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| << | < | > | >> |IndiceRingraziamenti 1 Premessa 3 PARTE PRIMA L'ECOLOGIA DELLE IDEE Introduzione. Gli idoli della tribù 7 1. Cultura ---> conoscenza 11 ^_____________| Polifonia e polilogica cognitiva 13 La cultura è all'interno 15 Prodotto ---> produttore 16 ^_____________| 2. Determinismi culturali e brodi di coltura 21 L'imprinting e la normalizzazione 21 I brodi di coltura 25 Le condizioni macro-sociali della conoscenza 37 L'urlo e il furore 42 Età dell'oro e buchi neri antropologici 44 L'individuo (scopritore, teorico, pensatore) 48 Appendice 1. La filosofia greca 54 Appendice 2. Nascita, autonomizzazione, metamorfosi della scienza 55 3. La classe intellettuale e le due culture 61 Clericato e intelligencija 61 Cultura umanistica e cultura scientifica 68 4. Complessità della sociologia della conoscenza 77 Società banale e conoscenza banale 77 Le complessità di una sociologia della conoscenza 80 L'alternativa alla banalizzazione 85 Condizioni sociologiche dell'oggettività e della problematizzazione della verità 87 5. Auto-trans-meta-sociologia 95 Auto-trans-meta-sociologia 97 Conclusione. Il ritorno su "hic et nunc" 101 La riproblematizzazione 101 L'era barbara del cogito 103 Il futuro della conoscenza 104 La baraonda 106 Ego 107 PARTE SECONDA LA VITA DELLE IDEE (NOOSFERA) Introduzione. Ricognizioni della noosfera 111 La surrealtà 111 La sub-realtà 112 Verso la noosfera 113 1. Il terzo regno 119 Noosfera e cultura 119 Noosfera-atmosfera 120 Demografia della noosfera 121 Esistenza ed esigenza 124 Prime idee sulle idee 127 La trinità psicosfera/sociosfera/noosfera 129 La realtà noologica 131 Dai miti alle idee 134 2. I sistemi di idee 137 Organizzazione ed etologia delle idee 137 Sistemi filosofici e grandi ideologie 147 Conclusione 160 3. Genesi e metamorfosi della noosfera 161 Le evoluzioni noosferiche 161 Genesi e rivoluzioni noologiche 163 Il marxismo 165 Conclusione 167 PARTE TERZA L'ORGANIZZAZIONE DELLE IDEE (NOOLOGIA) 1. Del linguaggio 171 Un tutto che non è tutto 171 La grande poli-macchina 174 La vita del linguaggio 175 L'essenza del senso 179 Linguaggio naturale/culturale 182 Conclusione 183 2. Razionalità e logica 185 A. La logica sovrana 186 Il nucleo della logica classica 186 L'onto-logica 189 La purificazione logica 191 B. L'indebolimento della logica 192 La breccia incolmabile: la contraddizione 192 L'incompletezza logica 199 C. I limiti della logica deduttiva-identitaria 203 La logica deduttiva-identitaria corrisponde al meccanico e all'atomico 204 La logica deduttiva-identitaria è fuori dal tempo 206 La complessità logica del reale e la complessità reale della logica 207 L'isomorfismo e la corrispondenza complessa 207 D. Logica e pensiero complesso 209 Logica superiore o meta-logica? 209 Contraddizione nel pensiero e nella realtà 212 Pensare con/contro la contraddizione 213 Conservazione e superamento degli assiomi aristotelici 213 Principio di identità complessa e sospensione del terzo escluso 215 Il blocco e l'apertura. Il punto di vista meta-logico 218 Logica e realtà 220 Logica e pensiero 222 Logica e razionalità 225 3. Il retro-pensiero (paradigmatologia) 227 A. Il sovrano sotterraneo 227 Riconoscimento 227 Formulazione 229 I caratteri del paradigma 233 B. Il nodo gordiano 236 I paradigmi fondamentali 236 Il grande paradigma d'Occidente 238 Nodo gordiano 241 Il paradigma della scienza classica 242 Scienza-tecnica-società 246 La piattaforma girevole 248 Della rivoluzione paradigmatica 250 Krisis 254 La battaglia del Mar dei Coralli 257 Conclusione 258 CONCLUSIONE GENERALE Delle idee e degli uomini 261 Per civilizzare l'idea 267 Il problema di tutti e di ciascuno 215 Bibliografia 271 |
| << | < | > | >> |Pagina 3A pensarci bene, questo quarto volume della serie sul Metodo potrebbe benissimo essere il primo. Esso costituisce infatti un'agevole introduzione sia alla conoscenza della conoscenza sia, inscindibilmente, al problema e alla necessità di un pensiero complesso. In effetti, la ricerca tesa a "ben governare la propria ragione e a cercare la propria verità nelle scienze" avrebbe potuto, anziché dal mondo interrogato e concepito dalle nostre idee, muovere da un'interrogazione e da un'apprensione rivolte proprio alle idee, alla loro natura, alla loro organizzazione, e alle condizioni che ne favoriscono l'emergenza. Detto questo, il presente volume va considerato come il proseguimento di quanto ha preceduto. Così, all' antropologia della conoscenza, che considera la conoscenza dal punto di vista delle condizioni psico-cerebrali che presiedono alla sua formazione, fa naturalmente seguito l'ecologia della conoscenza, la quale considera la conoscenza dal punto di vista delle condizioni sociali-culturali-storiche che presiedono alla sua formazione; viene poi l'esame "noologico", che considera la conoscenza dal punto di vista dell'esistenza e dell'organizzazione del mondo delle credenze e delle idee. Questi ultimi due punti di vista si succedono nel presente volume, intitolato: Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi. Mentre l' antropologia della conoscenza prende in considerazione la conoscenza intesa nel senso più ampio, dalla percezione fino ai miti e alle idee, l'angolazione del presente libro si limita alle idee. Con questo non voglio affatto sottintendere che la percezione sfugga alle leggi, ai modelli e alle norme della cultura, ma semplicemente precisare che d'ora in poi concentrerò il mio discorso su quella conoscenza che rientra in modo specifico nella sfera del linguaggio. Peraltro, anche se dovrò a più riprese esaminare la conoscenza che si esprime attraverso il mito, e soprattutto quella conoscenza che ritiene di essere razionale mentre in realtà è sottesa da miti occulti, mi dedicherò prevalentemente alle idee, teorie, dottrine, "ideologie" (tornerò più avanti su questi termini). Il presente libro tralascia l'immenso e fondamentale problema della conoscenza ordinaria, quotidiana, "volgare". È stato probabilmente un difetto di impostazione a impedirmi di attribuire il posto fondamentale che gli compete al problema (prima dimenticato, poi richiamato alla mia attenzione da Roger Lapointe) del "buon senso", al tempo stesso particolare in ogni cultura e dotato di una universalità che le attraversa tutte. Tale problema è anche quello della ricchezza prodigiosamente complessa delle lingue comuni, da cui partono e a cui ritornano scrittori, poeti e pensatori. Proprio questa ricchezza rende possibili le combinazioni spontanee — che la producono — tra un pensiero empirico-razionale "ordinario" e un pensiero metaforico-analogico anch'esso "ordinario", entrambi attivi in modi diversi e in vario grado in ogni essere umano e in qualsiasi cultura. Credo che la conoscenza quotidiana sia, in ogni cultura, una formidabile mescolanza di percezioni sensoriali e di elaborazioni ideo-culturali, di razionalità e di razionalizzazioni, di intuizioni vere e false, di induzioni giustificate ed errate, di sillogismi e di paralogismi, di idee preconcette e di idee inventate, di saperi profondi, di saggezze ancestrali sorte da fonti misteriose e di superstizioni senza fondamento, di credenze inculcate e di opinioni personali. Spesso tale conoscenza è molto limitata rispetto a quelle dotte, ma le conoscenze dotte spesso sono molto limitate rispetto all'ingenua conoscenza ordinaria. Comunque sia, il lettore si accorgerà che io non sto dalla parte degli scribi e dei farisei, dalla parte dei preziosi e dei Diafoirus, dalla parte di coloro che, per funzione e per mestiere, si ritengono detentori dei Lumi. Infine, così come volli ricordare che ogni conoscenza umana scaturisce incessantemente dal mondo della vita, nel senso biologico del termine, desidero ricordare ora che ogni conoscenza filosofica, scientifica o poetica scaturisce dal mondo della vita culturale ordinaria. | << | < | > | >> |Pagina 7Nostro malgrado, siamo del nostro secolo. A. Comte Proprio agli albori dello sviluppo della scienza occidentale Bacone comprese quali servitù socio-culturali pesino su ogni conoscenza e, al tempo stesso, quanto sia necessario svincolarsi da esse. Egli aveva visto che il pensiero può venire influenzato inconsciamente dagli "idoli della tribù" (peculiari della società), dagli "idoli della caverna" (peculiari dell'educazione), dagli "idoli del foro" (nati dalle illusioni del linguaggio), dagli "idoli del teatro" (nati dalle "tradizioni"). Infatti, tradizione, educazione, linguaggio sono gli elementi nucleari della cultura e costituiscono tutti insieme gli idoli della società ("tribù"). È dunque ammirevole che Bacone, proprio nel diagnosticare le determinazioni socio-culturali della conoscenza, precisasse che la missione della conoscenza è quella di emanciparsi da esse per farsi scienza. Ma si dovette aspettare l'inizio del secolo XX per riflettere sulle condizioni sociologiche di emancipazione della conoscenza, e la fine dello stesso secolo per scoprire che la scienza stessa può inconsciamente obbedire agli idoli. La sociologia della conoscenza è, nelle sue origini, uno sforzo assai potente per cercare di concepire sia i vincoli socio-storici cui la conoscenza non può in nessun caso sfuggire, sia le condizioni socio-storiche grazie alle quali è possibile una relativa emancipazione della conoscenza rispetto a tali vincoli. Così Max Weber ha cercato nei processi complessi di formazione del capitalismo le condizioni di emergenza della razionalità moderna. Merton ha creduto di dimostrare che dopo un periodo di gestazione interagente con bisogni e forze