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| << | < | > | >> |IndiceUn'infanzia pericolosa 5 L'esercito e la sopravvivenza 11 L'incontro con l'etologia 15 Le gioie di Oxford 18 Dallo zoo alla televisione 23 Nel mondo degli scimpanzé 30 L'uomo: una scimmia nuda 39 Malta: una parentesi esotica 43 Analisi dei gesti 52 L'abito e il suo messaggio sociale 57 Il calcio e la "lotta nell'arena" 61 Gli studi sul ciclo della vita 65 Relazioni tra esseri umani e animali 72 L'arte antica 76 La superstizione 79 Il viaggio: un modo di guardare 82 Differenze di sesso e di ruoli 85 Il futuro 89 |
| << | < | > | >> |Pagina 15L'incontro con l'etologiaSe ripenso alla mia vita universitaria, ricordo un giorno in particolare: il giorno in cui uno dei miei insegnanti, che aveva notato in me il ribelle creativo, decise che andavo incoraggiato. Non finirò mai di ringraziarlo per quanto fece per me in quel periodo. Ricordo che gli chiesi il permesso di tenere una lezione in un'altra università, cosa che di solito uno studente non si trova a chiedere al suo professore. Non sapendo che avevo tenuto corsi di arte per quasi un anno, al collegio militare, ne fu un po' sorpreso e mi domandò quale fosse l'argomento della lezione. Gli spiegai che era una conferenza sulla "Biologia dell'arte" e che ero interessato allo studio degli aspetti biologici del comportamento umano. Deve averlo tenuto a mente perché, qualche tempo dopo, m'informò del fatto che c'era una conferenza che mi avrebbe certamente interessato. Si svolgeva in un altro dipartimento, ma lui si prese la briga di accompagnarmi con la sua auto. Il relatore era il famoso etologo olandese Niko Tinbergen e il suo discorso era incentrato sullo studio naturalistico del comportamento animale. Rimasi ad ascoltarlo per un'ora del tutto affascinato e fui immediatamente catturato e convertito a questo nuovo settore di studio. Mi convinsi senza riserve che l'approccio etologico al comportamento animale era una materia di studio da intraprendere. Mi affascinava perché si trattava essenzialmente di un procedimento osservazionale, che veniva condotto proprio nell'ambiente in cui gli animali vivono e non era basato su esperimenti attraverso cavie - nonostante sia uno zoologo qualificato non ho mai fatto sperimentazione sugli animali, perché li amo troppo - e perché era possibile fare "osservazioni quantificate", che fornivano informazioni scientifiche valide, interferendo in minima parte con la vita dell'animale. Tinbergen era stato il pioniere dell' osservazione quantificata ed era arrivato solo da poco in Gran Bretagna, dalla natia Olanda, per tentare di diffondere il suo nuovo metodo di studio. All'epoca, erano in auge la "storia naturale", che consisteva nell'osservare semplicemente gli animali, senza analizzarne le azioni - il che non era scienza - e la "psicologia sperimentale", in cui in alcuni casi si recidevano parti del cervello animale, per studiare poi le reazioni dell'animale stesso. La psicologia sperimentale non mi ha mai affascinato. Conoscevo i ratti quanto bastava per sapere che sono animali da tana; quindi mettere un ratto in una gabbia equivale a renderlo non più un ratto, ma un prigioniero, un rifugiato! Distrugge la sua "ratticità", il suo essere ratto, perché non ha più la struttura del suo mondo. Proprio come gli esseri umani, anche i ratti hanno bisogno di una base da cui operare: una casa in cui tornare e da lasciare per andare a esplorare il mondo. L'intera psicologia del ratto, fuori dal suo habitat, mi sembrava priva di senso, perché non tiene in considerazione il comportamento naturale di questo animale. In quel periodo, alla fine degli anni Quaranta, la nuova scuola di etologia era mal vista dalla vecchia e trincerata psicologia, non solo perché era una nuova disciplina che sfidava quelle già esistenti, ma anche perché appariva superficiale, come il bird-watching (osservazione degli uccelli) e altre forme di storia naturale, proprio perché gli etologi preferivano lavorare sul campo, anziché nei laboratori. E, peggio