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| << | < | > | >> |Pagina 1 [ inizio libro ]Sparano prima alla ragazza bianca. Per il resto c'è tempo. Quaggiù non c'è bisogno di affrettarsi. Sono a diciassette miglia da un paese che ne dista novanta dalla località più vicina. Nel Convento i posti per nascondersi sono tanti, ma c'è tempo e il giorno è appena cominciato. Sono in nove, più del doppio rispetto al numero di donne che sono costretti a mettere in fuga o ad ammazzare, e hanno con sé l'occorrente per entrambe le esigenze: una corda, una croce di foglie di palma, le manette, uno spray che rende temporaneamente ciechi, occhiali da sole e armi lucide, belle. Non si sono mai addentrati tanto nel Convento. Qualche volta uno di loro ha parcheggiato la Chevrolet vicino alla veranda per prendere i peperoncini o è andato in cucina a farsi dare quattro litri di salsa da barbecue, ma sono pochi quelli che hanno visto i corridoi, la cappella, l'aula, le camere da letto. Adesso le vedranno tutti. E finalmente vedranno la cantina e il suo sudiciume sarà esposto alla luce del sole che tra poco farà risplendere il cielo dell'Oklahoma. Intanto sono sconcertati per gli indumenti che indossano, perché all'improvviso si sono resi conto di non essere vestiti in modo adeguato. Ma all'alba di un giorno di luglio come facevano a sapere che in quel posto avrebbe fatto così freddo? | << | < | > | >> |Pagina 7Al piano di sopra due uomini percorrono il corridoio e perlustrano le quattro camere da letto, sulla porta di ciascuna un cartoncino con un nome. Il primo nome, scritto con il rossetto, è Seneca. Quello seguente, Divine, è scritto con l'inchiostro a lettere maiuscole. Si scambiano sguardi d'intesa quando appurano che le donne dormono non in un letto, come fa la gente normale, bensì in un'amaca. A parte quella, e con l'eccezione di uno stretto scrittoio o di un tavolino non ci sono altri mobili. Niente vestiti negli armadi, naturalmente, visto che le donne indossavano abiti sudici e sconvenienti e niente che si potesse onestamente chiamare scarpe. Ma inchiodate o incollate alle pareti o addossate in un angolo ci sono cose strane. Un calendario del 1968, grandi X che contrassegnano varie date (4 aprile, 19 luglio); una lettera scritta con sangue così vischioso che il suo messaggio satanico ne risulta indecifrabile; un quadro astrale; un cappello floscio di feltro posato sulla nuca in plastica di un busto femminile, e, in un luogo che un tempo ospitava dei cristiani - be', dei cattolici, comunque - non un solo crocifisso. Ma ciò che allarma di più i due uomini è la serie di scarpine da bebè appese a un cordoncino che penzola da una culla nell'ultima camera in cui entrano. Tra le scarpette dondola un anello, rigido e spezzato, di quelli che i bambini si cacciano in bocca quando mettono i denti.| << | < | > | >> |Pagina 14I fratelli che si stanno avvicinando alla cantina un tempo erano identici. Sebbene siano gemelli, le loro mogli si somigliano più di loro. Uno è amabile, vivace e fuma sigari Te Amo. L'altro è più rude, più cattivo, e quando prega si nasconde la faccia. Entrambi, però, hanno grandi occhi innocenti e ora entrambi mostrano, di fronte a una porta chiusa, la stessa determinazione che avevano nel 1942 quando si arruolarono. Allora stavano cercando una via d'uscita - una via di fuga da una vita in cui tutto era dovuto e non ci si poteva aspettare di ricevere nulla in cambio. Adesso cercano una via d'entrata. Allora, negli anni Quaranta, non avevano nulla da perdere. Adesso ogni cosa esige la loro protezione. Fin dall'inizio, quando il paese era stato