sociali la razionalità scientifica, una volta costituitasi, si emancipa da questi bisogni e da queste forze, trascendendo così le condizioni della propria formazione. Di conseguenza egli ha potuto conciliare il credo sociologico (ogni conoscenza è socialmente determinata) con il credo scientifico (la conoscenza scientifica è di verità universali e sfugge quindi alle particolari condizioni della propria formazione). Mannheim, per parte sua, ha trovato nella situazione sociologica più o meno sradicata dell'intelligencija, classe votata alla conoscenza e alle idee, la fonte dell'eventuale autonomia della conoscenza e delle idee rispetto alla società da cui sono scaturite. Ma a queste sociologie "ottimiste" si sono contrapposte sociologie "pessimiste". Horkheimer e Adorno affermano che la razionalità acquisita può degradarsi nella stessa prosecuzione dei processi che ne hanno reso possibile la formazione (lo sviluppo capitalista), e che i caratteri operazionali della razionalità si sono lasciati catturare e usare da forze sociali irrazionali. Il marxismo dogmatico ha ridotto addirittura la scienza contemporanea a "ideologia del dominio sul mondo da parte della borghesia conquistatrice" oppure a ideologia dell'era del capitalismo monopolista. Infine, all'apertura mannheimiana si contrappone oggi la chiusura di Bourdieu. L'intelligencija "senza radici" cede il posto a una rigida compartimentazione socio-culturale degli intellettuali, all'interno della quale ciascuno si trova sottomesso al determinismo del proprio "habitus". La sociologia della conoscenza oscilla così tra un emancipazionismo in cui, al limite, la ragione e la scienza si strappano dal suolo sociale e spiccano il volo, e un rigido determinismo di una società che produce conoscenze destinate a garantire le sue funzioni e la sua riproduzione. L'emancipazionismo "ingenuo" si fonda sull'idea che soltanto l'errore è prigioniero delle condizioni sociali o culturali in cui si è formato (il conformismo, il dominio di un gruppo dogmatico ecc.), e considera la verità come lo scaturire meta-sociale di un adeguamento al reale. Tuttavia, Bloor fa bene a ritenere che la causalità sociologica vada applicata non solo agli errori scientifici e alle idee irrazionali, ma anche alle teorie vere e razionali. Quando Bloor fa di ogni conoscenza scientifica, vera o falsa che sia, un prodotto di determinismi sociali, toglie alla verità scientifica il suo privilegio sovra-sociale. A questo punto, cade nella contraddizione tipica di ogni sociologia determinista, per cui la sociologia diventa essa stessa un prodotto specifico dei determinismi di una società hic et nunc, e perde il suo privilegio di verità. Una simile sociologia della conoscenza, proprio in virtù dei principi che l'autorizzano a ridurre la conoscenza scientifica alle condizioni sociali e storiche della sua formazione, diventa essa stessa un prodotto storico peculiare di un certo tipo di società, abbattendo così il trono sovrano sul quale crede di insediarsi. D'altronde, la validità del determinismo sociologico non si situa affatto al di sopra di ogni dubbio. Il principio del determinismo generalizzato è un postulato oggi abbandonato nelle scienze naturali e sarebbe sorprendente se potesse rimanere intatto nell'universo particolarmente complesso delle realtà umane. Non si capisce per quale motivo un determinismo rigido debba regnare nella sfera del pensiero, della cultura e della società, più complessa della sfera della fisica o della biologia. In compenso, si capisce benissimo perché una sociologia fondata su un ideale deterministico non possa concepire né la complessità sociale, né la complessità cognitiva, né la necessità di un pensiero sociologico complesso. Infine ricordiamo, per coloro che preferirebbero dimenticarselo, che la sociologia della conoscenza è ancora inferma: il suo determinismo è grossolano o vago, le sue capacità di verifica insufficienti; essa non dispone di principi o strumenti cognitivi sicuri. I mali di cui soffre in particolar modo sono la stessa miseria paradigmatica della sociologia, la sua debolezza teorica, le "mode e i dogmi incontrollati" ( Popper ) che continuamente la invadono. Tutto questo porta all'impossibilità di sottomettere incondizionatamente la conoscenza alla sociologia della conoscenza, l'idea alla sociologia dell'idea, la scienza alla sociologia della scienza. Certo, ogni conoscenza, compresa quella scientifica, è radicata, inscritta in, e dipendente da, un contesto culturale, sociale, storico. Ma si tratta appunto di sapere quali siano queste inscrizioni, questi radicamenti, queste dipendenze, e di chiedersi se possano esistere, e in quali condizioni, una certa autonomizzazione e una relativa emancipazione della conoscenza e dell'idea. La sociologia della conoscenza non può occultare il motore primo di ogni scienza, vale a dire la ricerca di una conoscenza vera, poiché a giustificare e a dare un senso alla stessa sociologia della conoscenza è proprio la ricerca di una conoscenza vera sulla conoscenza. E tale sociologia non può occultare la problematica della verità, in quanto essa studia conoscenze che pretendono di essere vere, e presuppone la verità della propria conoscenza. Diciamo subito che nessuna sociologia può sciogliere il nodo gordiano della verità della sociologia. Perché la sociologia della conoscenza possa trovare la propria verità, occorre che essa si ponga il problema meta-sociologico (andando oltre la sociologia e contemporaneamente inglobandola) della verità. Questo significa che deve riferirsi a criteri di verità, dipendenti da un hic et nunc, ma non strettamente riducibili all' hic et nunc, e che deve essere, in virtù di tali criteri, capace di considerare se stessa da un meta-punto di vista. Del resto, conformemente alla logica di Tarski (un sistema semantico non dispone di tutti i mezzi necessari per spiegare se stesso), la sociologia non può bastare a se stessa, né per conoscersi, né per conoscere la società di cui fa parte; deve sia superare, sia articolare, sia integrare il proprio sistema di conoscenza in un sistema di conoscenza più ampio e più ricco (questa possibilità verrà presa in considerazione nei capitoli 4 e 5), e tale sistema di conoscenza più ampio e più ricco deve ovviamente includere una sociologia della conoscenza. Infine, perché la sociologia della conoscenza abbia qualche probabilità di verità, occorre che sia capace di concepire le condizioni sociologiche delle probabilità di verità. In questo senso, una sociologia della conoscenza deve porsi il problema delle possibilità di autonomia della conoscenza e, correlativamente, delle condizioni di emergenza della libera critica, dell'oggettività, della razionalità, senza considerare tuttavia che ciò potrebbe decidere della verità delle conoscenze che nascono in tali condizioni. | << | < | > | >> |Pagina 11Benché le condizioni socio-culturali della conoscenza siano per natura affatto diverse dalle condizioni bio-cerebrali, le une e le altre sono legate assieme a mo' di nodo gordiano: le società possono esistere, le culture formarsi, conservarsi, trasmettersi, svilupparsi, soltanto attraverso le interazioni cerebrali/intellettuali tra individui. La cultura, peculiarità della società umana, è organizzata/organizzatrice attraverso il veicolo cognitivo costituito dal linguaggio, a partire dal capitale cognitivo collettivo delle conoscenze acquisite, dei saper-fare appresi, delle esperienze vissute, della memoria storica, delle credenze mitiche di una società. Così si manifestano "rappresentazioni collettive", "coscienza collettiva", "immaginario collettivo". E la cultura, sfruttando il suo capitale cognitivo, instaura le regole/norme che organizzano la società e governano i comportamenti individuali. Le regole/norme culturali generano processi sociali e rigenerano globalmente la complessità sociale acquisita dalla stessa cultura. La cultura non è, dunque, né "superstruttura", né "infrastruttura", termini impropri in una organizzazione ricorsiva dove ciò che è prodotto e generato diventa produttore e generatore di ciò che lo produce o lo genera. Cultura e società stanno in mutua relazione generatrice, e in questa relazione non dobbiamo dimenticare le interazioni tra individui, i quali a loro volta sono portatori/trasmettitori di cultura; tali interazioni rigenerano la società, la quale rigenera la cultura. Se la cultura contiene in sé un sapere collettivo accumulato nella memoria sociale, se essa racchiude principi, modelli, schemi di conoscenza, se genera una visione del mondo , se il linguaggio e il mito sono parti costitutive della cultura, allora la cultura non include solo una dimensione cognitiva: è una macchina cognitiva la cui prassi è cognitiva. In questo senso si potrebbe dire per metafora che la cultura di una società è simile a una sorta di mega-computer complesso, in grado di memorizzare tutti i dati cognitivi, e che, portatrice di quasi-software, essa prescrive le norme pratiche, etiche, politiche di tale società. In un primo senso, il grande computer è presente in ogni intelletto/cervello individuale dove ha scritto le sue istruzioni e in cui prescrive le sue norme e i suoi comandamenti; in un altro senso, ogni intelletto/cervello individuale è simile a un calcolatore, e l'insieme delle interazioni tra questi calcolatori costituisce il Grande Computer. Nelle società arcaiche, tale "computer" si costituisce e si rigenera continuamente a partire dalle interazioni tra gli intelletti/cervelli individuali. Negli antichi imperi o reami, come giustamente ha osservato Manuel