Copertina
Autore Edgar Morin
Titolo La mia sinistra
SottotitoloRigenerare la speranza
EdizioneErickson, Trento, 2011 , pag. 252, cop.fle., dim. 15x21x1,6 cm , Isbn 978-88-6137-750-9
OriginaleMa Gauche
EdizioneBourin, Paris, 2010
PrefazioneNichi Vendola, Sergio Manghi, Mario Ceruti
TraduttoreRiccardo Mazzeo
LettoreRiccardo Terzi, 2011
Classe politica , destra-sinistra , globalizzazione , paesi: Francia
PrimaPagina


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Presentazione all'edizione italiana (di Nichi Vendola)             11
Nota introduttiva (di Sergio Manghi)                               17

Prefazione. Rigeneriamoci!                                         23

PRIMA PARTE - PENSIERO

Capitolo primo — Il grande disegno (1988)                          37
Capitolo secondo — Aldilà del progresso (1995)                     49
Capitolo terzo — La solidarietà e le solidarietà (1993)            53
Capitolo quarto — La falsa identità nazionale (2002)               59
Capitolo quinto — Le quattro nascite della Francia (1996)          65
Capitolo sesto — Comprendere una crisi sociale (1995)              75
Capitolo settimo — Può trionfare la democrazia? (1996)             81
Capitolo ottavo — Lo Stato-nazione (1997)                          87
Capitolo nono — Seminario su un umanesimo reinventato (2000)       95
Capitolo decimo — Se fossi candidato (2007)                       109
Capitolo undicesimo — Alla ricerca dei fondamenti perduti (1993)  117

SECONDA PARTE - MONDIALITΐ

Capitolo dodicesimo — La lunga storia (2001)                      143
Capitolo tredicesimo — La diseuropa (1994)                        159
Capitolo quattordicesimo — Per il premio Nonino (2006)            167
Capitolo quindicesimo — Civilizzare la Terra (2002)               177
Capitolo sedicesimo — Il XXI secolo è cominciato a Seattle (1999) 187
Capitolo diciassettesimo — L'uno e il multiplo (2005)             193
Capitolo diciottesimo — Società-mondo vs mondo del terrore (2001) 203
Capitolo diciannovesimo — L'etica della complessità (2004)        213
Capitolo ventesimo — Per una politica dell'umanità (2002)         217
Capitolo ventunesimo — Ecologia e politica (2010)                 223
Capitolo ventiduesimo — Elogio della metamorfosi (2009)           227
Capitolo ventitreesimo — I paladini della speranza (1993)         233

Bibliografia di Edgar Morin                                       245
Postfazione (di Mario Ceruti)                                     249


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 23

Prefazione
Rigeneriamoci!



                                                        «Se non speri nell'insperato,
                                                                    non lo troverai.»

                                                                           (Eraclito)



LA sinistra. Ho sempre provato repulsione per questo LA unificatore che occulta le differenze, le opposizioni e i conflitti. Giacché la sinistra è una nozione complessa, nel senso che questo termine comporta in sé unità, concorrenze e antagonismi.

L'unità è nelle sue fonti: l'aspirazione a un mondo migliore, l'emancipazione di coloro che sono oppressi, sfruttati, umiliati, offesi, l'universalità dei diritti dell'uomo e della donna. Queste fonti, attivate dal pensiero umanistico, dalle idee della Rivoluzione francese e dalla tradizione repubblicana, hanno irrorato nel secolo XIX il pensiero socialista, il pensiero comunista, il pensiero libertario.

La parola libertaria si focalizza sull'autonomia degli individui e dei gruppi, la parola socialista sul miglioramento della società, la parola comunista sulla necessità della comunanza fraterna tra gli esseri umani. Ma le correnti libertarie, socialiste e comuniste sono entrate in competizione. Peraltro, nell'ambito dello stesso socialismo, vi fu competizione fra il socialismo statale e il socialismo libertario, fra il rivoluzionarismo e il riformismo.

Queste correnti si sono trovate non solo in concorrenza, ma addirittura in antagonismo, e alcuni di tali antagonismi sono diventati mortiferi.

Così è un governo socialdemocratico a schiacciare in Germania la rivolta spartachista, è il comunismo bolscevico che, dopo aver preso il potere, elimina socialisti e anarchici, e tale corso di azione è stato perseguito ancor più radicalmente dal comunismo stalinista dovunque esso si sia imposto. Sono il Komintern e il partito comunista tedesco che, nel 1931-1933, denunciano la socialdemocrazia additandola come un nemico peggiore del nazionalsocialismo. E la Spagna repubblicana che, nel corso della sua lotta contro il franchismo, elimina, sotto la spinta comunista, sia l'anarchismo catalano sia il POUM. I fronti comuni, i fronti popolari, le unioni della resistenza non sono stati niente di più che momenti effimeri. E dopo che si fu costituita l'unione del programma comune, la vittoria socialista causò l'asfissia del partito comunista in un bacio della morte di cui Mitterand fu l'abilissimo stratega.

Ecco perché ho sempre (invano) combattuto il LA sclerotizzante e mendace della sinistra, pur riconoscendo l'esistenza di un'unità della sinistra nelle fonti e nelle aspirazioni.

Osserviamo ora che le aspirazioni della sinistra si sono sempre fondate sull'opera di pensatori. I Lumi di Voltaire e Diderot, insieme alle idee antagoniste di Rousseau, hanno fecondato il 1789. Marx è stato il formidabile pensatore che ha ispirato sia la socialdemocrazia sia il comunismo, fino a che la socialdemocrazia, integrando le critiche di Bernstein, Kautsky e altri, non divenne riformista. Proudhon è stato ispirato da un socialismo non marxista. Bakunin e Kropotkin sono stati gli ispiratori delle correnti libertarie.

Il pensiero di questi autori, insieme a quello di Tocqueville, Max Weber e Freud, ci è necessario ma resta insufficiente per pensare il nostro mondo. Ci viene intimato di intraprendere un gigantesco sforzo di ripensamento che possa integrare le innumerevoli conoscenze, disperse e compartimentate, per considerare la nostra situazione e l'avvenire che ci attende nel nostro universo, sul nostro pianeta, nella biosfera, nella nostra storia. Ciascuno dei pensatori che ho menzionato può e deve continuare a ispirarci ma — e soprattutto — il pensiero di Marx è gravato da carenze di fondo per comprendere e diagnosticare il corso della storia nel XX e nel XXI secolo. Ciascuno di essi ha colto soltanto una parte, un frammento della realtà umana, ed è per riconoscere e porre rimedio a queste lacune che propongo il capitolo Alla ricerca dei fondamenti perduti.


Crisi intrecciate

Θ per questi motivi che ho compiuto uno sforzo di ripensamento, a partire da Introduzione a una politica dell'uomo (1965), che ha trovato il suo seguito in Terra patria. Per una politica di civilizzazione (1993), e che prosegue nei numerosi articoli e saggi che compongono questo libro, fra cui Se fossi candidato, uno sforzo che continuo nell'opera che ho in cantiere e che cerca di immaginare come cambiare strada.

Un compito enorme ma indispensabile: è tutto da pensare, tutto da ripensare, tutto da rifondare, tutto da riformare.

Θ necessario pensare la nostra era planetaria che ha assunto la forma della globalizzazione nell'unificazione tecno-economica sviluppatasi a partire dagli anni Novanta. La navicella spaziale Terra ha iniziato a viaggiare a velocità vertiginosa spinta dai quattro motori incontrollati scienza-tecnica-economia-profitto. Questa corsa ci sospinge verso pericoli crescenti: turbolenze critiche di un'economia capitalistica scatenata, degradazione della biosfera che è il nostro mezzo per continuare a vivere, moltiplicazione delle armi di distruzione di massa coincidente con le convulsioni belliche montanti, tutti pericoli che si sviluppano intrecciandosi vicendevolmente.