fondato, sapevano che l'isolamento non garantiva la sicurezza. C'era bisogno di uomini forti e volenterosi quando qualche forestiero di passaggio, o che si era smarrito, non si limitava ad attraversare il centro abitato, lanciando un'occhiata distratta a un paesino sonnacchioso con tre chiese a nemmeno un miglio l'una dall'altra ma nulla che potesse tornare utile a un viaggiatore: niente ristoranti, niente polizia, niente distributori di benzina, niente telefoni pubblici, niente cinema, niente ospedali. Certe volte, se era giovane e ubriaco o vecchio e sobrio, il forestiero riusciva a individuare tre o quattro ragazze di colore che ciondolavano lungo la strada. Eccole che fanno qualche passo e poi, se la conversazione lo richiede, si fermano, saltano una parte del racconto, interrompendosi per ridere o per dare scherzosamente una pacca sul braccio a una compagna. Gli uomini provano interesse per loro, forse. Tre macchine, diciamo una Bel Air del '53, verde e con l'interno color crema, numero di immatricolazione 085B, sei cilindri, doppia profilatura sul parafango posteriore, trasmissione automatica a due rapporti Powerglide; e, diciamo, una Dodge Wayfarer del '49, nera, finestrino posteriore rotto, parafanghi rinforzati, guida scorrevole, griglia del radiatore a scacchiera; e una Oldsmobile del '53, tutte con targhe dell'Arkansas. I conducenti rallentano, mettono la testa fuori dal finestrino e lanciano un urlo. Gli occhi ridotti a due fessure dalla malizia, girano intorno alle ragazze, facendo curve a U e a K, sollevando nugoli di polvere davanti alle case, mettendo in fuga i gatti davanti al negozio di alimentari di Ace. Girano in tondo. Le ragazze li fissano e intanto indietreggiano urtandosi l'un l'altra. Poi, uno dopo l'altro, gli uomini escono dalle case, dai cortili, dal ponteggio della banca, dal negozio di mangimi. Uno dei passeggeri ha aperto la patta dei calzoni e si è sporto tutto dal finestrino per spaventare le ragazze. I cuoricini delle ragazze battono all'impazzata, e siccome non riescono a chiudere gli occhi abbastanza in fretta, girano di scatto la testa. Ma gli uomini del paese guardano eccome, vedono il desiderio in questo gesto, il più bellicoso, e sorridono. Sorridono riluttanti e loro malgrado perché sanno che, da quel momento, se non già prima, quell'uomo, fino alla fine dei suoi giorni, farà più male che potrà alla gente di colore.Escono altri uomini, altri ancora. Le armi che impugnano non sono puntate contro niente, penzolano pigramente lungo il fianco. Venti uomini, poi venticinque. Girano intorno alle macchine che girano in tondo. Novanta miglia dal primo telefono pubblico e novanta dal primo commissariato di polizia. Se la giornata fosse stata asciutta, la polvere sollevata dai pneumatici li avrebbe imbiancati tutti. E invece andò così: nel solco che si lasciarono dietro si sollevò solo qualche granello di ghiaia. | << | < | > | >> |Pagina 19I gemelli erano nati nel 1924 e per vent'anní avevano sentito parlare di come erano stati i quarant'anni precedenti. Ascoltavano, immaginavano e ricordavano ogni cosa perché ciascun dettaglio era un sussulto di piacere, erotico come un sogno, inebriante e più significativo persino della guerra nella quale avevano combattuto.Nel 1949, giovani e sposati da poco, erano tutto tranne che degli sciocchi. Già prima della guerra i residenti di Haven avevano cominciato ad andarsene e coloro che non avevano fatto i bagagli iniziavano a pensarci. I gemelli videro il proprio futuro postbellico farsi sempre più grigio e non fu difficile persuadere altri giovani a ripetere ciò che i Vecchi Padri avevano fatto