de Dieguez, gli Dei (in realtà la sfera teologico-politica) costituiscono i "Grandi Computer... che memorizzano e sintetizzano tutti i dati orali, strategici, politici di una civiltà". Quei Grandi Computer si ricostituiscono e si rigenerano incessantemente a partire dalle menti dei Maghi/Sacerdoti/Iniziati. Il Grande Computer è presente in ogni intelletto/cervello dei soggetti del reame, dove può disporre simultaneamente di un santuario e di una torre di guardia. Una cultura apre e chiude le potenzialità bio-antropologiche della conoscenza. Le apre e le attualizza fornendo agli individui il suo sapere accumulato, il suo linguaggio, i suoi paradigmi, la sua logica, i suoi schemi, i suoi metodi di apprendimento, di investigazione, di verifica ecc., ma al tempo stesso le chiude e le inibisce con le sue norme, le sue regole, i suoi divieti, i suoi tabù, il suo etnocentrismo, la sua auto-sacralizzazione, il suo ignorare la propria ignoranza. Anche in questo caso, ciò che apre la conoscenza è ciò che chiude la conoscenza. Come vedremo più avanti (pp. 236-237), c'è una unità primordiale alla fonte sia dell'organizzazione della società sia dell'organizzazione delle idee, delle credenze e dei miti: per esempio, l'organizzazione tripartita della società presso gli indo-europei si ritrova, secondo Dumézil, nell'organizzazione tripartita del mondo divino; vedremo anche come le idee, le credenze, i simboli e i miti siano non solo potenze e valori cognitivi, ma anche forze sociali di collegamento/coesione. | << | < | > | >> |Pagina 13POLIFONIA E POLILOGICA COGNITIVAIl cervello dispone sia di una memoria ereditaria che di innati principi organizzatori di conoscenza. Ma fin dalle prime esperienze nel mondo, l'intelletto/cervello acquisisce una memoria personale e integra in sé principi socio-culturali di organizzazione della conoscenza. L'essere umano, fin dalla nascita, conosce, tramite esso, per esso, in funzione di esso, ma anche tramite la famiglia, la tribù, la cultura, la società, per esse, in funzione di esse. Così, la conoscenza di un individuo si nutre sia di memoria biologica sia di memoria culturale, entrambe associate nella sua memoria personale; essa obbedisce a varie entità di riferimento che si trovano diversamente presenti in essa. Qui sorge una drastica differenza rispetto ai computer fabbricati dall'uomo, i quali non dispongono di più tipi e varietà di memoria e non portano costituzionalmente in sé una molteplicità ego-geno-etno-socio-referente. Infine, non sono simultaneamente comandati/controllati da software diversi. Se è possibile chiamare "software" un insieme di principi, regole e istruzioni che comandano/controllano operazioni cognitive, è anche possibile dire che le attività cognitive dell'essere umano emergono da inter-retro-azioni dialogiche tra un poli-software di origine bio-cerebrale e un poli-software di origine socio-culturale, ognuno dei quali racchiude istanze complementari, concorrenti e antagoniste. La percezione delle forme e dei colori, l'identificazione degli oggetti e degli esseri obbediscono alla congiunzione di schemi innati e di schemi culturali di riconoscimento. Tutto ciò che è linguaggio, logica, coscienza, tutto ciò che è intelletto e pensiero si costituisce nell'incontro di questi due poli-software, vale a dire nel processo ininterrotto di un anello bio-antropo (-cerebro-psico) -culturale. L'ipercomplessa macchina cerebrale racchiude un poli-software perché racchiude la dialogica bi-emisferica, la dialogica triunica, la dialogica tra due principi di traduzione, uno continuo (analogico), l'altro discontinuo (digitale, binario). Per parte sua, l'ipercomplesso macchinario socio-culturale racchiude non solo un nucleo organizzativo profondo (paradigmatico) che comanda/controlla l'uso della logica, l'articolazione dei concetti, l'ordine dei discorsi, ma anche modelli, schemi, principi strategici, regole euristiche, pre-costruzioni intellettuali, strutturazioni dottrinarie. Infine, e soprattutto, le culture moderne giustappongono, alternano, contrappongono, complementarizzano una vastissima diversità di principi, regole, metodi di conoscenza (razionalisti, empiristi, mistici, poetici, religiosi ecc.). Vediamo così apparire la complessità generica della conoscenza umana. Non è soltanto la conoscenza di un cervello dentro un corpo, e di una mente dentro una cultura: è la conoscenza generata in modo bio-antropo-culturale da un intelletto/cervello in un hic et nunc. Inoltre, non è soltanto la conoscenza egocentrica di un soggetto su di un oggetto, è la conoscenza di un soggetto che porta in sé anche geno-centrismo, etno-centrismo, socio-centrismo, cioè più centri-soggetti di riferimento. Le attitudini organizzatrici del cervello umano hanno bisogno per attuarsi di condizioni socio-culturali, le quali per organizzarsi hanno bisogno delle attitudini della mente umana. I "software" culturali che co-generano le conoscenze dell'intelletto/cervello sono stati anch'essi storicamente co-generati da interazioni tra intelletti/cervelli. La cultura è negli intelletti, vive negli intelletti, i quali sono nella cultura, vivono nella cultura. Il mio intelletto conosce attraverso la mia cultura, ma, in un certo senso, la mia cultura conosce attraverso il mio intelletto. E quindi le istanze produttrici della conoscenza si co-producono reciprocamente; c'è sia unità ricorsiva complessa tra produttori e prodotto della conoscenza, sia relazione ologrammatica tra ognuna di queste istanze produttrici e prodotte, poiché ciascuna contiene le altre e, in questo senso, ciascuna contiene il tutto in quanto tutto. Ciò significa non solo che ogni minima conoscenza include componenti biologiche, cerebrali, culturali, sociali, storiche. Significa soprattutto che la più semplice idea necessita congiuntamente di una formidabile complessità bio-antropologica e di una iper-complessità socio-culturale. Parlare di complessità vuol dire, come abbiamo visto, parlare di una relazione simultaneamente complementare, concorrente, antagonista, ricorsiva e ologrammatica tra queste istanze co-generatrici della conoscenza. Soltanto questa complessità ci permette di comprendere la possibilità di autonomia relativa dell'intelletto/cervello individuale. Quest'ultimo è un elemento di un mega-computer culturale, ma tale mega-computer è costituito dalle connessioni tra quei computer relativamente autonomi che sono appunto gli intelletti/cervelli individuali. Anche quando è comandato e controllato dai vari software di cui abbiamo parlato, l'individuo dispone sempre del suo computer personale. La mente individuale può, di conseguenza, autonomizzarsi rispetto alla sua determinazione biologica (attingendo alle sue fonti e alle sue risorse socio-culturali) e rispetto alla sua determinazione culturale (utilizzando la sua attitudine bio-antropologica a organizzare la conoscenza). La mente individuale può trovare la sua autonomia giocando sulla doppia dipendenza che al contempo la vincola, la limita e la nutre. Può giocare perché vi è gioco, vale a dire iati, vuoti, sfasature tra il bio-antropologico e il socio-culturale, tra l'essere individuale e la società. Come avremo modo di vedere (nel prossimo capitolo), la mente individuale dispone in maggior misura di possibilità di gioco, come anche di autonomia, proprio quando nella cultura stessa vi è gioco dialogico dei pluralismi, moltiplicarsi di crepe e rotture in seno alle determinazioni culturali, possibilità di amalgamare la riflessione con il confronto, possibilità di esprimere un'idea anche deviante. Quindi la possibilità di autonomia della mente individuale è inscritta nel principio della sua conoscenza, e ciò vale tanto a livello della sua conoscenza ordinaria quotidiana, quanto a livello del pensiero filosofico e scientifico. | << | < | > | >> |Pagina 68CULTURA UMANISTICA E CULTURA SCIENTIFICALe nostre società contemporanee sono policulturali, e comprendono la loro cultura religiosa – o le loro culture religiose –, la loro cultura nazionale (che integra eventualmente culture etno-regionali), una "cultura di massa" sincretica (veicolata dai grandi mass-media), la cultura scientifica e, infine, quella che due secoli fa veniva considerata la cultura e che chiameremo qui "cultura umanistica": quest'ultima ingloba le lettere classiche, la filosofia e, come vedremo, una parte di quelle che chiamiamo "scienze umane". Esamineremo qui soltanto il problema posto dalla disgiunzione, dalla differenziazione e dalla contrapposizione tra cultura umanistica e cultura scientifica.
L'una e l'altra, ricordiamo, provengono dalla medesima fonte
greca, emergono dal medesimo fenomeno storico (il Rinascimento), ubbidiscono
alla medesima regola fondamentale (lo scambio di
argomentazioni e la discussione critica) e ai medesimi valori supremi (etica del
conoscere per conoscere, ricerca della verità). Esse si
distinguono e si dissociano progressivamente nel corso dei secoli
XVII e XVIII, pur continuando a coesistere nelle medesime menti
(filosofi/scienziati) o a dialogare tra menti differenti (enciclopedisti),
finché non si opera radicalmente, a partire dal secolo XIX, la grande
disgiunzione tra le due culture, ognuna ormai con il proprio regno,
la propria modalità interna di organizzazione, le proprie istituzioni, la
propria intelligencija. Possono ancora, talvolta, coesistere in
un medesimo individuo (Einstein e il suo violino) ma, salvo eccezioni, non
possono più simbiotizzare in lui. La scissione tra intelligencija umanistica e
intelligencija scientifica corrisponde a una rottura grave in seno alla cultura.