Bisogna concepire le crisi frammescolate e interdipendenti dell'economia, della civiltà occidentale, delle civiltà tradizionali, dello sviluppo, che si coniugano in una policrisi planetaria, quella dell'umanità che non riesce ad accedere all'Umanità. Tale policrisi è portatrice, come tutte le crisi, di possibilità di invenzione salvatrici come di possibilità di regressione distruttrici.

Una componente invisibile della policrisi è la crisi del pensiero. Così come la caratteristica dell'errore è quella di ignorare di essere errore, come sostiene Cartesio, la caratteristica dell'accecamento del pensiero contemporaneo è di credersi lucido. Crede di beneficiare della «società della conoscenza» ma di fatto c'è una società di conoscenze disperse e separate la cui dispersione e compartimentazione rendono incapaci di unire le conoscenze per considerare i problemi fondamentali e globali del nostro secolo. Il tipo di pensiero dominante, che obbedisce alla logica binaria, è incapace di considerare l'ambivalenza e soprattutto la necessità di connettere due termini antagonisti per comprendere la realtà del nostro tempo.

In effetti è necessario concepire l'ambivalenza dello sviluppo mondializzato, che apporta progressi materiali in tutti i campi ma è gravido al tempo stesso di sottosviluppi spirituali e morali. Crea classi medie emancipate dal peso delle tradizioni vincolanti (subendo tuttavia le dipendenze consumistiche dell'Occidente), ma anche nuove e gigantesche miserie, distruzioni di solidarietà, aumenti di ineguaglianze. Apporta le tecniche della modernità, ma tende a standardizzare le culture così diverse del pianeta secondo il modello occidentale, degradando le loro virtù e ricchezze. Accresce tutti i saperi nelle scienze, ma rende incapaci di padroneggiare le possibilità distruttrici e manipolatrici di tali saperi. Produce una conoscenza generalizzata delle economie, ma questa crescita induce una corsa sfrenata verso abissi sconosciuti.

D'altro canto, la mondializzazione è la peggiore delle cose. Essa è anche, tuttavia, la migliore delle cose perché, per la prima volta nella storia dell'umanità, una comunanza di destino permette all'umanità di intravvedere la possibilità di una patria terrena comune che, lungi dal negare le patrie, le integrerebbe.

Da questa ambivalenza radicale deriverebbero due imperativi apparentemente antagonisti ma necessariamente complementari: mondializzare e demondializzare.

Mondializzare, vale a dire favorire le cooperazioni economiche, sociali, culturali, tutto ciò che va nella direzione dell'unità solidale dell'umanità. Demondializzare, cioè favorire le vitalità locali, regionali, nazionali (fra le altre: l'alimentazione, il commercio e l'artigianato, le piccole e medie aziende agricole e biologiche, la rivitalizzazione delle campagne desertificate, ambulatori e scuole facilmente accessibili).

Allo stesso modo si impongono i due imperativi sviluppo esterno e sviluppo interno: sviluppo esterno di tutto quel che migliora le condizioni di vita, dell'economia sociale e solidale, di tutto ciò che apporta conoscenza e bellezza, ma anche sviluppo interno in un bozzolo culturale, nelle pratiche comunitarie e conviviali, nel ritorno alle lentezze naturali o culturali (non soltanto slow food ma anche slow life, che permette la vita interiore e la soddisfazione dei bisogni spirituali). Lo srotolarsi verso l'esterno e il riavvolgersi verso l'interno comporterebbero sia ciò che deve crescere sia ciò che deve decrescere, ovvero la crescita e la decrescita.

Bisogna comprendere che ogni cultura è fatta delle sue illusioni, errori, carenze, qualità, ricchezze, compresa la cultura occidentale. Non si tratta di idealizzare né le culture tradizionali né quella occidentale. Bisogna mirare alle simbiosi culturali capaci di unire ciò che ciascuna di esse ha di meglio, giacché l'Occidente si fregia delle idee di democrazia, di autonomia individuale, di verifica delle conoscenze, della pratica critica e autocritica; le altre culture, delle arti di vivere, del senso delle comunità, delle solidarietà, del rapporto con la natura e in senso più ampio con il cosmo. Allo stesso modo il regno del calcolo e di ciò che è quantitativo che appartiene al Nord deve essere contrastato e combinato con la supremazia, che appartiene ancora al Sud, di ciò che è qualitativo e di quel che non si può calcolare, vale a dire la qualità poetica della vita.

Il capitalismo dell'era della globalizzazione è sfrenato. La crisi non ha ucciso il capitalismo, che tuttavia non è immortale. Non si saprebbe annichilire brutalmente un capitalismo che è ormai parte integrante della sostanza stessa del pianeta, ma si può e si deve imporgli regole e controlli. Soprattutto si può e si deve sviluppare l'economia plurale i cui progressi, che comprendono quelli dell'economia sociale e solidale, ridurrebbero progressivamente l'area capitalista.

Noi potremo quindi concepire non programmi ma vie: una Via globale della mondializzazione/demondializzazione, dello sviluppo esterno/interno, che sarebbe la Via di una politica dell'umanità che subordina il quantitativo al qualitativo, cioè alla qualità della vita, che subordina il benessere materiale al vivere bene. Noi possiamo al tempo stesso concepire una Via europea e una Via nazionale (si veda il capitolo decimo, Se fossi candidato). La nazione integrata nella mondializzazione non ne sarebbe disintegrata se noi sviluppassimo una politica capace di rafforzare la propria vitalità, una politica cioè animata dalla missione di offrire protezione, solidarietà, salvaguardia delle specificità culturali.

Per questa mondializzazione/demondializzazione, è necessario raccogliere l'eredità abbandonata dell'internazionalismo, ormai complessificato tuttavia in una sorta di planetarismo. L'internazionalismo non vedeva che l'unità astratta del genere umano, e ignorava le patrie così come ignorava le diversità culturali. La coscienza planetaria deve legare in modo inseparabile l'unità e la diversità umane. L'unità è il tesoro della diversità umana, la diversità è il tesoro dell'unità umana. Si devono riconoscere il diritto dei popoli e il diritto delle minoranze. Il diritto del popolo israeliano deve forse occultare il diritto del popolo palestinese (e viceversa)? E, se vogliamo parlare della Francia, l'antisemitismo montante deve occultare l'antiarabismo galoppante? I bambini nati in Francia da immigrati magrebini sono l'altra faccia della bandiera francese. La Francia laica e repubblicana deve riconoscersi ufficialmente come nazione multiculturale.


L'insufficiente democrazia parlamentare

Benché sia tutto da riformare e trasformare, pare che nulla in realtà sia cominciato. Ma in tutti i luoghi, Paesi, continenti, c'è una quantità di iniziative di ogni genere, economiche, ecologiche, sociali, politiche, pedagogiche, urbane, rurali, che superano gli ostacoli, trovano soluzione a problemi vitali, sono foriere d'avvenire. Sono sparse, separate, compartimentate, si ignorano vicendevolmente... Sono ignorate dai partiti, dalle amministrazioni, dai media. Queste iniziative meritano di essere conosciute, inventariate, raccolte affinché il loro concatenamento permetta di intravvedere le grandi traiettorie riformatrici di cui l'umanità in crisi ha bisogno.

Poiché tutto va trasformato e tutte le riforme sono solidali e interdipendenti, non posso passarle in rassegna qui, questo costituirà l'obiettivo di un libro ulteriore, forse definitivo. Mi limiterò quindi a indicare soltanto, e molto schematicamente, le vie di una riforma della democrazia.

La democrazia parlamentare, per quanto necessaria, è insufficiente. Bisognerebbe concepire e proporre le modalità di una democrazia partecipativa, specialmente su scala locale. Sarebbe utile, al tempo stesso, favorire un risveglio della cittadinanza, che a sua volta è inseparabile da una rigenerazione del pensiero politico e dalla formazione dei militanti ai grandi problemi. Sarebbe parimenti utile moltiplicare le università popolari che offrirebbero ai cittadini l'iniziazione alle scienze politiche, sociologiche, economiche.