nel 1890. Ben dieci generazioni avevano saputo che cosa c'era tutt'intorno: lo spazio, un tempo affascinante e sconfinato, era sfuggito a ogni controllo ed era in ebollizione, era divenuto un vuoto in cui il caso e il male organizzato erompevano quando e dove volevano - dietro un albero, dietro la porta di una casa, umile o maestosa che fosse. Tutt'intorno, dove i propri figli erano un trastullo, le mogli nient'altro che prede, e dove la persona umana veniva annientata; dove le congregazioni portavano le armi in chiesa e le corde arrotolate dietro la sella. Tutt'intorno, dove ogni assembramento di bianchi sembrava una milizia, dove essere soli equivaleva a essere morti. Ma nel corso delle ultime tre generazioni tutti avevano imparato, o imparato daccapo, la lezione su come si protegge il proprio paese. Così, come gli ex schiavi consapevoli delle loro priorità, gli ex soldati smontarono il Forno e lo caricarono pezzo per pezzo su due camion ancor prima di smontare il letto in cui dormivano. Alla metà di agosto, prima che baluginassero le luci dell'alba, quindici famiglie lasciarono Haven dirette non a Muskogee o in Caliornia, come avevano fatto alcuni, né a Saint Louis, Houston, Langston o Chicago, bensì si addentrarono ancora di più nell'Oklahoma, per allontanarsi il più possibile dallo stato di prostrazione in cui versava il paese costruito dagli antenati. «Quanto dura?» domandavano i bambini dal sedile posteriore delle macchine. «Quanto dura il viaggio?» «Poco», rispondevano i genitori. La risposta era sempre la stessa. «Poco. Tra poco ci siamo.» Quando videro il Beaver Creek insinuarsi nella canna di uno Stato a forma di rivoltella, e serpeggiare per tutti quegli acri di erba (che costavano meno di niente dopo i tornado del 1949), il cui acquisto era stato reso possibile dal fondo comune creato grazie ai sussidi di congedo, quel «poco» e quel «tra poco» divennero l'ora esatta a cui arrivare. Alle spalle si erano lasciati un paese le cui vie, un tempo fiere, erano infestate di erbacce, in balia ormai di diciotto vecchi ostinati che si chiedevano come fare per arrivare all'ufficio postale in cui, magari, ci sarebbe stata una lettera di nipoti partiti ormai da tanto tempo. Nel punto in cui si ergeva il Forno, piccole serpi verdi dormivano al sole. Chi avrebbe potuto immaginare che venticinque anni dopo, in un paese nuovo di zecca, un Convento avrebbe avuto un potere distruttivo superiore a quello delle serpi, della Depressione, dell'ispettore delle tasse e della ferrovia? Ora uno dei due fratelli, un vero leader in tutto ciò che fa, sfonda la porta della cantina con il calcio del fucile. L'altro attende con il nipote a qualche passo di distanza. Tutti e tre scendono gli scalini eccitati all'idea di conoscere la verità. Non rimangono delusi. Quello che vedono è la camera da letto del diavolo, il suo bagno e la sua sudicia stanza dei giochi. | << | < | > | >> |Pagina 113Steward ricordava ogni dettaglio della storia che gli avevano raccontato il padre e il nonno, e non faceva fatica a immaginare quella vergogna. Dovey, per esempio, prima di ogni aborto spontaneo, con la mano nell'incavo della schiena, gli occhi come due fessure, intenta a guardarsi dentro, sempre dentro, gli occhi fissi sul bambino che aveva dentro. Come si sarebbe sentito se un tizio tronfio, con tanto di colletto e scarpe eleganti, le avesse detto: «Vattene via», e lui, Steward, non avesse potuto fare niente? Anche adesso, nel 1973, mentre cavalcava sulla sua terra in sella a Night con la criniera al vento, il pensiero di tanta impotenza gli faceva venir voglia di prendere qualcuno a