La cultura umanistica La cultura umanistica si è sviluppata dal Rinascimento al secolo XVIII. Provocando il progressivo regredire dell'ascendente teologico sul mondo naturale e sul mondo temporale, essa ha scongelato tutti i grandi problemi che si pone la mente umana. Come dice la parola stessa, la cultura "umanistica" è antropo-centrata: è animata dalla necessità di chiarire la condizione e il comportamento dell'uomo; si preoccupa della situazione dell'uomo nel mondo, del bene, del male, della società. Fino alla fine del XVIII secolo, il quantitativo disponibile di informazioni riguardanti l'uomo e il mondo era ancora abbastanza limitato e abbastanza intelligibile perché la mente di un "onest'uomo", che avesse la possibilità di dedicarsi appunto alla cultura, potesse engrammarlo, interrogarlo e meditarlo. Era quindi possibile organizzare il sapere a partire dai vari principi o postulati in competizione (deismo, razionalismo, scetticismo, materialismo, ecc.). Da qui una grande possibilità di riflessione sui problemi fondamentali del bene e del male, dell'esistenza o dell'inesistenza di Dio, della natura umana, della società, del senso della vita ecc.
Nell'età dell'oro della cultura umanistica, la differenziazione tra
letteratura e filosofia era debole: il saggio, sforzo riflessivo e propositivo
sui più svariati argomenti, si muoveva tra letteratura e filosofia. Da Montaigne
a Diderot, da Machiavelli a Vico, per esempio, il
saggismo irradiava su tutti i campi e problemi. La filosofia non si era
ancora rinchiusa nell'istituzione universitaria, e la letteratura non si
era ancora ripiegata sulla scrittura. Certo, ancora oggi il saggio continua la
sua opera di comunicazione tra la sfera della scrittura e
quella delle idee, affrontando problemi morali, filosofici, politici.
Ma è difficile che il saggismo possa accedere alle fonti verificate di
conoscenza, ormai controllate dalle discipline e dalle teorie scientifiche. Non
può neppure accedere alla filosofia, rinchiusasi nel suo
linguaggio esoterico. Più largamente, la cultura umanistica è ormai
incapace di rispondere alle sue stesse domande fondamentali. Non
ha perso solo la sua egemonia, ma anche la sua pertinenza.
La cultura scientifica Lo sviluppo della cultura scientifica determina non solo una "frattura epistemologica" tra filosofia e scienza, ma anche una rottura ontologica tra cultura scientifica e cultura umanistica. Infatti, morale e conoscenza erano strettamente comunicanti nella cultura umanistica, mentre la cultura scientifica si fonda invece proprio su una disgiunzione primigenia tra giudizi di valore e giudizi di realtà. La cultura umanistica è una cultura generale, mentre la cultura scientifica diviene una cultura di specializzazioni. La mente può accedere facilmente alle conoscenze della cultura umanistica, ma non a quelle della cultura scientifica. Mentre le informazioni di cui disponeva la cultura umanistica sono aumentate soltanto di poco fino al secolo XVIII, è l'accrescimento esponenziale delle conoscenze a caratterizzare la cultura scientifica. Tali conoscenze si rinchiudono ormai all'interno delle discipline e si esprimono attraverso linguaggi formalizzati inaccessibili al profano; per una mente che volesse interamente dedicarsi a esse, ormai è diventato impossibile engrammarle e comprenderle tutte. La conoscenza scientifica è fortemente organizzata ma, a differenza della cultura umanistica, è organizzata secondo le modalità della formalizzazione, che disincarna esseri e cose, della riduzione, che disintegra i fenomeni complessi a beneficio delle loro componenti semplici, e della disgiunzione, che distrugge ogni legame tra le entità separate dalla classificazione. Tale modo di conoscenza opera la disgiunzione tra la Natura e l'Uomo, che si estraniano l'uno dall'altra, oppure la riduzione del più complesso al meno complesso, vale a dire dell'umano al biologico e del biologico al fisico. Ma c'è di più: fino alla resurrezione del cosmo negli anni Sessanta, il mondo era stato disintegrato a beneficio della materia/energia e dello spazio/tempo. Fino alla comparsa delle nozioni di ecosistema e di biosfera, l'idea di Natura era stata rimandata alla sola poesia. Oggi, l'idea di vita, dissolta dalla biologia molecolare, non ha ancora effettuato il suo ritorno. Infine, nelle scienze umane si continua a credere che debba essere eliminata l'idea di uomo, ritenuta inutile in economia o in demografia, e secondo alcuni molto ingombrante in sociologia e in psicologia. Quando il mondo, la vita, l'uomo perdono significato, diventa assurdo e impossibile porre il problema del senso o del destino dell'uomo nella vita e nel mondo, e certi specialisti sono convinti che questo problema sia addirittura tipico dell'arretratezza mentale. Diventa assurdo e impossibile collegare un oggetto parcellizzato e un sapere unidimensionalizzato, dipendenti da una conoscenza disciplinare, con i problemi concreti e globali del comportamento umano. La comunicazione tra la riflessione e la conoscenza è interrotta, e la rottura, originariamente necessaria, tra giudizi di fatto e giudizi di valore diventa, in questo contesto, rottura tra le nostre conoscenze e le nostre esistenze. Così, la rottura di fatto e di diritto operatasi tra le due culture è radicale. Il ripristino delle comunicazioni tra la cultura umanistica e la cultura scientifica non dipende minimamente dalle pie intenzioni e dalla buona volontà. Le due culture non possono comunicare perché sono diverse per struttura e per organizzazione. Possono soltanto coesistere schizofrenicamente in una stessa mente. Soltanto con difficoltà, in modo clandestino e marginale possono reciprocamente fecondarsi. | << | < | > | >> |Pagina 147SISTEMI FILOSOFICI E GRANDI IDEOLOGIEI sistemi filosofici Distinguiamo: - i sistemi di idee il cui campo di pertinenza è limitato alla sola conoscenza (teorie scientifiche); - i sistemi di idee che legano strettamente fatti e valori che hanno quindi un aspetto normativo (teorie non scientifiche, dottrine, sistemi filosofici, ideologie politiche); - i sistemi di idee contrassegnati da una pretesa esplicativa universale (grandi dottrine, grandi sistemi filosofici, grandi ideologie). I sistemi filosofici, almeno nella loro forma laicizzata, sono alquanto tardivi nella storia delle società e la loro sfera è marginale. Certo, a sottendere le mitologie, vi sono concezioni antropologiche e cosmologiche che oggi potremmo tradurre in filosofie. All'interno di tutte le grandi religioni si sono costituite armature di idee che in qualche caso sarebbero degli autentici sistemi filosofici se non si integrassero in esse come struttura legittimante, e persino razionale, della Fede e del Culto. La grande eccezione si situa nell'area del buddhismo, che è a sua volta una religione eccezionale, o piuttosto una concezione del mondo e della vita che ha dato nascita a correnti filosofiche più o meno pervase da culti. La grande originalità dei sistemi buddhisti rispetto a quasi tutti i sistemi filosofici occidentali è data dal fatto che tali sistemi hanno nel vuoto o nel nulla il loro punto di partenza e di arrivo. In Europa, i sistemi laici di idee costituitisi in visioni del mondo, della vita, dell'uomo, del reale appaiono nelle isole greche sei secoli prima della nostra era. Uno spazio autonomo, propizio al libero sviluppo dei sistemi filosofici, viene istituito un secolo dopo ad Atene. Tale spazio si dispiegherà nell'Impero romano, ma, una volta divenuta religione ufficiale, la Chiesa cristiana farà pesare il suo interdetto sulla filosofia laica. Certo, il cristianesimo medioevale saprà integrare l'aristotelismo come sottosistema, e all'ombra della Croce potranno confrontarsi anche alcune dottrine filosofiche a sovranità limitata. Il Rinascimento opera la resurrezione di uno spazio filosofico destinato a raggiungere due secoli dopo la propria piena autonomia, che però non sarà mai definitivamente garantita. Nel XX secolo, il potere staliniano sopprimerà lo spazio filosofico e il potere nazista espellerà le idee malate. La sfera filosofica è quindi storicamente recente e fragile; essa è sempre più socialmente limitata a una casta di filosofi che, a partire dal XX secolo, si chiude nelle università. Infine, lo sviluppo delle scienze si è operato rimuovendo le idee filosofiche o negando loro ogni pertinenza. Pure, sono lo sforzo e lo slancio filosofici ad aver avviato e stimolato il processo di laicizzazione che ha formato la società europea moderna; è dal crogiolo filosofico che sono uscite tutte le grandi ideologie che hanno animato la storia politica e sociale delle nazioni europee e ancora animano quella del mondo. A partire dal Rinascimento, la reinterrogazione del mondo, dopo che Cristoforo Colombo ebbe ampliato la Terra e che prima Copernico, poi Galileo, ebbero ridimensionato il suo posto nel cielo, la reinterrogazione di Dio, la reinterrogazione dell'uomo, l'interdipendenza di queste reinterrogazioni determinano una problematizzazione generalizzata. La perdita degli antichi fondamenti di intelligibilità e di credenza suscita la ricerca incessante di nuovi fondamenti e la formazione ininterrotta di nuovi sistemi filosofici, i quali pongono più problemi di quanti non ne risolvano, il che rilancia senza sosta la ricerca. E così, la noosfera filosofica europea si sviluppa con una prodigiosa intensità