ancora, quando portavano gli animali in laboratorio, insistevano per ricostruire il loro ambiente naturale, con enormi voliere per gli uccelli e grandi acquari per i pesci. La differenza chiave tra i naturalisti tradizionali e Niko Tinbergen stava nel fatto che lui non si limitava semplicemente a osservare gli animali, ma misurava, registrava, contava e analizzava la frequenza e l'intensità delle diverse azioni. Quando si osserva un animale mentre svolge una qualche azione - diceva - occorre porsi tre domande: che cosa lo abbia spinto a farla, come tale azione lo abbia aiutato a sopravvivere e come si sia evoluto quel particolare modello di comportamento, ponendolo in relazione con modelli di comportamento simili in altre specie. Nelle sue lezioni Tinbergen riassumeva questo approccio, sostenendo che l'obiettivo della sua ricerca era tentare di spiegare tre elementi: la causa, la funzione e l'evoluzione. Quell'unica ora trascorsa ad ascoltare Tinbergen fu per me una rivelazione. Decisi di andare a studiare con lui, a Oxford, dove era titolare di una cattedra; ma per far questo avrei dovuto vincere una borsa di studio in zoologia. Poiché mi ero impegnato poco nei miei primi due anni di università - passavo tutto il tempo a dipingere e a fare mostre dei miei lavori - fui costretto a studiare l'intero programma del triennio in un anno. Nel frattempo, mi ero anche innamorato di una ragazza incontrata nel Wiltshire, che aveva appena vinto una borsa di studio a Oxford e, naturalmente, mi sarebbe piaciuto trascorrere del tempo con lei. Queste due necessità mi hanno quasi portato a morte prematura, ma alla fine ce l'ho fatta: ho vinto la borsa di studio, sono andato a Oxford e ho iniziato la mia carriera di etologo. | << | < | > | >> |Pagina 39L'uomo: una scimmia nudaCome potete ricordare, a partire dalla mia infanzia non ho mai avuto una grande passione per il genere umano, a causa della sanguinosa guerra che si stava combattendo all'epoca. Tuttavia, crescendo e restando coinvolto dall'inevitabile maglia di rapporti tra gli esseri umani, ho cominciato ad amarli sempre più. Erano gli anni Sessanta, un decennio meraviglioso, in cui per la prima volta nella mia vita la gente stava diventando edonista: aveva cioè scoperto che poteva anche divertirsi. Nei primi dieci anni della mia esistenza - gli anni Trenta - avevo assistito alla Grande Depressione; nei dieci anni successivi - gli anni Quaranta - vidi gli orrori della guerra; gli anni Cinquanta furono il periodo dell'austerità e della ripresa post-bellica. Ma ora, finalmente, nei favolosi anni Sessanta, potevo osservare l'umanità nel suo stato migliore, alla ricerca vigorosa del piacere, dell'originalità e della creatività. Fu un decennio meravigliosamente liberatorio, un periodo di boom economico, durante il quale la mentalità era abbastanza elastica da accettare la pubblicazione di un libro, che sosteneva che eravamo tutti membri della specie "animale" più straordinaria che avesse mai abitato il nostro piccolo pianeta. Una delle conclusioni, a cui ero pervenuto nel mio studio sugli scimpanzé, fu che noi umani condividiamo con le grandi scimmie un'intensa curiosità e un'energica giocosità. Secondo me quella giocosità innata è un elemento chiave nella creatività e nell'inventiva umana. La cosa triste delle scimmie è che una volta adulte perdono questa caratteristica. Fortunatamente, a noi invece questo non accade. Gli esseri umani mantengono la loro potenziale giocosità per tutta la vita. Si tratta di una qualità esclusivamente umana, che ci rende creativi, inventivi ed esplorativi (Homo ludens). Tutte le forme di gioco adulto sono l'estensione del gioco infantile, solo che "giocare" da adulti significa arte, letteratura, musica, danza, teatro, cinema, televisione, pittura, scultura, sport, ricerca scientifica ed esplorazione. Tutte queste forme di espressione umana possono essere considerate forme avanzate di gioco animale. La giocosità dei cuccioli animali è resa possibile dalla presenza dei genitori, che li accudiscono, offrendo