Bisognerebbe altresì adottare e adattare una sorta di concezione neoconfuciana nelle carriere dell'amministrazione pubblica e nelle professioni che comportano una missione civica (insegnanti, medici), vale a dire promuovere una modalità di reclutamento che tenga conto dei valori morali del candidato, della sua propensione alla «benevolenza» (l'attenzione agli altri) e alla compassione, della sua dedizione al bene pubblico, della sua preoccupazione per la giustizia e l'equità.

Dobbiamo infine considerare che attualmente ci troviamo in una fase regressiva della nostra storia. I grandi progressi storici che hanno provocato l'implosione del totalitarismo sovietico, l'attenuazione del totalitarismo in Cina e in Vietnam, la fine della maggior parte delle dittature nell'America latina, sono stati seguiti da regressioni generate da questi stessi progressi. Il collasso del comunismo che fu, non lo dimentichiamo, una religione della salvezza terrena, è stato seguito dall'irrompere del ritorno di religioni della salvezza celeste e, seppure il fenomeno resta marginale, della propagazione degli aspetti più fanatici e oscurantisti di queste religioni; nazionalismi assopiti sono entrati in virulenza, aspirazioni etno-religiose di accesso allo Stato-nazione hanno scatenato guerre di secessione.

Il mio proposito in questa sede è quello di considerare la grande regressione europea. Anche in questo caso, si tratta di una regressione da relativizzare, poiché l'emancipazione di queste nazioni in seguito all'implosione dell'URSS ha costituito un grande progresso. Ma l'indipendenza di queste nazioni non ha serbato nulla dell'idea di fraternità dei popoli, ripetuta fino alla nausea durante l'epoca sovietica. Ha invece suscitato un nazionalismo angusto e xenofobo. Il dilagare dell'economia liberale ha sovreccitato l'aspirazione a vivere secondo le modalità consumistiche dell'Occidente e simultaneamente ha suscitato la nostalgia delle sicurezze dell'epoca sovietica, pur mantenendo vivo l'odio per il comunismo e la Russia. La paura dell'enorme Russia ha indotto l'idealizzazione degli Stati Uniti e l'approvazione dell'invasione dell'Iraq. Anche le idee e i partiti di sinistra sono al grado zero nelle ex democrazie popolari.

A ovest, non è soltanto la globalizzazione che ha spazzato via molte conquiste sociali del dopoguerra, eliminando un gran numero di industrie incapaci di sostenere la concorrenza asiatica, provocando delocalizzazioni che hanno polverizzato molti posti di lavoro; non è soltanto la corsa sfrenata alla produttività che ha fatto un repulisti nelle imprese escludendo ed espellendo tanti impiegati e operai; pesa anche l'incapacità dei partiti deputati a rappresentare il popolo di elaborare una politica che risponda a queste sfide. Il partito comunista è diventato una stella nana indurita; i movimenti trotzkisti, nonostante la giusta denuncia del capitalismo, si sono trincerati nell'incapacità di proporre un'alternativa. Uno di questi partiti si è autodenominato anticapitalista a causa dell'incapacità di formulare la minima finalità positiva.

Il partito socialista non smette di oscillare fra una retorica indirizzata alle masse popolari deteriorate e una «modernizzazione» che dovrebbe riuscire ad adattarlo al reale, mentre la modernità è in crisi. Θ stato, almeno fino al momento in cui scrivo (maggio 2010), incapace di effettuare uno sforzo di pensiero e si è limitato a stilare programmi zeppi di promesse illusorie. La sua unica speranza è quella di beneficiare del discredito della destra al potere per succederle, una destra che aveva già approfittato del suo discredito per succedergli. Ancora più grave della sparizione di un pensiero di sinistra è la sparizione del popolo di sinistra. Questo popolo, formato dalla tradizione scaturita dalla Rivoluzione francese, riattualizzata nel Ventesimo secolo dalla terza Repubblica, ha ricevuto le idee umanistiche dagli educatori e dagli insegnanti della scuola secondaria, dalle scuole di formazione del partito socialista, poi da quelle del partito comunista, che insegnava non soltanto il culto di Stalin ma anche la fraternità internazionalista e l'aspirazione a un mondo migliore.

La lotta contro lo sfruttamento dei lavoratori, la difesa dei deboli contro i forti, la preoccupazione per la giustizia nella società e nelle relazioni internazionali, tutto ciò ha nutrito per un secolo il popolo della sinistra, e la resistenza sotto l'Occupazione ha rigenerato il messaggio repubblicano e socialista. Ma la degradazione della missione dell'educatore e dell'insegnante in semplice professione, la sclerosi e il disseccamento dei partiti di sinistra, la decadenza dei sindacati, tutto ciò ha smesso di nutrire di ideologia emancipatrice un popolo di sinistra i cui ultimi rappresentanti, la cui età va dai sessanta ai settant'anni, ben presto spariranno. Restano la sinistra lamentosa e la sinistra radical-chic. E allora il razzismo e la xenofobia, che fra i lavoratori di sinistra non si esprimevano se non in privato ma erano inibiti nella vita politica visto che votavano socialista o comunista, rientrano nella sfera politica e una massa di ex elettori comunisti vota ormai Le Pen. Una Francia reazionaria, perennemente relegata in second'ordine salvo durante il regno di Vichy, balza infine in prima fila inaridita, sciovinista, monarchica. Accetta, o meglio auspica, il rifiuto dei lavoratori stranieri irregolari, la repressione cruenta dei giovani delle banlieues, esorcizza l'angoscia del nostro tempo attraverso l'odio per l'Islam, il Magrebino, l'Africano e, di nascosto, per l'Ebreo, nonostante la gioia che prova nel vedere Israele trattare il Palestinese come il Cristiano trattava l'Ebreo.


La grande regressione

La vittoria di Sarkozy va attribuita principalmente alle carenze socialiste e solo secondariamente alla sua astuzia politica: basti pensare che Ségolène Royal, che stava parlando con una voce nuova, fu costretta a tornare al politichese dal suo partito.

Sotto forme differenti, troviamo la stessa situazione in Italia dove il trionfo del berlusconismo non è altro che il risultato del dissesto di un partito democratico incapace di trovare un pensiero che lo assembri, e dove il popolo di sinistra della Toscana, del Piemonte e dell'Emilia Romagna è in via di sparizione. Stessa tragedia in Germania, dove un ramo di sinistra della socialdemocrazia si rinchiude nel vecchio linguaggio mentre la destra socialdemocratica si immerge nella modernità. Decadenza storica in Olanda, paese della tolleranza e del libero pensiero per antonomasia, che diventa xenofoba e reazionaria...

La barbarie che viene dal fondo dei tempi, quella della crudeltà, dell'odio e del disprezzo, causa di tanti asservimenti, massacri e genocidi, ricompare minacciosa. La barbarie raggelata della tecnica, la barbarie scatenata del profitto, si ritrovano prive di ostacoli.

Siamo in una fase di grande regressione, da cui non potremo uscire se non prendendo coscienza di essa e dei rischi mortali che fa correre ai popoli, alle democrazie, all'umanità. All'erta, dunque! Θ tempo di uscire dal sonnambulismo. La situazione esige una resistenza che prepari una rinascita. Una rigenerazione del pensiero, e in particolare del pensiero politico, potrebbe preparare un futuro. Non si tratta affatto di formulare un programma-catalogo, di cercare di concepire un «modello di società» (che non potrebbe far altro che essere statico in un mondo dinamico), perfino di cercare un po' di ossigeno nell'utopia. Si tratta di elaborare una Via che non potrà formarsi se non nella confluenza di molteplici vie riformatrici, e che può portare progressivamente dalla disgregazione di questa folle corsa suicidaria alla crescita che i nostri politici ritengono realistica e imprescindibile.