presentando due facce opposte e legate: da una parte, un'attività critica che si esercita non più soltanto né principalmente sulla religione, ma sugli stessi sistemi razionali (razionalizzatori), sulle idee guida, i principi, i fondamenti; dall'altra, un'elaborazione ininterrotta di sistemi, sino al più grandioso di tutti, quello di Hegel. A partire da questo momento, la storia della filosofia sarà un corpo a corpo incessante tra il pensiero sistematico e il pensiero antisistematico. Così, la cultura europea è come un laboratorio noologico in cui si possono osservare la formazione e l'espandersi dei sistemi, i loro conflitti, le loro simbiosi, i loro scambi, le loro corruzioni, le sclerosi, le mutazioni, il loro ringiovanire, le loro agonie. Un sistema filosofico è una concezione mirante a chiarire l'essere del mondo, del reale, dell'uomo, e ciascuno di questi esseri rielabora il mondo in un meccano grandioso di idee e di concetti. In questo senso, i grandi sistemi filosofici rappresentano costruzioni al limite deliranti nel loro sforzo di cogliere l'Uno e di comprendere il Tutto, di dare una risposta in termini di idee alle grandi interrogazioni della mente umana. Ma, in un altro senso, le grandi filosofie sono concezioni assai ricche e complesse, spesso polinucleari, che tendono a legare e a inter-fecondare il fisico e il metafisico, la conoscenza e l'etica. Non tutte hanno l'ambizione di abbracciare tutti i problemi, ma non ve n'è una che non abbia l'ambizione di affrontare i problemi fondamentali, di produrre i principi e le categorie necessari al pensiero vero. I sistemi filosofici hanno qualcosa della teoria e qualcosa della dottrina. A differenza delle teorie scientifiche, non hanno relazioni organiche di scambio con il mondo empirico e non obbediscono all'imperativo della verifica. A differenza delle teorie scientifiche, inoltre, associano al loro interno le verità cognitive e le verità etiche. Ma, come le teorie scientifiche, sono relativamente aperti e accettano la polemica con altri sistemi. Imbevuti di tradizione critico/laica, essi tendono all'arroganza solo nel grembo di una religione sovrana. Il loro ambito d'esistenza è pieno di virus critici, di polemiche argomentate, di intense gare di idee, cosa che attribuisce loro una speciale apertura. Sottoposti a un'attività critica intensa da parte dei sistemi rivali o nemici, essi sono a un tempo agguerriti e fragili, capaci di rispondere agli assalti più vivi, ma anche di emendarsi, di modificarsi, di assimilare elementi esterni, e persino di operare simbiosi da cui uscirà un sistema nuovo. I sistemi filosofici sono infine abbastanza complessi da disporre eventualmente di una capacità riflessiva e critica che li rende capaci di pensare gli altri sistemi di idee e di auto-pensarsi. | << | < | > | >> |Pagina 155Le ideologie della promessaPrendiamo l'esempio privilegiato e ancora caldo del marxismo per illustrare il nostro discorso. Il marxismo è in principio un sistema di idee assai complesso e ambivalente. È una filosofia che tende a superare la filosofia per divenire scienza. Ma, non appena pretende di essere la sola, vera scienza, cessa di essere teoria per divenire dottrina imponendosi come dottrina ortodossa nell'eco-sistema politico del partito che a esso si richiama. Il marxismo in quanto sistema filosofico comporta tre nuclei fortemente saldati in uno: 1) il paradigma che determina le categorie fondamentali e il modo di utilizzazione della logica (materialismo dialettico); 2) il principio del divenire antropo-storico attraverso il gioco dialettico dello sviluppo delle forze produttive e della lotta di classe (materialismo storico); 3) la missione storica del proletariato, destinato a instaurare la società senza classi e a chiudere la preistoria umana. Il carattere mitico del terzo nucleo è contemporaneamente mascherato ed esaltato dal carattere "scientifico" dei primi due. Il marxismo diviene ideologia quando il sistema perde la sua complessità (ricchezza e ambiguità), quando una delle sue versioni ideologiche semplificate si degrada in dottrina ortodossa (sola e unica scienza, previsione certa dell'avvenire) e quando il fermento messianico della salvezza sulla Terra, assumendo il controllo del triplice nucleo, diviene il motore del movimento rivoluzionario. Il mito della salvezza è mascherato, diviene preda dell'ideologia, ma, contemporaneamente, si appropria dell'ideologia che se ne appropria. La profondità mitologica del marxismo è tanto maggiore in quanto quest'ultimo si è appropriato di tutti i grandi miti che si sono formati in seno alle ideologie moderne: così, pretendendo di appropriarsi della razionalità, esso si appropria del mito della ragione provvidenziale e sovrana; pretendendo di appropriarsi della scientificità, si appropria dei miti scientisti del possesso della verità e della missione emancipatrice della scienza, cui aggiunge il mito che gli è proprio, il possesso "scientifico" delle leggi della storia. Votandosi agli interessi universali dell'umanità, il marxismo si appropria del diritto di guidare l'umanità; facendosi il servitore del popolo sovrano si appropria della sovranità sul popolo. Creando il mito del proletariato, messia salvatore il cui supplizio è destinato a rigenerare il mondo, il marxismo si appropria, con il mito della salvezza e con la missione del messia proletario, delle energie religiose della civiltà giudaico-cristiana nonché di tutti i diritti sul proletariato e sulla storia mondiale. Così, unite nel marxismo come disperse fuori del marxismo, le mitologie della ragione, della scienza, dello sviluppo, della salvezza hanno fatto irruzione nel XX secolo, l'hanno sconvolto e trasformato. L'ideologia democratica è una delle grandi ideologie politiche dei Tempi moderni. Anteriore al marxismo, essa trae nuove energie dalla crisi del marxismo. L'ideologia democratica racchiude al suo interno il grande mito trinitario Libertà/Uguaglianza/Fraternità e porta, là dove si ha schiavitù, dittatura, totalitarismo, la speranza e la promessa di emancipazione. Pure, l'ideologia democratica non può trasformarsi in religione salvifica e non può possedere l'ortodossia di una dottrina. L'ideologia/mito democratica comporta i principi di tolleranza e di pluralismo e racchiude in sé un nucleo irriducibile di laicità: l'unica verità assoluta della democrazia non è altro che la regola del gioco che permette alle verità antagonistiche di scontrarsi sul suo terreno. Le ideologie comportano tutte un loro ingrediente mitico. Così, l'ideologia della "società industriale" (elaborata, come teoria, da Saint-Simon a Raymond Aron, e divenuta per un certo periodo ideologia/mito tecnocratico-politico) ha assunto tratti messianici e una sua carica di promessa mitica. D'altra parte, un'idea politica è inconcepibile senza questo ingrediente. Non si può capire neppure l'essere umano senza di esso. | << | < | > | >> |Pagina 165IL MARXISMOIl marxismo nasce come ramo dissidente dello hegelismo. Esso opera la confluenza e la sintesi delle grandi correnti di idee europee (la filosofia romantica tedesca, il razionalismo critico francese, l'empirismo e l'economicismo inglese, l'ideologia socialista nascente), effettuandone un rimaneggiamento critico che distrugge in ciascuno di essi il fondamento primo. Il marxismo costituisce a un tempo una teoria critica radicale e una dottrina sistematica totale (che comprende tutto il campo del sapere e tutto il campo dell' ethos). Esso racchiude in sé, in modo complesso (complementare e antagonistico), tanto l'aspirazione filosofica quanto quella scientifica ed etica. È una concezione che, come abbiamo visto (cfr. il capitolo 2), comporta quattro nuclei uniti in uno. Poi, senza cessare di essere una filosofia, il marxismo si trasforma in ideologia. Con la formazione dei partiti socialisti, esso si impone nella maggior parte di questi partiti, soppianta le altre ideologie, diviene dominante e assume una forma dottrinaria e ortodossa. Il marxismo dei partiti socialisti della II Internazionale è, nei primi anni del secolo, un'ideologia forte. Esso si dà come l'unica vera scienza sociale, in possesso della conoscenza del determinismo storico, il quale predice l'avvento ineluttabile della società senza classi, la salvezza di un'umanità riconciliata. Questo marxismo tende a edulcorarsi con l'indebolirsi delle energie sovversive dei partiti della II Internazionale: l'evoluzionismo tende a soppiantare il rivoluzionarismo, il possibilismo attenua il determinismo... L'ideologia socialista e l'ideologia democratica entrano in simbiosi. Un riassetto nucleare trasforma il rivoluzionarismo in riformismo. Un riassetto del nucleus dottrinale si opera in senso contrario nella Russia zarista, dove il bolscevismo si scontra con il "tradimento" riformista. Questo riaggiustamento restaura la scientificità assoluta del marxismo, la verità della sua previsione rivoluzionaria, aggiungendovi un fermento volontarista che si concretizza nella costituzione di un partito centralizzato/militarizzato capace di organizzare la rivoluzione. Una relazione ricorsiva si stabilisce ormai tra il partito e la dottrina, entrambi rinvigoriti all'estremo ma induriti e irrigiditi. Le condizioni agoniche della prima guerra mondiale creano le condizioni sacrificali e apocalittiche dell'infiammarsi della promessa salvifica. Lenin modifica