schioppettate. Settantanove. Tutto quello che possedevano legato ben stretto sulla schiena o impilato sulla testa. Con i piccoli che usavano le scarpe a turno. Costretti a fermarsi solo per tirare il fiato, dormire e mangiare bagassa, il residuo della canna da zucchero. Bagassa e carne lessa, bagassa e focacce di granturco, bagassa e selvaggina, bagassa e denti di leone. Sognando un tetto sopra la testa, un po' di pesce, di riso, di melassa. Laceri e cenciosi, sognavano dei vestiti puliti con i bottoni, delle camicie con tutte e due le maniche. Camminavano in fila indiana: Drum e Thomas Blackhorse in testa, Big Papa, ormai invalido, in fondo, seduto su un asse e trasportato a braccia. Dopo Fairly non avevano saputo che strada prendere, e non desideravano nemmeno incontrare qualcuno che avrebbe potuto dirglielo per il timore che avesse altro in mente. Si tenevano alla larga dalle piste dei carri, cercando di costeggiare pinete e corsi d'acqua, diretti a nord-ovest per nessun'altra ragione particolare che non fosse allontanarsi il più possibile da Fairly.La terza notte Big Papa svegliò suo figlio, Rector, e gli fece cenno di alzarsi. Appoggiandosi pesantemente su due bastoni, si allontanò dall'accampamento e sussurrò: «Seguimi, tu». Rector tornò indietro a prendere il cappello e seguì i passi lenti, affaticati del padre. Pensò, subito affannato, che il vecchio volesse cercare di raggiungere un luogo abitato nel cuore della notte, o bussare a uno dei poderi, le cui scure case di zolle erano addossate al pendio di una colinetta. Ma Big Papa si inoltrò con lui nella pineta, dove l'odore della resina, gradevole in un primo momento, ben presto gli fece venire il mal di testa. Il cielo brillava di stelle che facevano sembrare più piccola la mezzaluna, trasformandola in una piuma appesa a un filo. Big Papa si fermò e, gemendo per lo sforzo, si inginocchiò. «Padre mio», disse. «Sono Zechariah.» Poi, dopo qualche secondo di silenzio assoluto, intonò i suoni più dolci, più tristi che Rector avesse mai udito. Anche Rector si mise in ginocchio accanto a Big Papa e rimase così per tutta la notte. Non osava sfiorare il vecchio né interferire con la sua preghiera, ma non poté fare a meno di sistemarsi su un fianco per alleviare il dolore alle ginocchia. Dopo un po' si sedette per bene, con il cappello in mano, a testa china, cercando di ascoltare, restare sveglio, capire. Alla fine si sdraiò supino e guardò la volta stellata sopra gli alberi. Quella musica struggente lo inghiottì e lui si sentì fluttuare, sollevare da terra. Più tardi giurò di non essersi addormentato. Di aver ascoltato e osservato per tutta la notte. Circondato dai pini, aveva la sensazione che il cielo stingesse all'orizzonte. Fu allora che udì i passi, pesanti come quelli di un gigante. Big Papa, che non aveva mosso un muscolo né aveva mai interrotto il suo canto, di colpo tacque. Rector balzò a sedere e si guardò attorno. I passi rimbombavano, ma non avrebbe saputo dire da che parte giungessero. Via via che la luce del cielo si diffondeva, riuscì a distinguere le sagome dei tronchi. Lo videro nello stesso istante. Un ometto piccolo, a quanto pareva, troppo piccolo per il rumore dei suoi passi. Si stava allontanando da dove erano loro. Vestito con un abito scuro, la giacca sulla spalla trattenuta dall'indice della mano destra. Il bianco della camicia brillava fra le bretelle larghe. Senza l'aiuto del bastone e senza un solo gemito, Big Papa si alzò. Insieme guardarono l'uomo allontanarsi dal lembo più chiaro del cielo. Una volta indugiò e si voltò a guardarli, ma non riuscirono a vedere i lineamenti del