ai piccoli il tempo libero necessario per giocare. I nostri progressi tecnologici ci hanno offerto l'opportunità di crearci del tempo libero per noi stessi, pur essendo ormai adulti. Siamo riusciti a ridurre il tempo necessario a soddisfare i nostri bisogni per la sopravvivenza, limitandolo a una piccola parte della nostra routine quotidiana. Non abbiamo più bisogno di andare a caccia tutto il giorno, alla ricerca di cibo; la maggior parte di noi riesce ormai a trovare del tempo per se stesso e non facciamo come il gatto, che lo consuma dormendo. Un gatto dorme sedici ore al giorno, noi soltanto otto. Quando un gatto è felice, va a dormire. Noi no: ce ne andiamo in barca, in montagna o a ballare oppure ci teniamo occupati con una partita di calcio, un libro o una collezione di francobolli. Il cervello umano detesta l'inattività: poiché la nostra sopravvivenza dipende da uno stile di vita opportunistico, abbiamo questa necessità di mantenerci attivi tutto il tempo. Una volta soddisfatti i nostri bisogni primari, più tempo libero abbiamo, più possiamo essere creativi. Il gioco degli adulti non consiste nella costruzione di diversivi privi di senso, quanto piuttosto in creazioni artistiche e scientifiche che facciamo solo per il piacere di farle. A noi non occorre un quadro per sopravvivere, tanto meno una canzone, ma questa esigenza di goderci taluni aspetti del meraviglioso e complesso mondo del gioco adulto ci ha reso la grande specie che siamo oggi. La spinta primaria è rappresentata dall'inventiva umana che nasce dal gioco adulto e che ci porta a nuove scoperte, che ci danno più possibilità di indulgere nella nostra giocosità. Nel XXI secolo possiamo ormai viaggiare attraversando il pianeta in poche ore e, per quanto mi riguarda, nell'arco della mia vita sono stato in novanta Paesi, cosa che non avrei mai potuto fare nel XIX secolo. Anche a rischio di sembrare monotono, mi piace ancora una volta sottolineare che questa inventiva è scaturita dal senso di giocosità che è in tutti noi. Se si guarda alle principali invenzioni umane, possiamo notare come esse raramente nascano da un progetto definito. Al contrario, quasi sempre arrivano per caso, mosse dalla nostra inventiva, dal nostro desiderio di tentare, di esperimentare altre possibilità, dal nostro innegabile e inesauribile senso ludico. Proprio in questo modo, seguendo i miei studi sugli scimpanzé, quasi per capriccio, ero giunto a scrivere La scimmia nuda. Era nato come uno scherzo a una festa e finì con il diventare un progetto serio. All'epoca il libro rappresentò un duro colpo per molte persone, perché era come se si dicesse loro, in modo brusco: "Tu, lettore, sei un animale". Nei miei studi sugli scimpanzé ero rimasto affascinato da alcuni aspetti che mi facevano pensare al comportamento umano e la mia vera intenzione era quella di esaminare a fondo come ci rapportiamo con gli altri animali e che cosa ci rende speciali. Personalmente, come zoologo, non riuscivo a capire come potesse essere altrimenti, ma erano in molti a credersi speciali, una sorta di creature sacre. Io sapevo, con il cuore e con il cervello, forte di certezza assoluta, che noi esseri umani siamo solo un particolare tipo di scimmia. Tutto qui. Siamo gli animali più interessanti, più meravigliosi che esistano, ma pur sempre animali. Riassunsi questo concetto coniando una frase: "Non siamo angeli caduti, ma scimmie elevate". | << | < | > | >> |Pagina 52Analisi dei gestiQuando tornai a Oxford, assunsi un incarico di ricerca al Wolfson College e organizzai un gruppo di lavoro. È così che ha visto la luce la "Mappa dei gesti", nella quale indicammo la distribuzione di gesti selezionati in 28 Paesi diversi. Andavamo ovunque, registrando e misurando le differenze nel linguaggio del corpo. Fu un periodo molto affascinante della mia vita ed ebbi fortuna a trovare colleghi davvero brillanti. Il progetto ci portò in culture molto diverse e i risultati furono così interessanti che, nonostante avessi iniziato questa ricerca per ottenere materiale