nell'aprile del 1917 il principio dottrinale che subordina cronologicamente la rivoluzione proletaria alla rivoluzione borghese per orientare immediatamente l'azione bolscevica verso la rivoluzione mondiale. Il bolscevismo assume il potere in ottobre, un potere assoluto. Le idee bolsceviche si diffondono in modo epidemico in Europa. La III Internazionale è fondata. Il fallimento della rivoluzione nei paesi capitalisti, il fallimento culturale del comunismo in URSS comporteranno un nuovo, importante riassetto nella dottrina. Quest'ultima, denominata ormai marxismo-leninismo, conserverà assai poco del pensiero di Lenin e ancor meno di quello di Marx. Internazionale per essenza, finisce col promulgare il "socialismo in un solo paese". Mentre Marx non aveva mai previsto il potere assoluto di un partito unico, questo diviene il dogma che autentica il potere proletario. La dottrina diviene fonte infallibile di verità in tutti i campi. Il marxismo-leninismo diventa religione ufficiale con il culto/mausoleo di Lenin, poi con il "culto della personalità" di Stalin. Al momento delle deportazioni e dei massacri di massa, l'URSS del gulag si proclama "paradiso socialista" e si vanta di aver liquidato lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Ed è in questa notte fonda di una società che l'ideologia staliniana, spacciandosi per scienza, porterà al parossismo una formidabile religione di salvezza terrestre che si diffonderà nel mondo. Così, di rimaneggiamenti nucleari in rimaneggiamenti nucleari, si è passati dalla filosofia scientificizzata di Marx all'ideologia "scientifica" del marxismo, poi al "marxismo-leninismo", divenuto dogma della grande religione della salvezza sulla Terra. Di deviazione in deviazione, si è arrivati alla deviazione suprema divenuta ortodossia assoluta. La filosofia di Marx è stata a un tempo fonte di complessità nella conoscenza e fonte del totalitarismo moderno. Essa corrisponde a quanto vi era di più civile e a ciò che è divenuto il massimo della barbarie nella noosfera europea. Certo, c'erano nella teoria di Marx dei buchi neri, delle zone cieche (l'ignoranza della complessità psichica e delle carenze dell'uomo), c'era il mito della Scienza-Certezza e quello del Progresso storico garantito, che si rafforzavano l'un l'altro. Ma c'erano anche complessità assai ricche. La filosofia marxista non è stata abolita dall'ideologia ma è rimasta viva alla periferia o fuori dei partiti marxisti, seppure in quadri dottrinali od ortodossi che le impedivano di spingersi al di là dei limiti consentiti, per non cadere nel "revisionismo", sinonimo di eresia e di tradimento abominevoli. Si sono avute varianti più o meno aperte del marxismo, in genere fuori del controllo del partito. Tali varianti si sono sforzate di dedogmatizzare il marxismo presentandolo come metodo e non come sistema, utilizzando la dialettica non più soltanto per giustificare contraddizioni ma per rendere più complesso il discorso (il Lukàcs di Storia e coscienza di classe e, dopo il 1956, Henrí Lefebvre); esse hanno operato la riabilitazione dell'antropologia filosofica del giovane Marx e hanno concepito la promessa di una società senza classi come possibilità, e non più come necessità storica – addirittura un Goldmann ha visto nella fede in questa promessa una scommessa analoga a quella di Pascal. Si sono avuti persino dei meta-marxismi, liberati dalla promessa della salvezza e dalla scolastica dottrinale, ma ancora legati al nucleus dialettico/critico ( Adorno , Horkheimer , Marcuse , Bloch ). La filosofia marxista era in crisi alla fine degli anni Cinquanta, soprattutto per via della crisi generale, nei paesi dell'Est, del comunismo degli anni 1956-1960. Questa crisi ha finito col suscitare la ricostituzione di un marxismo neo-scientista, di nuovo duro e impenetrabile, pronto a eliminare la dialettica, la filosofia, il soggetto storico, e ormai detentore esclusivo della scientificità in quanto padrone dell'autentica epistemologia ( althusserismo ). | << | < | > | >> |Pagina 171UN TUTTO CHE NON È TUTTO Il linguaggio umano è polivalente e polifunzionale: esprime, constata, descrive, trasmette, argomenta, dissimula, proclama, prescrive (gli enunciati "performativi" e "illocutori"). Esso è presente in tutte le operazioni cognitive, comunicative, pratiche. È necessario alla conservazione, alla trasmissione, all'innovazione culturali. È consustanziale all'organizzazione di ogni società e partecipa necessariamente alla costituzione e alla vita della noosfera. Poiché tutto passa attraverso il linguaggio, si tende a fare del linguaggio stesso o un semplice strumento di trasmissione, addirittura un vaglio, o la realtà umana fondamentale, ipostatizzata. Nel primo caso, si fa notare giustamente che "il linguaggio non ha [...] esistenza fuori della sua rappresentazione mentale" e che "quali che siano le sue proprietà, esse devono essergli fornite dai processi mentali innati dell'organismo che l'ha inventato" ( Chomsky , 1968). Il problema della natura e delle strutture del linguaggio si trasforma quindi in quello della natura e delle strutture dell'intelletto/cervello umano. Cosa che a nostro avviso è senz'altro giusta ma non sopprime affatto la realtà oggettiva e la consistenza noologica del linguaggio: il vocabolario, le regole grammaticali e sintattiche formano gli elementi costitutivi di un sistema. Così, la linguistica ha concepito il linguaggio come un sistema oggettivo e autonomo di cui ha portato alla luce le regole e le strutture ( Saussure , Jakobson ), esplorandone poi le condizioni di attività. Quando Wittgenstein volle situare il problema chiave della conoscenza, egli spostò l'asse del discorso dal knowing al meaning. Sulla sua scia, la filosofia analitica ha voluto, ancorandosi nella linguistica, lasciare le sabbie mobili del filosofismo per acquisire il rigore scientifico, e ha quindi integrato il problema del pensiero in quello del linguaggio. Sul versante delle scienze umane, il modello ispirato alla linguistica strutturale ha determinato lo sviluppo della corrente strutturalista, in cui è la struttura del linguaggio a fornire la chiave delle strutture sociali. Divenuto sovrano, il linguaggio apparve allora come il padre di tutte le cose umane, il locutore di tutte le parole. Si è dunque verificato un fenomeno inquietante nel mondo delle idee del nostro secolo: la credenza che fosse possibile chiudere la problematica epistemologica, filosofica, antropologica, sociologica, in quella del linguaggio divenuto l'essere stesso di ogni realtà umana. I principi noologici che abbiamo esposto in precedenza ci permettono di capire il processo di dottrinarizzazione e di ideologizzazione che finisce col trascendentalizzare il linguaggio. Ma, secondo la concezione complessa esposta in questo lavoro, il riconoscimento della realtà oggettiva e autonoma del linguaggio non esclude né l'intelletto/cervello umano che ne è il produttore né il soggetto che ne è il locutore, né le interazioni culturali e sociali con cui esso assume esistenza ed essere. Dobbiamo pensare circolarmente che la società fa il linguaggio che fa la società, che l'uomo fa il linguaggio che fa l'uomo, che l'uomo parla il linguaggio che lo parla. È una concezione del genere che permette di comprendere l'interdipendenza e la relazione rotativa produttrice tra l'"io" (il locutore-soggetto animato dal suo computo-cogito), l'"Es" (la macchina linguistica), il "si" (l'essere socio-culturale). Sotto un certo aspetto, ogni enunciato è soggettivo, sotto un altro è macchinistico, sotto un altro ancora è anonimo e collettivo. Come dice Charles Becker: "Non so se io parlo oppure se l' Es parla attraverso di me, oppure se si parla attraverso di me. Tutt'al più posso constatare che le tre formule sembrano coesistere nel linguaggio". Effettivamente, io, Es, si parlano contemporaneamente! Aggiungiamo che ogni enunciato testimonia di specificità proprie della coerenza linguistica di ogni lingua, di specificità soggettive, culturali, sociologiche e storiche. Situare il linguaggio senza dissolverlo o reificarlo è quindi un'impresa di estrema complessità. Non vi è nulla di antropo-sociale che non appartenga al linguaggio, e di qui nasce la tendenza a ricondurre tutto al linguaggio, ma tutto ciò che è linguaggio deriva da qualcosa d'altro, va verso altro, esprime qualcosa di diverso dal linguaggio. Come aveva segnalato Russell (1940): "Le parole, le frasi esprimono qualcosa di diverso da esse stesse [...] l'essenziale per ciò che riguarda il linguaggio è che esso significa, in altre parole che è in relazione con qualcosa di diverso dal linguaggio stesso, che, in via di principio, è di un ordine diverso dal linguaggio". Saussure aveva giustamente visto che, pur essendo un "tutto in sé", il linguaggio "preso nel suo tutto [...] è multiforme ed eteroclito: a cavallo tra vari ambiti, fisico, fisiologico e psichico, il linguaggio appartiene anche all'ambito umano e a quello sociale" (Saussure, 1931). La neuro-linguistica, la neuro-psicologia (Hecaen), la socio-linguistica ci mostrano la profondità, la radicalità, la complessità del legame tra il linguaggio, l'apparato neuro-cerebrale, la psiche umana, la cultura, la società... Il linguaggio dipende dalle interazioni fra individui, le quali dipendono dal linguaggio. Esso dipende dalle menti umane, le quali dipendono dal