Ecco perché bisogna reimparare a imparare, rieducarsi per poter educare. Θ una condicio sine qua non. I capitoli di questo libro cercano di fornire elementi sia per un ripensamento, sia per mostrare la necessità e la possibilità di cambiare via.

La nuova Via non può tracciarsi che a partire dallo sviluppo e dalla confluenza di mille vie riformatrici, e sarà allora che la via ai nostri occhi oggi ineludibile (ma quanti ostacoli che sembravano insormontabili sono stati superati) cadrà in obsolescenza. La Via così tracciata condurrà a una nuova metamorfosi dell'umanità: l'accesso a una società-mondo di tipo assolutamente nuovo. Essa consentirà così di associare la progressività del riformismo e la radicalità della rivoluzione.

Rigeneriamoci collegando in modo complementare le tre fonti: quella centrata sull'individuo (l'anarchismo), quella centrata sulla comunità (comunismo), quella centrata sulla società (socialismo), e aggiungiamoci anche la fonte ecologica per avere una tetralogia. Ciò implica naturalmente la disgregazione delle strutture partitiche esistenti e una grande ricomposizione secondo una modalità ampia e aperta, come suggerito dalla formula della «democrazia ecologica» che introduce la politica nell'ecologia ma non ancora l'ecologia nella politica.

Torniamo alle fonti della sinistra, che sono al tempo stesso rivolta e aspirazione. Rivolta contro tutto quel che degrada l'uomo da parte dell'uomo, contro gli asservimenti, il disprezzo, le umiliazioni. Aspirazione non già al migliore dei mondi ma certo a un mondo migliore. Questa aspirazione, che non ha mai smesso di nascere e rinascere nel corso della storia umana, rinascerà ancora. Ma avrà bisogno dell'apporto di un pensiero politico rigenerato. Allora rinasceranno la volontà e la speranza.

Edgar Morin

Maggio 2010

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 117

Capitolo undicesimo
Alla ricerca dei fondamenti perduti



Θ necessario tornare alle tre domande che poneva Kant due secoli fa: «Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è permesso sperare?».

I socialisti del XIX secolo avevano compreso la solidarietà di queste tre domande. Furono in grado di rispondere alla terza solo dopo aver interrogato i saperi del loro tempo, non solo riguardo all'economia e alla società, ma anche rispetto all'uomo e al mondo. L'indagine più completa e più sintetica fu effettuata da Karl Marx con l'aiuto di Friedrich Engels. Da queste basi cognitive, Marx ha elaborato un pensiero che ha dato senso, certezza, speranza ai messaggi socialisti e comunisti.


La perdita dei fondamenti

Oggi, il problema non è più quello di sapere se la «dottrina» marxista sia morta oppure no. Si tratta piuttosto di riconoscere che i fondamenti cognitivi del pensiero socialista pongono un problema rispetto alla comprensione del mondo, dell'uomo e della società.

Per Marx, la scienza portava certezza. Oggi, invece, sappiamo che le scienze portano certezze locali, ma che le teorie sono scientifiche nella misura in cui sono confutabili, vale a dire non certe. Sulle questioni fondamentali, la conoscenza scientifica sfocia in insondabili incertezze.

Per Marx, la filosofia doveva essere necessariamente superata. Oggi, tutti i progressi delle scienze riaprono gli interrogativi filosofici primari.

Marx credeva che la materia fosse la realtà essenziale dell'universo. Oggi, la materia non è che uno degli aspetti di una realtà fisica polimorfa che appare come energia, materia, organizzazione.

Per Marx, il mondo obbediva a una dialettica suprema, e lui credette di cogliere le leggi del divenire storico. Oggi, apprendiamo che, ciascuno a suo modo, mondo fisico, biologico e umano evolvono secondo dialettiche di ordine/disordine/organizzazione, che comportano alee e biforcazioni, e che sono tutti minacciati di distruzione.

Le idee di autonomia e di libertà erano inconcepibili nella concezione materialista/determinista. Oggi, possiamo concepire in modo scientifico l'autoorganizzazione e l'autoproduzione, e siamo in grado di comprendere che l'individuo e la società umana sono macchine non banali capaci di atti inattesi e creatori.

La concezione antropologica di Marx era unidimensionale: né l'immaginario né il mito facevano parte della realtà umana profonda, l'essere umano era un homo faber, senza interiorità, senza complessità, un produttore prometeico votato a rovesciare gli dei e padroneggiare l'universo. Sappiamo invece, come hanno mostrato Montaigne, Pascal, Shakespeare, Dostoevskij, che homo è sapiens-demens — un essere complesso, multiplo, che porta in sé un cosmo di sogni e di fantasmi.

La concezione marxiana della società privilegiava le forze di produzione e la lotta di classe. La chiave del potere sulla società risiedeva nell'appropriazione delle forze di produzione. Le idee e le ideologie — compresa l'idea di nazione — non erano che semplici e illusorie sovrastrutture. Lo Stato non era che uno strumento nelle mani della classe dominante.

Come non vedere oggi che esiste un problema specifico del potere dello Stato, una realtà socio-mitologica formidabile nella nazione, una realtà propria delle idee? Come non vedere che le relazioni di classe sono dialogiche, ovvero relazioni al tempo stesso di antagonismo e di cooperazione e che, ora l'antagonismo si manifesta nelle lotte di classe, ora la cooperazione si manifesta sotto forma di collaborazione, di fatto o negoziata.

Marx credeva nella razionalità profonda della Storia. Era certo della missione storica del proletariato che avrebbe creato una società senza classi. Bisogna sapere che pur obbedendo a diversi determinismi — i quali, del resto, cozzano spesso in modo caotico e accidentato — la Storia dipende dall'alea e conosce biforcazioni inattese. Bisogna sapere che la Storia progredisce non in modo lineare, ma per deviazioni che si rafforzano e diventano tendenze. Bisogna sapere che il progresso non è certo e che qualunque progresso si sia conquistato resta fragile. Bisogna sapere che la credenza nella missione storica del proletariato non è scientifica bensì messianica: è la trasposizione, sulle nostre vite terrestri, della salvezza giudeocristiana promessa in cielo. Questa illusione è stata tragica e devastante.

Marx non pensava che, perfino nell'era socialista, l'azione di governare implicasse il fatto di impugnare il timone; che l'arte di dirigere fosse l'arte di dirigersi in condizioni incerte. Benché sia stato, nei suoi studi storici, sensibile alla complessità degli antagonismi in movimento, ignorava il principio cardinale dell'ecologia dell'azione il quale ci dice che ogni atto sfugge alle intenzioni dell'attore per entrare nel gioco delle interretroazioni dell'ambiente e può provocare un effetto contrario a quello auspicato.

La diagnosi di Marx sul mondo contemporaneo si focalizzava sul carattere capitalista che era sufficiente a contrassegnare le nostre società e rendeva secondari, perfino inessenziali, i loro caratteri statali, nazionali, democratici, tecnici, burocratici — occultava quindi le qualità complesse e la multidimensionalità della realtà storico-sociale. La burocrazia, la tecnologia, la tecnocrazia non sono più astratte o meno reali del capitalismo. Sono realtà anonime non meno potenti e che, pur essendo distinte, possono associarsi strettamente.

Nelle nostre società complesse, il capitalismo è uno dei tratti dominanti, ma non è il solo. In una società democratica, la dominazione del capitalismo può essere temperata dall'azione sindacale e da quella politica. In una società autoritaria o totalitaria, il capitalismo può essere controllato invece di esercitare il controllo.