da includere nel mio saggio, alla fine giunsi alla pubblicazione anche di un secondo libro, più accademico, intitolato Gestures: their origins and distribution (I gesti: loro origine e distribuzione). Nessuno, prima di allora, aveva nemmeno tentato una mappa così dettagliata dei gesti e, anche se noi tutti conosciamo le differenze più ovvie, come ad esempio il fatto che in Giappone fanno un inchino invece di stringersi la mano alla maniera europea, ne esistono centinaia che sono assai meno note. Andando in giro per il mondo, non possiamo non notare che alcuni gesti a noi familiari non esistono in un altro Paese e che al loro posto ce ne sono degli altri. È veramente facile commettere degli errori: un determinato comportamento, che in una parte del mondo è amichevole, in un altro paese potrebbe essere offensivo o addirittura ostile. Ci sono anche dei gesti che hanno lo stesso significato per tutti: è il caso del sorriso e di uno sguardo fisso e accigliato. Ci sono poi dei modi di fare che sono specifici di un'area e gesti che non fanno parte del modo espressivo di aree limitrofe. Così, si notano differenze anche tra chi vive a Napoli e chi vive a Roma. Abbiamo svolto molte ricerche in Italia, analizzando le differenze nel linguaggio del corpo tra Nord e Sud. Fu particolarmente interessante scoprire che l'influenza dei greci non era diminuita nel corso di 2500 anni. C'erano ancora dei gesti di origine greca a Napoli; manifestazioni che invece erano assenti a Roma. Fu chiaro dunque che, da qualche parte, doveva esserci una linea di confine tra Roma e Napoli. Dopotutto in Italia tutti guardano ormai gli stessi programmi televisivi, hanno lo stesso governo, gli stessi film... Eppure napoletani e romani si comportavano in modo differente nel loro linguaggio corporeo. I napoletani sono più "greci" e la colonizzazione greca non era stata aggressiva e pertanto la cultura era stata assorbita con successo. Credo che se venisse istituito un premio internazionale per la gestualità, andrebbe sicuramente conferito a un napoletano. La cosa più sorprendente è che i partenopei sono addirittura orgogliosi dei loro gesti e, dopo secoli di pratica, hanno affinato a tal punto la gestualità delle mani, da trasformarla in una forma di arte decisamente espressiva, in certi momenti addirittura elegante. Viaggiando da Napoli verso Roma, abbiamo posto una serie di domande agli abitanti dei paesi più piccoli e abbiamo appurato che la linea di confine passava per la catena montuosa vicina a Massico, in provincia di Caserta. Abbiamo controllato le nostre annotazioni e abbiamo scoperto che la colonizzazione greca si era appunto fermata lì. Ciò dimostra che il linguaggio del corpo è un fenomeno molto conservatore e di lunga durata. [...] Da ricerche simili, possiamo capire, non solo la distribuzione dei gesti attraverso la storia, ma anche i qui pro quo che spesso nascono quando una cultura entra in contatto con un'altra. Interpretare male il linguaggio del corpo ha sempre causato problemi. Purtroppo, sebbene comunichiamo molte cose attraverso i gesti, siamo troppo spesso concentrati solo sull'aspetto verbale delle nostre conversazioni. È ovvio che la comunicazione verbale è molto importante, ma è solo una parte di ciò che accade. Lo studio della comunicazione visiva è stato sovente ignorato, laddove andrebbe ulteriormente approfondito, come serio argomento scientifico. L'etologia animale è una materia ben disciplinata, ma l'etologia umana è ancora da definire. Per rendere ancora più chiaro quello che abbiamo fin qui detto, prendiamo qualche esempio del linguaggio non verbale, partendo dalla lingua. - Fare la linguaccia. È un gesto che si compie mostrando la lingua, che ha il significato di un insulto. Ha lo stesso significato in tutto il mondo e trae origine dall'infanzia, quando il bambino tira fuori la lingua ogni volta che vuole rifiutare il cibo. Così il gesto si trasforma in un generale rifiuto e il messaggio "non lo voglio" diventa poi "non ti voglio". - Mettere la lingua tra i denti. È un gesto