linguaggio per emergere in quanto menti. Il linguaggio non può quindi non esser concepito a un tempo come autonomo e come dipendente. | << | < | > | >> |Pagina 222LOGICA E PENSIEROLa logica non può chiudersi su se stessa, e addirittura si spezza non appena viene incapsulata sotto vuoto nella formalizzazione. La logica non è un fondamento assoluto e non ha fondamento assoluto: è un utensile, un apparecchio al servizio della componente analitica del pensiero, non la macchina infallibile capace di guidare il pensiero. Una "grande logica si rivela impossibile, una logica cioè abbastanza forte perché si possa, all'interno delle procedure che essa definisce, garantire la piena sicurezza dei suoi procedimenti" (Desanti, 1975, p. 260). Da ciò deriva un certo numero di conseguenze: – nessun sistema logicamente organizzato può abbracciare l'universo nella sua totalità né render conto esaustivamente della sua realtà; – la subordinazione del pensiero alla logica porta alla razionalizzazione, che è una forma logica dell'irrazionalità, in quanto costituisce un pensiero distaccantesi dal reale. Il pensiero (strategico, inventivo, creativo) contiene e insieme supera la logica. Di fatto, la complessità del pensiero è meta-logica (ingloba la logica pur trasgredendola). Il pensiero, naturalmente, ha le sue regole, ma ogni regola può sussistere solo attraverso le sue eccezioni, e può svilupparsi solo attraverso le sue trasgressioni. Nel circolo di Vienna la volontà di eliminare l'arbitrario, il gratuito, il non senso, l'incoerenza era un tratto salutare. Ma l'idea che ogni ambito empirico possa essere teorizzato e scientificizzato, e che ogni teoria possa essere formalizzata, sfiorava il delirio razionalizzante. Il fallimento del formalismo hilbertiano e quello del positivismo logico sono l'evento epistemologico del secolo (cosa di cui gli epigoni non sembrano ancora aver preso atto). Con da una parte Gödel e Tarski , dall'altra Bohr e Heisenberg , l'insufficienza della logica, l'incompiutezza del pensiero, la difficoltà del reale hanno fatto irruzione nel regno della scienza. Con ciò, il crollo del sogno formalizzatore/razionalizzatore ha condotto alla riabilitazione del linguaggio ordinario (Wittgenstein) e della logica ordinaria (Grize), che comportano complessità eliminate dal formalismo. Ora, sono queste complessità che il pensiero deve appunto riconoscere e affrontare. In effetti, le carenze della logica e l'emergenza dell'enigmatico aprono una possibilità di sviluppo al pensiero complesso. Il pensiero complesso prende coscienza e atto di queste brecce logiche. Prende atto delle conseguenze del teorema di Gödel: i sistemi teorici potenti e ricchi non possono eliminare l'indecidibile (l'incerto) e il non-consistente (il contraddittorio) ed esigono un pensiero complesso comportante una quota di non-formalizzabile, di non-logicizzabile, di non riducibile a teoremi. Di qui il doppio principio: – della complessità meta-logica della realtà, – della pertinenza di un pensiero complesso. La logica è formale e a priori. Il pensiero deve avere un contenuto e deve trovare qualcosa di diverso da ciò che era conosciuto a priori. Il pensiero deve operare, vigilare, là dove la difficoltà di isolare in modo chiaro e distinto l'oggetto, insieme all'opposizione dei concetti contraddittori, permette di intravvedere una complessità che il vetriolo della logica binaria dissolve. Ancora una volta, ritroviamo l'ingiunzione metodologica: non spezzare una realtà complessa in elementi compartimentati, non eliminare a priori un'incertezza e una contraddizione. Fra la "reificazione" degli oggetti, che consente alla logica di coglierli e controllarli, da una parte, e dall'altra la loro dissoluzione nell'inseparabilità e nel divenire, è necessario condurre il pensiero non su una linea equidistante ma a zig zag, ritornando alla logica per trasgredirla quindi ritornare ancora a essa... L'uso della logica è necessario all'intelligibilità, il superamento della logica è necessario all'intelligenza. Il riferimento alla logica è necessario alla verifica. Il superamento della logica è necessario alla verità. La logica è al servizio dell'osservazione, dell'esperienza, dell'immaginazione. Essa prolunga l'idea nuova nelle sue conseguenze inattese, ma non la suscita. Contrariamente a quanto avevano creduto Russell e Hilbert, e conformemente all'idea di Brouwer, il pensiero matematico deve anch'esso essere capace di dimenticare la logica: per Brouwer, la costruzione della matematica è un divenire imprevedibile, e le antinomie che sorgono al suo interno derivano dal fatto che la matematica si sottomette alla giurisdizione di una logica estranea alla sua vera natura. Così il pensiero, anche matematico, non può essere rinchiuso nella logica (classica) ma deve portarsela appresso come bagaglio. La logica deve quindi essere subordinata al pensiero. Il pensiero si lancia nell'incertezza. La rovina della certezza fa scaturire il pensiero. Il pensiero deve naturalmente trasgredire la logica deduttiva-identitaria nel suo movimento, pur rispettandola in ciascuno dei suoi segmenti. Il pensiero contiene le operazioni logico-matematiche, ma le oltrepassa. La logica corrisponde all'operatorio (regole di computazione); il pensiero (cogitazione) richiede la computazione ma va al di là di essa. Il pensiero mette in azione la logica, ma non è la logica in azione. Il pensiero progredisce trasgredendo. "Se i teoremi di Gödel hanno un senso per il filosofo, lo hanno quando ci mostrano che, ogniqualvolta aspira a scoprire e a giustificare i principi del proprio procedere, il pensiero teorico si vede costretto a trasgredire a questi principi" (Amsterdamski, 1975, p. 54). Esprimerò il mio parere dicendo che il pensiero complesso integra e utilizza, pur superandoli e trasgredendoli, i principi della logica. Non si dà meta-logica diversa dal pensiero stesso. Non c'è teoria che non comporti una breccia, non soltanto empirica (dato sconosciuto, variabile nascosta ecc.) ma logica: l'induzione è incerta, la deduzione non è certa in modo assoluto. Non c'è pensiero che non comporti un rischio. Dobbiamo procedere in oscillazione ininterrotta tra la necessità logica di isolare gli oggetti di pensiero e l'esigenza, logicamente opposta, di renderli solidali, tra l'esigenza di semplicità e l'esigenza di complessità. Non sappiamo in quale momento il nostro pensiero divenga incoerente o in quale momento il reale sfugga alla coerenza del nostro pensiero e la infranga. Non sappiamo in quale momento abbandonare la logica o obbedirle. La logica è a un tempo l'ausiliaria e l'avversaria del pensiero, e questa proposizione è insieme logica (può essere logicamente scomposta) e meta-logica. Il pensiero deve essere in ogni modo trans-logico, dove "trans" significa andare attraverso, traversare e trasgredire. | << | < | > | >> |Pagina 238IL GRANDE PARADIGMA D'OCCIDENTE
Ho già ricordato il "grande paradigma d'Occidente" formulato da
Cartesio e imposto dagli sviluppi della storia europea a partire dal
XVII secolo. Il paradigma cartesiano disgiunge il soggetto e l'oggetto,
lasciando a ciascuno la sua sfera — la filosofia e la ricerca riflessiva,da una
parte, la scienza e la ricerca oggettiva dall'altra. Questa
'dissociazione si prolunga, traversando da parte a parte l'universo:
Si tratta proprio di un paradigma: esso determina i concetti sovrani e prescrive la relazione logica: la disgiunzione. La non-obbedienza a questa disgiunzione non può essere che clandestina, marginale, deviante. Questo paradigma determina una doppia visione del mondo, fa uno sdoppiamento del medesimo mondo: da una parte, un mondo di oggetti sottomessi a osservazioni, sperimentazioni, manipolazioni. Dall'altra, un mondo di soggetti che si pongono problemi di esistenza, di comunicazione, di coscienza, di destino. Come abbiamo segnalato nella prima parte del presente volume (L'ecologia delle idee, cap. 3, pp. 61 sgg.), la disgiunzione tra scienza e filosofia si opera nei secoli XVIII e XIX, quando una cultura scientifica prende a staccarsi dalla cultura umanistica e a obbedire a regole completamente diverse. Il grande paradigma regola la doppia natura della prassi occidentale, fondata da una parte sull'auto-adorazione del soggetto individuale (individualismo), umano (umanesimo, antropo-centrismo), nazionale (nazionalismo), etnico (razzismo); dall'altra sulla scienza e la tecnica oggettive, quantitative, manipolatorie e raggelate per ciò che riguarda l'oggetto (quindi anche quando un individuo, un'etnia, una cultura vengono considerati come oggetti). Ora, gli sviluppi antagonistici della soggettività, dell'individualità, dell'anima, della sensibilità, della spiritualità e quelli dell'oggettività, della scienza, della tecnica dipendono dal medesimo paradigma. La soggettività si è costruita i propri regni, non soltanto nella metafisica (in cui trionfa l'Ego trascendentale), nella letteratura, nel romanzo, nella poesia, nella musica (e specialmente nel Romanticismo, che ha assunto pienamente i diritti e le verità del sogno, della passione, degli stati alterati); essa si è impiantata sempre più profondamente nella religione, che, sempre più rimossa dal cuore organizzazionale delle società, è andata sempre più votandosi alla salvezza soggettiva e ai bisogni soggettivi. (Come abbiamo visto, la ragione e la scienza hanno svuotato solo