Il marxismo identificava con il capitalismo tutti i mali di cui soffriva l'umanità contemporanea. L'imperialismo aveva come fonte il capitalismo, e le guerre avevano come fonte l'imperialismo. Ora, l'imperialismo e le guerre sono fenomeni storici che precedono di molto il capitalismo. I mali che provengono dal potere del denaro non possono più nascondere i mali che provengono dal potere del potere e che, del resto, esercitano la corruzione per tramite del denaro. Oggi è apparsa un'evidenza che non ha risparmiato che i ciechi: c'è stato qualcosa di peggio del capitalismo, cioè il preteso socialismo che si è realizzato nell'URSS, in Cina, nel Vietnam, in Cambogia. La più grande minaccia che pesa oggi sul pianeta si vale dell'alleanza fra due barbarie: una che, proveniente dal fondo delle età storiche, apporta guerre, massacri, deportazioni, fanatismi, e riproduce in società differenti le gerarchie, le dominazioni, gli sfruttamenti degli esseri umani fra cui quelli propri del capitalismo; un'altra che, proveniente dalla nostra civiltà tecno-industrial-burocratica, impone la sua logica meccanica, raggelata, anonima, ignora gli individui, la loro carne, i loro sentimenti, le loro anime e mette al servizio dei poteri le armi di distruzione e le modalità di manipolazione. Né i mali determinati dal fanatismo, dal razzismo, dal nazionalismo, né i mali determinati dalla tecnica e dalla burocrazia possono essere ridotti a quelli che produce il capitalismo.

Il socialismo si presentava come il rimedio ai mali dell'umanità. Oggi che un preteso socialismo è riuscito a fare peggio del capitalismo nell'oppressione dei proletari, sappiamo che i regimi politici non sono equivalenti e che è meglio un regime democratico, pur limitato, con il capitalismo, che un regime totalitario senza capitalismo. Non possiamo più indicare il male nel capitalismo e il bene in tutto ciò che lo combatte. Per altro la stessa parola «socialismo» è divenuta vuota. Si è fragorosamente degradata nel trionfo del socialismo totalitario, poi totalmente screditata nella sua caduta. Il socialismo si è progressivamente inaridito nella socialdemocrazia che, dovunque abbia governato, è rimasta senza fiato. I partiti socialisti non fanno che ripetere alcune litanie, obbedendo a un pragmatismo alla giornata.

A una teoria articolata e coerente è seguita un'insalata capricciosa di luoghi comuni sulla modernità, l'economia, la società, la gestione. La riduzione del socialismo a una buona amministrazione ha portato a un gretto gestionarismo e rende evidente l'incapacità di affrontare i problemi più stridenti e di rianimare la minima speranza. I dirigenti si circondano di tecnocrati e di specialisti; si affidano al sapere parcellare degli esperti che par loro una garanzia sotto il profilo della scienza e dell'università. Sono divenuti ciechi di fronte a tutti i grandi problemi. La politica è sprofondata nell'economia. La consultazione permanente dei sondaggi funge da bussola. Il grande progetto è sparito.

Certo, oggi l'imperversare dell'economia mondializzata pone nuovi problemi, nuovi pericoli, suscita nuovi mali. Viene allora la tentazione di concepire la mondializzazione come lo stadio supremo della dominazione del capitale, ed è questo che fanno tutti coloro i quali hanno bisogno di ritrovare il proprio manicheismo ritrovando, se non il proletariato redentore, per lo meno il capitalismo colpevole, perdendo però lo spirito internazionalista che animava il socialismo.

Marx deve essere superato, vale a dire integrato nella costellazione dei pensatori che possono chiarire la nostra riflessione, a cominciare dalla sua aspirazione a una conoscenza al tempo stesso antropologica, sociologica e storica. La sua concezione del capitalismo deve anch'essa essere integrata nel complesso degli sviluppi tecnici, sociologici, democratici, ideologici della storia moderna. Ma bisogna abbandonare qualunque legge della Storia, qualunque credenza nella provvidenza del progresso, ed estirpare la funesta fede nella salvezza terrena. Ciò che resta, e resterà, sono le aspirazioni a un tempo di libertà e fratellanza allo sviluppo umano e a una società migliore che si sono espresse sotto il termine «socialismo».

Ma come rispondere a queste aspirazioni?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 129

Il nodo gordiano

Le sfide sono talmente formidabili, talmente multiple e talmente legate fra loro che è difficile diagnosticare il male principale, il pericolo principale, il bene principale. Θ più che probabile che il problema principale sia l'intrico di problemi, tutti vitali e mortali, dell'economia, dell'ecologia, della demografia, della civiltà, del pensiero...

Mentre è divenuto incerto per le nostre coscienze, il mondo è diventato complesso non solo nel senso originario del termine — ciò che è tessuto insieme — ma anche nel senso in cui l'unità reca in sé il suo contrario: il pianeta si unifica mentre diviene sempre più frammentato.

Tutti comunicano, tutti sono in relazione, tutto permette la comprensione ma, al tempo stesso, l'incomprensione non fa che accrescersi. Tutto è solidale ma, al tempo stesso, tutto è conflittuale. I mezzi tecnici che hanno permesso di unificare il pianeta sono al tempo stesso quelli che portano con sé le guerre e la possibilità della distruzione. Questa nuova barbarie tecnica si allea a tutte le barbarie antiche. Se siamo sommersi da questa barbarie, nel migliore dei casi avremo il Medio Evo planetario, nel peggiore Mad Max.

Le due grandi sfide, quella della complessità e quella dell'incertezza, ci dicono che siamo in un'avventura comune a tutta l'umanità e che questa avventura è sconosciuta.

Θ tragicamente, nel vuoto del pensiero politico, che sono sorte le formidabili sfide lanciateci dal nostro tempo. E queste sfide sono così disorientanti per il pensiero politico che mantengono vivo il suo vuoto.

Θ ridicolo che i socialisti cerchino di aggiornare, modernizzare, socialdemocraticizzare, mentre il mondo, l'Europa, la Francia si trovano di fronte ai problemi giganteschi della fine dei tempi moderni.

L'assenza di investimenti intellettuali, il tran tran della politica miope, che tira a campare alla giornata, il regno del pensiero parcellare rendono invisibili le sfide gigantesche. Tutto ciò contribuisce a mantenere l'impotenza di una politica dove l'assenza di progetto accresce l'impotenza e dove l'impotenza accresce il vuoto siderale di un progetto, secondo un ciclo ricorsivo.

Le incertezze e le interdipendenze del nostro mondo complesso, invece di essere considerate le sfide da raccogliere, appaiono come ostacoli insormontabili che fanno perdurare a loro volta l'impotenza e il vuoto progettuale.


Le rifondazioni

Θ in queste condizioni che le rifondazioni vengono continuamente differite e, per ciò stesso, diventano sempre più necessarie. Come ha detto il saggio Hadj Garm'Orin: «A forza di rimandare l'essenziale in nome dell'urgenza, si finisce per dimenticare l'urgenza dell'essenziale».


La riforma del pensiero

La rifondazione politica esige, prima di tutto, una riforma del pensiero.

L'incapacità di pensare insieme i problemi locali e i problemi globali costituisce l'aspetto intellettuale della tragedia della nostra epoca. Oggi siamo vittime di due tipi di pensiero chiuso: il primo, quello del pensiero parcellare della tecnoscienza burocratizzata, che ritaglia il tessuto complesso del reale in fette di salame; l'altro, quello del pensiero sempre più locale, ripiegato sull'etnia o la nazione, che scompone in un puzzle il tessuto comune dell'umanità.

Il pensiero riduzionista continua a cercare in modo miope la causa e l' effetto, a determinare il Bene e il Male, ad indicare il colpevole e il salvatore. Continua a eliminare qualunque ambiguità, qualunque incertezza. Continua a credere che la soluzione economica risolverà tutti i problemi.