che indica concentrazione ed è riscontrabile in tutto il mondo. - Mostrare la punta della lingua e poi ritrarla subito. È un gesto di imbarazzo che significa: "Non volevo". È localizzato principalmente in Cina e nel Tibet. - Mostrare ripetutamente la lingua. È usato in Europa e nelle Americhe e ha il significato di un invito sessuale. Lo stesso gesto in Arabia Saudita invece vuol dire: "Sei un bugiardo". - Toccarsi la lingua con l'indice piegato. Indica pettegolezzo ed è usato principalmente in Sud America. Lo stesso gesto in Arabia Saudita vuol dire: "Sbrigati". - Strofinare il pollice sulla lingua. Ha il significato di oscenità sessuale ed è impiegato principalmente in Libano. - Dimenare la lingua, cioè mandare la punta della lingua da una parte all'altra della bocca con le labbra leggermente aperte. Si usa in tutto il mondo e rappresenta una proposta sessuale. | << | < | > | >> |Pagina 82Il viaggio: un modo di guardareLa ragione per cui ho visitato novanta Paesi diversi e, prima di morire, spero di visitarne altrettanti ancora, è che volevo scoprire similitudini e differenze tra le varie popolazioni umane e le numerose culture. Desideravo capire perché ci vedevamo gli uni con gli altri in modo diverso. Esistono, ad esempio in Italia, diversi tipi di persone, ma se si chiede a un inglese com'è un italiano, egli avrà in mente un'immagine stereotipata, che è come un fumetto, e ovviamente, tutti gli italiani sanno com'è un inglese tipo. In questo modo si creano i falsi stereotipi sui popoli. Solo viaggiando e incontrando di persona l'immensa varietà di gente che c'è al mondo, l'idea di uno stereotipo nazionale diventa assurda. La creazione degli stereotipi porta spesso verso pericolose semplificazioni, nelle quali un'altra cultura viene vista in modo così diverso dalla nostra, che diventa più semplice indicarla come potenziale nemica. Si sottolineano contrasti inutili e infondati, e tutte le variazioni individuali vengono spazzate via dal bisogno di etichettare. Viaggiare è stato un modo per impedire a me stesso di fare qualcosa del genere. I motivi alla base di tali stereotipi si trovano sempre nelle nostre origini tribali. Abbiamo vissuto per milioni di anni in piccole comunità, sviluppando un'identità tribale. La natura delle tribù si basa sull'idea di un'assoluta condivisione tra sé e il proprio gruppo e di un'altrettanto assoluta separazione dagli altri gruppi. L'elemento tribale, che è in noi, ci induce a vedere questi altri gruppi il più possibile diversi da noi, per assicurarci l'unicità della nostra tribù: è da qui che nasce la pressione, l'odio per l'estraneo. Se queste rivalità tribali si mantengono a un livello soltanto simbolico, non fanno alcun danno. Le rivalità sportive internazionali, ad esempio, ci permettono di esprimere i nostri sentimenti tribali in modo appassionato, ma in maniera tale da non arrivare a una guerra. Sfortunatamente, altri generi di diversità tribale (in particolare quelle religiose) conducono alla violenza. Siamo posti pertanto di fronte a un dilemma: desideriamo goderci le diversità tra le molte culture umane che esistono oggi sul nostro pianeta, ma non vogliamo che queste differenze diventino un confronto capace di arrivare al conflitto aperto. Eppure esisterà sempre il rischio che ciò accada: se s'inventa il coltello per tagliare il pane, non si può evitare che venga poi usato anche per pugnalare qualcuno a morte.
Parte del problema è generato da quegli individui che, volendo diventare
capi della tribù, quasi sempre hanno un'estrema consapevolezza della propria
posizione. Diventano molto sensibili a qualunque perdita di potere personale e
cercano modi per porvi rimedio. Se, ad esempio, un certo capo ha perso parte
della propria posizione, può recuperarla ingaggiando una guerra vittoriosa
contro un nemico esterno e il successo di questa strategia lo renderà nuovamente
l'eroe della tribù. Purtroppo più di una guerra è stata creata solo per
ripristinare la posizione del capo.
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