Copertina
Autore Gianluca Morozzi
Titolo Dieci cose che ho fatto
Sottotitoloma che non posso credere di aver fatto, però le ho fatte
EdizioneFernandel, Ravenna, 2003 , pag. 160, dim. 140x200x13 mm , Isbn 978-88-87433-36-4
LettoreElisabetta Cavalli, 2003
Classe narrativa italiana
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Pagina 5

Intro



In quel giorno di maggio un po' a metà tra nuvole e sole c'era questo scrittore appoggiato al bancone, e questo scrittore appoggiato al bancone guardava il suo aperitivo con una smorfia che sembrava voler dire Che è 'sta roba, mestruo?

Io bevevo il mio caffè in silenzio, non troppo in confidenza con questo scrittore alto e dai capelli grigi, e a un certo punto lo scrittore alto e dai capelli grigi si era messo a dire Guarda, a me, scrivere fa schifo. Io avevo sorriso pensando Cazzo dici?

Lo scrittore aveva continuato, aveva detto A me scrivere fa schifo, per me è come spaccare pietre, è un lavoro, mi chiedono un romanzo di quattrocento pagine, devo appiccicare una parola a un'altra parola per quattrocento pagine, mi chiedono un racconto di cinque cartelle, devo stare attento a non superare le cinque cartelle, guarda, un lavoro, come spaccar pietre, uguale. Io avevo continuato a sorridere pensando Questo è scemo.

E poi presentare i libri, aveva insistito lo scrittore alto e dai capelli grigi, io mi caverei un braccio piuttosto che andare in giro a presentare i libri, prendi il treno, quattro ore, arrivi in 'sto buco dimenticato da dio, ti sbattono in una biblioteca di paese davanti a cinque vecchie e tre aspiranti poeti che aspettano di farti leggere le loro schifezze, dici due boiate, prendi di nuovo il treno, quattro ore, no, ti dico, a me presentare i libri fa ribrezzo, e io lo avevo guardato come si guarda uno che ha appena detto A me se c'è una cosa che fa schifo è trombare.


E pensavo Ma tu, fare lo scrittore, non lo sognavi da bambino? Non scrivevi raccontini di fantascienza sui quadernoni a quadretti, tu.

E pensavo, Io a tredici anni sognavo di fare lo scrittore e di veder vincere l'ottavo scudetto. Ora ne ho trentuno. E va bene che la squadra per cui trepido difficilmente vincerà lo scudetto nel corso della mia esistenza terrena, ma un sogno su due, almeno, un sogno su due ha preso sembianze concrete, no?

E pensavo che a me, appiccicare una parola all'altra, andare in treno dalle cinque vecchie, ragazzi, giuro, a me piace da morire.

Così me ne stavo alla Fiera del libro di Torino, dopo che lo scrittore alto dai capelli grigi aveva concluso in gloria dicendo Firmare le copie ai lettori, parlare ai lettori, io gli sparerei, ai lettori.

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Pagina 25

I duri hanno due cuori



E dunque, in quel tristissimo tempo targato 1993, un'auto bianca si muoveva piano lungo una statale srotolata tra fossi profondi.

I campi arati espiravano nebbia a sbuffi, come il fiato davanti alla bocca nelle sere d'inverno. Le zolle gelate inspiravano nebbia, espiravano nebbia, inspiravano, espiravano.

Non c'era nessun altro su quella statale liscia e grigia. Solo l'auto bianca e il suo guidatore dal cuore sbriciolato.


Perché al telefono Valeria aveva detto Dobbiamo parlare, ma non stasera.

E io avevo chiesto con un filo di voce Perché non stasera?

E lei aveva detto Devo stare da sola, ma con un tono falsissimo, l'aveva detto.

E allora avevo bisbigliato come un moribondo Devi stare da sola o devi stare con Bruno?

E lei aveva risposto calmissima Proprio di questo dobbiamo parlare. Poi aveva ripetuto Ma non stasera.


E allora stavo guidando in mezzo ai campi arati, in una notte ghiacciata di febbraio, con il cuore sbriciolato e un mantra che recitava Non sta accadendo a me, non sta accadendo a me.

Perché Valeria era il primo bacio, il primo amore, la prima volta, avevamo un conto in comune alla Coop, ci mettevamo le monetine da cinquecento lire, a forza di cinquecento lire dovevamo comprarci la casa, l'avevamo anche disegnata la nostra casa, ce l'avevo ancora quel disegno, Valeria era il mio orgoglio e la mia forza, era cambiata, è vero, aveva smesso di essere dolce e remissiva e iniziato a sbraitare ordini come un ufficiale nazista, aveva iniziato a fumare come un camionista e a guardare schifosi talk-show, ma insomma, era sempre la mia Valeria, conosceva i miei genitori, i miei nonni, cosa c'entrava questo maledetto

Bruno

capobanconiere alla Coop, reparto salumi

con noi due?

Da dove se n'era uscito? Chi era, che c'entrava con noi due?

E se trovo la sua macchina, pensavo, Se c'è la sua macchina sotto casa di Valeria?

Cosa faccio, pensavo guidando lungo la statale, se trovo la sua macchina sotto casa di Valeria?

