nostro modo di insegnamento, è fondato sulla separazione assoluta tra l'umano e il naturale. Tutto ciò che esiste di naturale nell'umano è relegato nei dipartimenti di biologia delle università e le scienze umanistiche si occupano solo della parte culturale dell'umano. Tutto ciò che è umano è separato dalla natura. All'estremo opposto, alcuni tendono a ridurre l'umano alla natura, al comportamento delle formiche o degli scimpanzè. La rigida divisione in compartimenti delle discipline e delle categorie ci impedisce di stabilire la relazione fra le parti e il tutto. Il pensiero occidentale non sa funzionare se non per separazione o riduzione. Descartes, che voleva che l'uomo fosse "signore e padrone della natura", opera la separazione tra la scienza e la filosofia, cosa che sfocerà in questa separazione tra il mondo delle scienze umanistiche e quello della tecnica. Dopo aver mandato in pensione Dio attraverso la tecnologia, l'uomo si è arrogato il diritto di dominare la natura. Ma questa pretesa è andata in frantumi solo di recente. Da una parte, perché questa volontà di dominare il vivente si rivolge contro noi stessi; dall'altra, perché la Terra ci appare come un minuscolo pianeta di un sistema solare a sua volta periferico in un cosmo gigantesco. L'idea di conquistare il mondo appare grottesca. Occorre anche dire che la separazione tra l'uomo e la natura non deriva unicamente dallo sviluppo della razionalità tecnica occidentale. Il cristianesimo che ci ha plasmato è una religione completamente aperta sull'umano, con i suoi valori cardinali che sono la carità e l'amore, ma chiusa alla natura e al mondo animale. All'opposto, il buddismo immerge l'umano nel ciclo delle riproduzioni del mondo vivente. La compassione del Budda è rivolta a tutte le sofferenze, umane e animali. Siamo quindi ugualmente segnati dall'impronta cristiana della nostra civiltà che ignora il nostro rapporto ombelicale con la natura. Non ci è possibile liberarci di questo pesante fardello religioso e tecnico insieme se non attraverso una riforma del nostro modo di conoscenza e di pensiero.


N.H.: La chiave culturale è operativa almeno quanto la chiave economica in materia ecologica. Quando si legge il libro di Krishnamurti, Liberi dal conosciuto (Roma, Ubaldini, 1973), si vede come eliminare i condizionamenti e i pregiudizi sia un lavoro lungo e dall'esito incerto. La peggiore delle ferite inferte all'amor proprio dell'umanità fu quando Darwin dimostrò che noi non eravamo oggetto di una creazione separata. Dall'alto della piramide del vivente, l'uomo apprese che era nato da una matrice comune con gli animali. Ma questa ferita narcisistica si accompagnò al rifiuto di riconoscere la sua comunanza di origine. E questa ferita non si è ancora del tutto rimarginata, come dimostra la virulenza dei movimenti creazionisti d'oltre-atlantico. Esiste ancora un diniego, un rifiuto a riconoscere la nostra comunità di destino. Tutta la nostra cultura, in particolare religiosa, ha considerato che l'intelligenza umana si misurava in relazione alla sua capacità di affrancarsi dalla natura. Più si pensava di liberarsi dalla natura, più si pensava di materializzare il genio umano. Da centocinquanta anni, abbiamo creduto che il progresso fosse lineare, che il futuro meccanizzato fosse una promessa di felicità. A questa credenza, va ad aggiungersi l'idea che le nostre istituzioni avrebbero sempre una risposta a tutto. Sappiamo sin dai Greci e da Eratostene che la Terra è tonda, ma ci siamo appena resi conto che viviamo in un mondo finito, vale a dire limitato. Ora siamo inadeguati al limite. Certo, c'è da restare abbagliati dalle folgoranti imprese scientifiche. Ma questa onnipotenza della tecno-scienza genera ciò che René Dubos chiama «lo sgomento tragico dell'uomo moderno». L'uomo oggi non è più legato a niente. Questo sgomento è una delle conseguenze psicologiche dell'ipertrofia della tecnica.


Comunanza di destino

E.M.: Abbiamo appreso che siamo venuti da una evoluzione biologica e che siamo anche degli animali, ma abbiamo occultato questo sapere. Lo si sa, ma lo si ignora. Operiamo un vero e proprio black-out della nostra coscienza. Allo stesso tempo, non riusciamo a sentire la nostra comunanza di origine di Homo cosiddetto sapiens. Ciò che voi affermate su questa comunanza di origine è capitale. Gli umani non sentono a sufficienza la sostanza comune che li lega e i problemi pressanti che devono mobilitarli. In Terra-patria, ho voluto evidenziare che esisteva una comunanza di destino fra tutti gli umani perché essi condividono gli stessi pericoli vitali. Ma questo resta non percepito. Infine, il nostro modo di conoscenza ci impedisce di concepire insieme l'unità e la diversità umane. Oppure, si percepisce l'unità umana, e si dimentica la diversità delle culture; o, ancora, si percepisce la diversità delle culture senza comprendere l'unità umana. Tuttavia è ciò che ci permetterebbe di sviluppare una coscienza planetaria, una coscienza umana legata al pianeta pur riconoscendo le singolarità culturali e nazionali. È vitale sviluppare questa coscienza planetaria, così come di mettere radici nella Terra. Perché la nostra Terra non è soltanto una cosa fisica. È una realtà geo-psico-bio-umana. Certo, bisogna essere capaci di distinguere questi diversi aspetti, ma bisogna saperli collegare. Il pensiero complesso che io difendo parte dal latino complexus, che vuol dire "ciò che è tessuto insieme", al fine di operare una tensione permanente tra l'aspirazione a un sapere non parcellare, non compartimentato, non riduttivo, e il riconoscimento dell'incompiutezza e dell'incompletezza di ogni conoscenza.

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