Abbiamo bisogno di un pensiero capace di cogliere la multidimensionalità della realtà, di riconoscere il gioco delle interazioni e retroazioni, di affrontare le complessità invece di cedere ai manicheismi ideologici o alle mutilazioni tecnocratiche — che non riconoscono se non realtà arbitrariamente compartimentate e sono cieche rispetto a ciò che non è quantificabile. Dobbiamo abbandonare la falsa razionalità. I bisogni umani non sono soltanto economici e tecnici, ma anche affettivi e mitologici, religiosi, comunitari, esorbitando dagli interessi materiali e, oggi sempre più spesso, contraddicendoli. I razionalizzatori sono ciechi di fronte alle passioni umane, alle follie collettive della nostra Storia. Le due guerre, il nazismo, lo stalinismo non possono essere analizzati con il solo sguardo di Marx, Braudel o Wallerstein. Θ necessario anche l'altro sguardo, quello di Shakespeare, quello che percepisce «il fragore e il furore», la dimensione aleatoria, tragica, i conflitti distruttivi, gli aborti, le possibili biforcazioni della Storia.

Non ci occorre né un pensiero parcellare o riduzionista, incapace di cogliere il contesto e la globalità, né un pensiero globale e vuoto. Quel che davvero serve è un pensiero in grado di considerare le parti nella loro relazione con il tutto e il tutto nelle sue relazioni con le parti. Un simile pensiero evita al tempo stesso di limitarsi a percepire un frammento chiuso di umanità dimenticando la mondialità, e di ridursi a percepire una mondialità sprovvista di complessità. La riforma del pensiero è dunque necessaria per contestualizzare, situare, globalizzare e anche per cercare di stabilire un meta-punto di vista che, senza farci sottrarre alla nostra condizione locale-temporale-culturale singolare, ci consenta di considerare come da un'altana il nostro sito antropo-planetario.

La formula Think global and act local è sempre vera, ma bisogna aggiungere Think local and act global. In realtà sarà molto difficile legare lo sviluppo della coscienza locale e quello della coscienza planetaria. Ma tutto ciò che è necessario è estremamente difficile.

La riforma del pensiero richiede una rifondazione epistemologica che permetterà un pensiero complesso.

Siamo di fronte alla complessità del mondo e alla complessità della Storia. Θ necessario, per non ricadere più nei terribili errori del passato, e per eludere l'apatia e la fragilità, pensare l'era planetaria, pensare l'ambiguità della mondializzazione, pensare la crisi mondiale, pensare una politica dell'umanità — o antropo-politica —, pensare la nostra crisi di civiltà, pensare una politica di civilizzazione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 137

Finalità

La prospettiva originaria del socialismo era antropologica (riguardava l'uomo e il suo destino), mondiale (internazionalista) e civilizzatrice (fraternizzare il corpo sociale, sopprimere la barbarie dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo). Dal XIX secolo, il socialismo ha legato la lotta contro la barbarie di dominazione e di sfruttamento all'ambizione di fare della Terra la grande patria umana.

Non solo si può, ma si deve tesaurizzare queste finalità, modificandone però i termini: il nuovo pensiero planetario, che prolunga l'internazionalismo, deve rompere con due aspetti capitali di quest'ultimo: l'universalismo astratto — «I proletari non hanno patria» — e il rivoluzionarismo astratto — «Faremo tabula rasa del passato».

Non si tratta più di fare tabula rasa per «rivoluzionare». Bisogna conservare per rivoluzionare e rivoluzionare per conservare. Di qui un inevitabile paradosso: la rivoluzione ha bisogno di conservare non solo i nostri esseri biologici, ma anche la natura, la biosfera, la diversità del mondo, le culture che vogliono vivere, l'eredità del passato che contiene i germi del futuro. Ma per conservare bisogna rivoluzionare l'umanità per sottrarsi all'autodistruzione e consentire la continuazione dell'ominizzazione e accedere alla patria terrena. Di fatto, è necessario correlativamente conservare l'idea di rivoluzione e rivoluzionare l'idea di conservazione. Θ la nozione di metamorfosi che contiene questo doppio senso, poiché una metamorfosi — radicalmente diversa dalla rivoluzione della tabula rasa e dalla conservazione senza cambiamenti — porta con sé a un tempo la conservazione e la trasformazione di sé in qualcos'altro. Salvaguarda trasformando e ricompone decomponendo.

Per quanto attiene all'universalismo astratto, dobbiamo comprendere a quale bisogno formidabile e irriducibile corrisponda l'idea di nazione. Dobbiamo non più opporre l'universale alle patrie, ma legare concentricamente le nostre patrie familiari, regionali, nazionali, europee, e integrarle nell'universo concreto della patria terrena.

Dobbiamo smetterla, infine, di contrapporre un futuro radioso a un passato di servitù e superstizioni. Tutte le culture hanno le loro virtù, le loro esperienze, la loro saggezza, e al tempo stesso le loro particolari carenze e ignoranze. Θ mettendo a frutto il suo passato che un gruppo umano trova l'energia per affrontare il presente e preparare il futuro. La ricerca di un avvenire migliore deve essere complementare e non antagonista rispetto alla capitalizzazione del passato. La capitalizzazione del passato culturale è per ciascuno una profonda necessità identitaria, ma tale identità non è incompatibile con l'identità propriamente umana dalla quale non dobbiamo discostarci.

La patria terrena non è astratta, poiché è da essa che viene l'umanità. La caratteristica profonda dell'umano è l' unitas multiplex: è l'unità genetica, cerebrale, intellettuale, affettiva dell' homo sapiens-demens che esprime le sue innumerevoli potenzialità attraverso la diversità delle culture. La diversità umana è il tesoro dell'unità umana, che a sua volta è il tesoro della diversità umana. Da cui il doppio imperativo: ritrovare e realizzare l'unità umana nella fioritura delle diversità. Salvare al tempo stesso singolarità e diversità e imbastire un tessuto comune.

Bisogna sia istituire una comunicazione viva e permanente fra passato, presente e futuro, sia istituire una comunicazione viva e permanente fra le singolarità culturali, etniche, nazionali e l'universo concreto di una Terra patria di tutti.

Ecco dunque le finalità:

– salvare il pianeta minacciato dal nostro sviluppo tecnico-economico e dal nostro sottosviluppo morale e mentale;

– regolare e controllare i processi a cui si è dato impulso;

– ripensare e riformulare in termini adeguati lo sviluppo umano — anche qui, rispettando e integrando l'apporto delle culture diverse da quella occidentale. Lo sviluppo che non si inscrive nella salvaguardia del pianeta e nel perseguimento cosciente dell'ominizzazione è insostenibile;

– ripensare, instaurare, restaurare, rigenerare la democrazia.

Una delle grandi sfide del nuovo secolo sarà quella di rigenerare le cittadinanze locali e di generare una cittadinanza planetaria, di legare le nostre diverse patrie in una Terra-patria. Non si riesce ancora a rigenerare una vita democratica locale, regionale, a misura di città, né a generare una democrazia aldilà del quadro nazionale.

La strada sarà lunga. Si tratta di una politica storica, situata nel tempo storico — non di una raffazzonata politica alla giornata —, destinata a modificare il corso della storia.

Non sappiamo se riusciremo a uscire dall'età del ferro planetaria e dalla preistoria dello spirito umano. Θ dunque divenuta una necessità primaria e vitale resistere alla doppia barbarie. Questa resistenza non è soltanto la condizione per la sopravvivenza dell'umanità, ma è anche necessaria per permettere un progresso dell'ominizzazione. Eccoci quindi spinti al tempo stesso a resistere, a conservare, a rivoluzionare.

Quindi, civilizzare la Terra, solidarizzare, confederare l'umanità rispettandone le culture e le patrie, trasformare la specie umana in umanità diventa l'obiettivo fondamentale e globale di qualunque politica che aspiri a un tempo al progresso e alla sopravvivenza dell'umanità.