Quando un rapporto indistruttibile di colpo finisce, allora attraversi i cinque stadi di un malato che scopre che il suo male, sfiga, è incurabile.

Incredulità.

Paura.

Rabbia.

Patteggiamento.

Accettazione.

Quella notte di febbraio, a due chilometri da Croce di Mezzo e da casa di Valeria, stavo proprio a cavallo tra le prime due fasi.

La fase dell'incredulità, il non vedere l'ovvio, l'avevo già vissuta quasi tutta.

Valeria che improvvisamente allenta la catena. Valeria che mi lascia libero di passare le serate come mi pare, che tanto lei ha degli altri impegni. Valeria che si infila nelle cabine telefoniche per chiamate misteriose. Valeria che rifiorisce, dopo gli ultimi grigi mesi del nostro rapporto.

Per passare la linea sottile tra incredulità e paura, mancava solo l'ultimissima prova.

La macchina di Bruno.

Sotto casa di Valeria.


Nello stereo c'era la cassetta di Ligabue che lei mi aveva regalato. Ascoltavo quella canzone, I duri hanno due cuori, quella su Veleno che se ne sta al bar davanti a una grappa e a un posacicche pieno, con una foto di donna che brucia da dentro la giacca dalla parte del cuore, pensando di prendere a pugni un tipo che ride di lui e si è fatto sentire.

Ero entrato in paese.


Croce di Mezzo era una cittadina western senza un'anima in giro, due file di case ai lati della provinciale, il bar Centrale, il bar Sport. Un cavalcavia al confine nord, un benzinaio dell'Esso al confine sud. La nebbia come una barriera oltre il cavalcavia.

Avevo svoltato verso casa di Valeria.


C'è chi ha scelto la donna sbagliata, diceva la canzone, e chi ha scelto per tutta la vita. Altra scelta che ha, è anche farla finita.

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Pagina 57

La vendetta del completo bianco e rosso



C'era poi stato il tempo dell'accettazione, il tempo di rassegnarsi all'idea che Valeria non sarebbe più tornata, di mettere nel cassetto foto, ricordi e bigliettini e ripartire, semplicemente ripartire.

Ed era stato il tempo dei bilanci, quello che tre anni con Valeria mi avevano dato e quello che mi avevano tolto. Il tempo di capire quel che avevo perso e quel che avevo guadagnato.


Nei tre anni con Valeria avevo perso quaranta centimetri di capelli sotto le forbici di un barbiere.

Un giubbotto con le frange, relegato nell'armadio.

Molti dubbi e insicurezze di natura sessuali, avendo scoperto che quindici centimetri bastavano e avanzavano a soddisfare una ragazza.

Un'infinità di sabati sera divertenti, sacrificati a pallose cene di coppia, pallose uscite a coppie, pallose serate di tè freddo davanti alla tv.

E qualche amico, stanco di sentirsi dire ogni volta Non posso uscire, devo stare con Valeria.


Avevo guadagnato una lunga serie di artifizi dialettici da utilizzare in future, furiose litigate.

Qualche trucchetto sessuale da utilizzare per far pace dopo le furiose litigate.

Un paio di chili di orrendi peluche.

La consapevolezza che la luce che splende all'inizio di certe storie sa diventare incredibilmente opaca. In un modo così lento e impercettibile che te ne accorgi solo quando sei immerso in un lattiginoso mare grigio.


Ma, soprattutto, avevo guadagnato un orribile completo bianco e rosso.


Perché con la scusa del capodanno '92 - stendo un velo sul capodanno, sull'orrenda discoteca in cui ero stato trascinato, su certe odiosissime coppie di amici e parenti che Valeria si era portata dietro -, Valeria mi aveva convinto a comprare un vestito decente.

Anzi, l'astuta vipera aveva convinto mia madre. Che, pur di non mandarmi a una festa conciato da straccione, mi aveva affidato un budget mostruoso da spendere in un negozio di abbigliamento. Imponendomi di andarci con Valeria, che del mio gusto mia madre si fidava zero.

Avevo così trascorso un intero, eterno sabato pomeriggio da Imperiex, negozio fighetto di via Indipendenza, con Valeria che mi vestiva e mi spogliava come un manichino, mi guardava, scuoteva la testa, mi rivestiva e mi rispogliava, per un intero sabato pomeriggio dei miei - diversamente e molto meglio spendibili ventun anni.

Tutto questo, per uscire da Imperiex con quella schifezza inguardabile e improponibile, il completo giacca-pantalone rosso fucsia, la camicia bianca con motivi floreali rosso fucsia.


La cravatta, andava bene quella che Valeria mi aveva regalato anni prima. Quella rossa e blu con il simbolo del Bologna.

Te la regalo per le trasferte di coppa, aveva detto. Mi ci vedevo in trasferta in Polonia o a Edimburgo con il bomber, la sciarpa legata al polso, e la cravattina del Bologna. Proprio carino.


Avevo così trascorso l'orrendo capodanno '92 vestito da pagliaccio. Con quello schifo di completo bianco e rosso e la cravatta del Bologna.

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