in superficie il pensiero mitologico e religioso, che si è reintrodotto di soppiatto per costituire gli ideomiti provvidenziali del razionalismo e dello scientismo.) Così, due universi si contendono le nostre società, le nostre vite, le nostre menti; essi si dividono il terreno ma si escludono a vicenda; l'uno può essere positivo solo se l'altro diviene negativo; l'uno può essere reale solo se respinge l'altro nell'illusione: nell'uno, la mente è solo un'efflorescenza, un fantasma, una sovrastruttura, mentre nell'altro la materia è solo un'apparenza, un peso, una cera che plasma la mente. L'umanesimo occidentale consacra la disgiunzione tra i due universi pur installandosi nell'uno e nell'altro. Così, esso vede nella scienza non l'aspetto che fa dell'uomo un oggetto di scienza tra gli altri e ignora ogni soggetto umano, ma l'aspetto che fa di essa lo strumento del dominio umano sulla natura e tende a fare del suo manipolatore il soggetto dell'universo. Dal punto di vista cognitivo, la scienza fa dell'uomo un oggetto determinato sempre più minuscolo in un universo sempre più grande. Ma, dal punto di vista pratico, essa dà all'uomo il potere e la potenza che gli permettono di addomesticare, schiacciare, annientare il suo stesso universo. La scienza, che da una parte elimina il soggetto, dall'altra diviene il suo braccio secolare. L'umanesimo è una mitologia che tenta di articolare la scienza che nega l'uomo all'uomo che cerca l'onnipotenza. Così, sotto l'impulso della scienza, l'uomo tende cosmicamente verso lo zero, ma, sotto l'impulso dell'umanesimo, tende antropologicamente verso l'infinito. Più largamente, l'universo della religione, della mistica, della poesia, della letteratura, dell'etica, della metafisica, della vita privata, dell'esaltazione, del sentimento, dell'amore, della passione diviene il complemento de facto, il necessario contrappeso dell'universo iper-oggettivo, pragmatico, empirico, prosaico, tecnico e burocratico. Gli individui passano quotidianamente dall'uno all'altro, per innumerevoli salti che rimangono loro invisibili, ma che li fanno letteralmente cambiare di universo. Un ricercatore scientifico è oggettivista e scientista sul suo materiale di laboratorio, e i suoi interventi ai congressi e sulle riviste specializzate obbediscono tutti ai criteri della scientificità. Pure, anche in laboratorio, la sua soggettività fa irruzione attraverso scatti d'umore, simpatie, attrazioni, nei rapporti con i colleghi, i maestri, gli assistenti, le collaboratrici. Senza tregua, egli salta da uno stato oggettivista centrato sull'oggetto a stati affettivi egocentrici. Egli salterà in uno stato familio-centrico tornando a casa, poi in uno stato etno- e socio-centrico guardando le informazioni politiche. Ascolterà forse musica, lasciandosi travolgere dalla soggettività. Lui che sa come tutto sia determinato nell'universo – proprio tutto, uomo compreso – vive tra esseri umani che egli considera soggetti responsabili delle loro azioni. Lui che non può credere nella libertà rimprovererà severamente il figlio per aver fatto una scelta sbagliata. Insomma, il tipo di cultura che si è creato in e attraverso la disgiunzione del soggetto e dell'oggetto impone salti da uno stato all'altro che sono salti da un universo all'altro, salti che ciascuno fa naturalmente e inconsciamente senza sosta. Così, in quanto disgiunti, il soggetto e l'oggetto giocano a nascondino, si occultano l'un l'altro, si manipolano a vicenda. Così, la schizofrenia specifica della nostra cultura dà a ciascuno almeno una doppia vita. Da una parte, una vita esistenziale e morale, con la presenza e l'intervento dell'esperienza interiore, una visione delle cose e degli eventi secondo la soggettività (qualità, virtù, vizi, responsabilità), l'adesione ai valori, le impregnazioni e le contaminazioni tra giudizi di fatto e giudizi di valore, i giudizi globali; dall'altra, una vita di spiegazioni deterministiche e meccanicistiche, di visioni settoriali e disciplinari, di disgiunzione tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Così, la vita quotidiana di ciascuno è essa stessa determinata e influenzata dal grande paradigma. | << | < | > | >> |Pagina 248LA PIATTAFORMA GIREVOLECome abbiamo visto, ciò che è paradigmatico è profondamente inscritto nell'organizzazione cognitiva degli intelletti/cervelli umani, profondamente inscritto nell'organizzazione noologica, profondamente inscritto nei processi linguistici e logici, profondamente inscritto in una cultura, in cui determina le visioni del mondo, i miti e le idee, le attività e le condotte. In più, un grande paradigma è profondamente inscritto nell'organizzazione di una società: esso la determina tanto quanto è determinato da essa. Ricordiamo che ogni società è il prodotto delle inter-computazioni e delle inter-cogitazioni tra individui che la costituiscono, e che questa società retroagisce in modo mega-computante sugli individui dando loro norme, pattern, schemi che si inscrivono nell'imprinting culturale di questi individui e guidano le loro computazioni-cogitazioni. Se capiamo questo, allora possiamo capire che l'istanza paradigmatica si situa nel nucleus comune e oscuro in cui le norme, i pattern, gli schemi guidano le computazioni e le cogitazioni che li attualizzano. È perché il modo in cui si organizza la conoscenza e quello in cui si organizza la società nascono da un ceppo comune che la nozione di paradigma presenta una grande ambiguità. Tale nozione può essere concepita o in un senso idealista o in un senso materialista. Il senso idealista fa del paradigma l'idea base che regola in fin dei conti tutta l'organizzazione sociale, che sarebbe come un prodotto delle potenze organizzatrici della mente; il senso materialista fa del paradigma l'espressione o il risultato in termini simbolici e ideali di quelle realtà sociali materiali che sono i rapporti tra le forze produttive. Ma occorre essere proprio sotto il dominio del grande paradigma per trovarsi di fronte all'alternativa materia/spirito. Di fatto, i due sensi sono entrambi veri, cioè relativamente falsi l'uno e l'altro. Dato che il paradigma si situa nel nucleus organizzazionale, dobbiamo tener presente che il nucleus della materialità di ogni organizzazione vivente, individuale, sociale, è di natura computazionale cioè immateriale ma che gli operatori di tutte le computazioni viventi, individuali, sociali, al pari degli operatori di ogni pensiero, ideologia, mitologia, sono sempre fisici, biologici, cerebrali, cioè materiali. A questo proposito dobbiamo ancora ricordare in tutta la sua intensità il termine Arché, già invocato più sopra. È Arché ciò che è anteriore, preliminare, fondatore, modellizzatore, generatore. Il grande paradigma è il nodo archeologico dell'organizzazione del cognitivo, del noologico, del culturale, del sociale. L'istanza paradigmatica lega in un nodo gordiano l'organizzazione primordiale del cognitivo e l'organizzazione primordiale del sociale. Essa organizza l'organizzazione delle computazioni che organizzano le differenti sfere (psicosfera, sociosfera, noosfera), oltre a stabilire e a mantenere le interazioni forti che danno unità al nucleus che controlla le dimensioni diverse dell'organizzazione sociale, della cultura, delle idee. L'istanza paradigmatica è un proto-nucleo noo-socio-culturale da cui sono generati gli altri nuclei diversi. Così, in e attraverso un grande paradigma, si ha una profondità noologica inaudita nel sociologico, e una profondità sociologica inaudita nel noologico. Nel paradigma si ha una profondità tale da risultare oscura, addirittura vuota. Effettivamente, in un senso, il trono del paradigma è sempre vuoto, giacché il paradigma non è mai formulato, non è inscritto da nessuna parte. Il paradigma, val la pena ricordarlo, è sempre virtuale. Esso esiste solo nelle sue attualizzazioni e nelle sue manifestazioni. Esiste solo "paradigmaticamente": nell'esempio che segnala la sua paternità. Ciò significa che il paradigma dipende dall'insieme delle istanze cerebrali, spirituali, computanti, cogitanti, logiche, linguistiche, teoriche, mitologiche, culturali, sociali, storiche che dipendono da esso. Il paradigma dipende dalle attualizzazioni che ne dipendono. Come ogni principio generativo, anche il paradigma dipende dalla realtà fenomenica che esso genera e ha bisogno di questa realtà fenomenica per essere rigenerato. Ogni generatività ha bisogno di essere rigenerata da ciò che essa genera, e che diviene così co-generatrice. Il processo fenomenico è indispensabile al processo generatore, fa in questo senso parte di esso, come il processo generatore in questo senso fa parte del processo fenomenico. Ciò significa che occorre non sostanzializzare, essenzializzare, reificare il paradigma.
Infine, per ciò che concerne il grande paradigma d'Occidente,
possiamo intravedere che la disgiunzione che è radicalmente consustanziale a
esso può essere legata alla grande scissione radicale e alle
molteplici scissioni interne che hanno travagliato e ancora travagliano le
società occidentali. Ed è sempre in questo senso che le disgiunzioni e le
scissioni sono state le condizioni indispensabili per la
messa in opera delle dialogiche trainanti, storiche, economiche, sociali e
culturali che hanno fatto l'originalità dell'Europa moderna.
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