Ecco che cosa prolunga e trasforma l'ambizione socialista originaria.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 223

Capitolo ventunesimo
Ecologia e politica



Il successo verde, in Francia, alle elezioni europee, non deve essere né sovrastimato né sottostimato. Non deve essere sovrastimato perché scaturisce in parte dalla debolezza del partito socialista, dalla scarsa credibilità del Modem e delle piccole formazioni di sinistra. Non deve però essere sottostimato poiché testimonia il progresso politico della coscienza ecologica nel nostro Paese.

Ciò che resta insufficiente è la coscienza della relazione fra politica ed ecologia. Certo, molto appropriatamente Cohn-Bendit parla in nome di un'ecologia politica. Ma non è sufficiente introdurre la politica nell'ecologia; bisogna anche introdurre l'ecologia nella politica. In effetti i problemi della giustizia, dello Stato, dell'uguaglianza, delle relazioni sociali sfuggono all'ecologia. Una politica che non inglobasse l'ecologia sarebbe mutilata, ma una politica che si riducesse alla sola ecologia sarebbe ugualmente mutilata.

L'ecologia ha il merito di indurci a modificare il nostro pensiero e la nostra azione rispetto alla natura. Certo, questa modificazione è ben lungi dall'essere compiuta. Alla visione di un universo di oggetti che l'uomo è destinato a manipolare e assoggettare non si è ancora veramente sostituita la visione di una natura viva di cui bisogna rispettare gli equilibri e le diversità. Alla visione di un uomo «soprannaturale» non è ancora subentrata la visione della nostra complessa interdipendenza con il mondo vivente, la cui morte significherebbe la nostra morte.

L'ecologia politica ha sempre più il merito di indurci a modificare il nostro pensiero e il nostro corso di azione rispetto alla società e a noi stessi.

In effetti, ogni politica ecologica ha due facce, una rivolta verso la natura, l'altra rivolta verso la società. Così la politica che cerca di sostituire le energie fossili inquinanti con energie pulite è al tempo stesso l'aspetto di una politica di salute, di igiene, di qualità della vita. La politica delle economie energetiche è in pari tempo l'aspetto di una politica che evita gli sprechi e lotta contro le intossicazioni consumistiche delle classi medie. La politica che tende a ridurre l'agricoltura e l'allevamento industrializzati, disinquinando in tal modo le falde freatiche. Disintossicare abolendo il consumo di animali pieni di ormoni e di antibiotici, e il consumo di vegetali impregnati di pesticidi ed erbicidi, sarebbe al tempo stesso una politica di igiene e di salute pubblica, di qualità degli alimenti e di qualità della vita. La politica che cerca di disinquinare le città, circondandole di una cintura di parcheggi, sviluppando i trasporti pubblici elettrici, pedonalizzando i centri storici, contribuirebbe significativamente a una riumanizzazione delle città che comporterebbe inoltre la reintroduzione della mescolanza sociale sopprimendo i ghetti, compresi i ghetti di lusso per privilegiati.

Di fatto, c'è già nella seconda faccia dell'ecologia politica una parte economica e sociale – fra cui i grandi lavori necessari allo sviluppo di un'economia verde, che comprende la costruzione di parcheggi intorno alle città. Vi è anche qualcosa di più profondo, che non si trova ancora in alcun programma politico, ed è la necessità positiva di cambiare le nostre vite, non solo per quanto riguarda la sobrietà, ma soprattutto riguardo al senso della qualità e della poesia della vita.

Ma questa seconda faccia non è ancora abbastanza sviluppata nell'ecologia politica. Prima di tutto, quest'ultima non ha assimilato il secondo messaggio, di fatto complementare, formulato alla stessa epoca in cui spuntò il messaggio ecologico, agli inizi degli anni Settanta, quello di Ivan Illich. Ivan Illich aveva formulato una critica originale alla nostra civiltà, mostrando quanto malessere psichico accompagni il progresso del benessere materiale, come l'iperspecializzazione nell'educazione o nella medicina produca nuovi accecamenti, quanto sia necessario rigenerare le relazioni umane attraverso quella che Illich ha chiamato la convivialità. Mentre il messaggio ecologico penetrava lentamente nella coscienza politica, il messaggio illichiano restava invece confinato. Il fatto è che le degradazioni del mondo esterno divenivano via via più visibili, mentre le degradazioni psichiche sembravano restare appannaggio della vita privata e permanevano indistinte alla coscienza politica. Il malessere psichico dipendeva e dipende ancora dai farmaci, i sonniferi, gli antidepressivi, le psicoterapie, la psicoanalisi, i guru, ma non è ancora percepito come un effetto della civiltà. Il calcolo applicato a tutti gli aspetti della vita umana occulta ciò che non può essere calcolato, vale a dire la sofferenza, la felicità, la gioia, l'amore, in breve ciò che è davvero importante nelle nostre vite e che sembra extrasociale, puramente personale. Tutte le soluzioni prese in considerazione sono quantitative: crescita economica, aumento del PIL. Quando dunque la politica prenderà in considerazione l'immenso bisogno di amore della specie umana perduta nel cosmo?

Una politica che integrasse l'ecologia nell'insieme del problema umano affronterebbe i problemi posti dagli effetti negativi, ogni giorno più rilevanti rispetto agli effetti positivi, degli sviluppi della nostra civiltà, e in particolare la degradazione delle solidarietà, e ci farebbe comprendere che l'instaurazione di nuove solidarietà è un aspetto capitale di una politica di civilizzazione. L'ecologia politica non dovrebbe isolarsi. Essa può e deve radicarsi nei principi delle politiche emancipatrici che hanno animato l'ideologia repubblicana, poi quella socialista e comunista, e che hanno irrigato la coscienza civile del popolo di sinistra in Francia. In tal modo l'ecologia politica potrebbe accedere a una grande politica rigenerata e contribuire a rigenerarla.

Una grande politica rigenerata si impone tanto più se si pensa che il partito socialista è incapace di uscire dalla sua crisi, e si rinchiude in un'alternativa sterile fra due rimedi antagonisti. Il primo è la «modernizzazione» (cioè l'adesione alle soluzioni tecno-liberali), proprio mentre la modernità è in crisi nel mondo. L'altro rimedio, l'accentuazione dell'identità di sinistra, è incapace di formulare un modello di società. Il sinistrismo soffre oggi di un rivoluzionarismo spossessato di rivoluzione. Denuncia giustamente l'economia neoliberale e gli scatenamenti del capitalismo, ma è incapace di enunciare un'alternativa. La dizione «partito anticapitalista» tradisce questa carenza.

Se l'ecologia politica reca la sua verità e le sue insufficienze, i partiti di sinistra recano, ciascuno a suo modo, le loro verità, i loro errori e le loro carenze. Dovrebbero tutti decomporsi per ricostituirsi in una forza politica rigenerata in grado di aprire delle Vie. La via economica sarebbe quella di un'economia plurale. La via sociale, quella della regressione delle ineguaglianze, della deburocratizzazione delle organizzazioni pubbliche e private, dell'instaurazione di solidarietà. La via pedagogica, quella di una riforma cognitiva che permetterebbe di collegare le conoscenze più che mai frammentate e disgiunte per trattare i problemi fondamentali e globali del nostro tempo. La via esistenziale, quella della riforma della vita, in cui ci si avvedrebbe di ciò che ciascuno sente in modo ancora oscuro, e cioè che l'amore e la comprensione sono i beni più preziosi per un essere umano e che ciò che conta è vivere poeticamente, vale a dire nella fioritura di sé, nella comunione e nel fervore.

E se è vero che il corso della nostra civiltà, ormai mondializzata, conduce al precipizio, e che abbiamo bisogno di cambiare via, tutte queste vie nuove dovrebbero poter convergere per costituire una grande Via che guiderebbe, più che a una rivoluzione, a una metamorfosi. Giacché quando un sistema non è capace di risolvere i suoi problemi vitali, o si disintegra, o produce un metasistema più ricco, capace di gestirli: subisce una metamorfosi. L'inseparabilità dell'idea di progresso riformatore e di una metamorfosi permetterebbe di conciliare l'aspirazione riformatrice e quella rivoluzionaria. Permetterebbe la resurrezione della speranza senza la quale non è possibile alcuna politica di salvezza.

Non siamo neppure all'inizio della rigenerazione politica. Ma l'ecologia politica potrebbe avviare e animare l'inizio di un inizio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 249

Postfazione



Vent'anni dopo la svolta del 1989, possiamo tornare a dirlo con piena cognizione di causa: chi allora parlava di fine della storia si sbagliava. Si sbagliava perché poco comprendeva del senso profondo della svolta di allora, ma soprattutto della natura stessa del divenire storico. Chi parlava di fine della storia dava per scontata una progressiva convergenza fra tutte le civiltà, fra tutti i sistemi politici. Invece si è aperta un'età piena di conflitti.

Ciò non vuol dire che il mondo dei nostri anni sia più pericoloso, o più ingiusto, di quanto sia stato il mondo nei tempi più bui del ventesimo secolo. Piuttosto, il mondo dei nostri giorni è segnato da un'irriducibile ambivalenza: l'emergenza di nuove forme di solidarietà globale si scontra con la regressione verso identità tribali e intolleranti; il cammino verso l'emancipazione e la libertà degli individui e delle collettività è minacciato da nuovi tipi di asservimento; la lotta contro la povertà materiale è minata dal dilagare di miserie e di degradi spirituali.

Soprattutto, siamo portati a comprendere l'irriducibile complessità, cioè l'irriducibile molteplicità di dimensioni (complementari e antagoniste) della storia. La storia non si lascia sottomettere né a presunte leggi ineluttabili, né a disegni d'insieme troppo generici. In ogni suo momento si intrecciano tendenze e controtendenze, tutte potenzialmente gravide di futuri possibili. Non sono disponibili facili scorciatoie che dispensino dal faticoso lavoro di ascolto e di interpretazione. Per questo le responsabilità personali non sono eludibili in nome di fini nobili e altisonanti. Per questo il futuro è incerto e tutto da costruire.

Mentre si profilava la svolta del 1989, ho scritto un libro insieme ad Edgar Morin e Gianluca Bocchi, Un nouveau commencement, Un nuovo inizio. Pur riconoscendo la radicalità della svolta, sostenevamo appunto che si trattava non di fine della storia, ma di storia «scongelata», di storia che riprendeva il suo corso. E parlavamo di nuove, inedite possibilità, di drammatiche biforcazioni del cammino umano, di inquietanti alleanze fra nuove e vecchie barbarie.

Edgar Morin, certo, la storia del ventesimo secolo, l'ha vissuta con tutto se stesso. Dalle sue esperienze molteplici e contrastanti ha sempre cercato di trarre gli insegnamenti più profondi: in particolare circa la natura della storia, del divenire, dell'azione umana.

Il «romanzo di formazione» del giovane Edgar Morin si è svolto nel momento più cupo del ventesimo secolo: all'ombra del dilagare delle armate naziste, che nella primavera del 1940 fecero letteralmente squagliare l'esercito francese e arrivarono ad un passo dall'annientare l'esercito britannico. Allora il destino d'Europa sembrava saldamente in mano a nuovi, terrificanti padroni. A molti europei sembrò che a questo intollerabile male si potesse reagire soltanto diventando «compagni di strada» del suo dichiarato avversario, lo stalinismo, che viveva la sua età del ferro, fatta di processi, di deportazioni e di gulag. Anche il giovane Edgar Morin fece questo passo, seppure riluttante, convinto allora che una razionalità storica superiore potesse giustificare i misfatti della vita quotidiana. Presto ne fu disilluso. Pagò il suo allontanarsi dall'orizzonte stalinista con l'isolamento personale e intellettuale.

Morin, tuttavia, non recriminò, e non si intrappolò in una pura denuncia. Piuttosto, con una profonda autocritica, condensata mirabilmente nel volume intitolato appunto Autocritique, iniziò a dedicarsi proprio a quella critica della razionalità storica che, in un ventesimo secolo così denso di drammi, aveva consentito a molti e a lui stesso di credere nel sicuro approdo del progresso. Così pose mano a un'autoriforma radicale del proprio stesso pensiero. Questa poi sarebbe culminata nell'elaborazione filosofica di un pensiero complesso, alla cui base sta proprio l'idea che non si possa dare alcun punto di osservazione panoramico da cui scorgere cammini ben tracciati e ineluttabili; che non possa esserci alcuna avanguardia in grado di parlare in nome della Storia e del Progresso.

Nella storia, la gran parte degli attori segue una razionalità a breve termine, scommettendo su ciò che appare di volta in volta più probabile. Ma, nelle grandi svolte, quello che si realizza, come ci ha aiutato a comprendere Edgar Morin, è l'improbabile. Talvolta ciò che è eccentrico, marginale, persino sconfitto, può diventare rapidamente il nucleo di una grande innovazione futura. Queste consapevolezze certo non ci offrono certezze né guide infallibili per l'azione. Ma ci aiutano a comprendere che l'azione umana deve farsi strada per una via impervia, stretta fra il delirio di onnipotenza e la paralisi conseguente da una sopravvalutazione dei propri limiti. Ci aiutano a comprendere che le nostre azioni non possono mai cambiare integralmente il mondo, ma contribuiscono sempre a far pendere la bilancia da un lato, e talvolta in maniera decisiva.

Sta qui, nella comprensione dell'irriducibile ambivalenza dell'agire umano, il cardine di una autentica riforma della politica, tanto più necessaria da quando la fine del Novecento ha segnato la fine delle utopie asserite in nome di una suprema razionalità storica: e con questo non intendo soltanto la fine del socialismo reale, ma anche, e insieme, la fine dell'idea, profondamente insita nei paradigmi prevalenti nel Novecento, che il progresso scientifico e tecnologico comporti quasi di necessità il miglioramento delle condizioni umane, la scomparsa della miseria, l'elevazione materiale e spirituale di ogni individuo e di ogni collettività.

Quasi all'unisono, con l'invocazione della presunta fine della storia, si era proclamato il pragmatismo come unica prospettiva per la politica. L'esito è stato un esercizio freddo del potere, che ha estraniato i cittadini dalla cosa pubblica. In altri casi il populismo ha riscaldato gli animi, ma ha confermato la chiusura sull'immediato, e ha alimentato il rifiuto delle differenze, delle ambivalenze, delle complessità.

Il pensiero complesso di Edgar Morin delinea il nuovo paradigma, indispensabile per la sopravvivenza della politica stessa.

Edgar Morin ha compreso che gli orizzonti planetari costituiscono un'inedita moltiplicazione sia dei rischi sia delle possibilità per la specie umana. Ha compreso che, sul pianeta sempre più piccolo e fittamente interrelato che ci ospita, o si vince tutti o si perde tutti. Che questo pianeta o diventa una Terra-patria (amata con lo stesso «calore animale» con il quale abbiamo saputo amare quegli esseri «uraniani» che erano gli Stati-nazione) o ci perderemo tutti. Questo vale oggi sempre su scala globale. Ma questo vale anche sulle scale più ridotte: nazioni, regioni, città. E vale soprattutto per la nostra Europa, la cui unità è ostacolata da antiche logiche nazionali.

Θ in questo quadro che Edgar Morin ha delineato la sua proposta di riforma della politica.

Il pensiero complesso che egli ha saputo tanto profondamente elaborare, e incarnare nella sua stessa vicenda biografica, fa della sensibilità all'incertezza, all'ambivalenza e all'improbabilità non una fonte di impotenza, di cronica indecidibilità, ma una fonte di sentimento di appartenenza al mondo, di speranza nell'insperato, di dialogica generativa, di azione creativa. Di questo, e di molto altro, non possiamo che essergli profondamente riconoscenti.

Mauro Ceruti

17 dicembre 2010

| << |  <  |