volto. Quando riprese il cammino, si accorsero che nella mano sinistra aveva una sacca. «Corri», disse Big Papa. «Riunisci tutti.» «Non puoi restare qua da solo», disse Rector. «Corri!» E Rector ubbidì. Quando tutti furono in piedi, Rector li condusse dove lui e Big Papa avevano trascorso la notte. Lo trovarono lì, più dritto dei pini, i bastoni per terra, la schiena rivolta al sole nascente. Nessuna traccia del viandante, ma la pace che si irradiava dal volto di Zechariah si diffuse ai loro spiriti, calmandoli. «E' con noi», disse Zechariah. «Ci indicherà il cammino.» | << | < | > | >> |Pagina 117«Ecco», disse. «Questa è casa nostra.»Be', non lo era, naturalmente. Non ancora. Il posto apparteneva a una famiglia di indiani che vivevano fuori del Territorio, e ci vollero un anno e quattro mesi di negoziati e di duro lavoro per disboscarlo e averlo tutto per sé. Dato che da un luogo di lussureggiante vegetazione erano giunti in uno spazio sconfinato, avrebbero potuto sentirsi piccoli piccoli nel vedere più cielo che terra, con l'erba che arrivava ai fianchi. Per i Vecchi Padri invece fu un segno di ricchezza: una dilatazione fisica nonché dell'anima, che significava libertà illimitata ma anche assenza di boschi minacciosi dove potevano annidarsi i nemici. Qui la libertà non era divertimento, come un luna park o una festa danzante sulla quale poter contare una volta all'anno. Né gli avanzi della tavola degli eletti. Qui la libertà era un esame del mondo naturale al quale un uomo doveva sottoporsi ogni giorno. E se superava un numero sufficiente di esami per un lasso di tempo sufficiente, quell'uomo era un re. Forse Zechariah non voleva più mangiare altri conigli allo spiedo o altra carne fredda di bisonte. Dato che i bianchi lo avevano rimosso dall'incarico che ricopriva, forse Zechariah, vistasi rifiutare una fattoria da uomini di colore, voleva sancire per sempre la propria presenza in quegli spazi aperti tanto diversi dalla Louisiana. Comunque, mentre erigevano un quartier generale temporaneo fatto di baracche e rifugí, e trasportavano il legname con un carro trainato da due cavalli e prestato loro dagli indiani che vivevano fuori del Territorio, Zecharíah radunò alcuni uomini e disse loro di costruire un forno. Erano fieri che nessuna delle loro mogli avesse mai lavorato nella cucina di un bianco o allattato un bambino bianco. Sebbene il lavoro dei campi fosse più duro e non conferisse alcun prestigio sociale, erano convinti che lo stupro delle donne che lavoravano nelle cucine dei bianchi fosse, se non una certezza, almeno una possibilità non tanto remota, e trovavano intollerabile contemplare entrambe. Così barattarono quel pericolo con la relativa sicurezza di un lavoro brutale. Fu questo pensiero a rendere tanto piacevole l'idea di una «cucina» per tutta la comunità. Erano straordinari. Avevano servito, raccolto, arato e commerciato in Louisiana fin dal 1755, quando essa includeva il Mississipi; e quando era stata divisa in Stati, avevano dato una mano a governare entrambi dal 1868 al 1875, dopodiché erano stati confinati al lavoro nei campi. Avevano mantenuto fecondo il frutto dei propri lombi per più di duecento anni. Non si erano negati nulla, piegati a nessuno, ínginocchiati solo davanti al proprio Creatore. Ora, ricordandone la vita e le opere, Steward si rafforzò nella propria convinzione, la sua decisione si cementò. Proviamo a immaginare, pensò, che cosa direbbero Big Papa o Drum Blackhorse o Juvenal Du-Pres di quei cucciolotti che vorrebbero modificare delle parole in ferro battuto.
Il sole non si sarebbe levato ancora per un po' e
Steward non se la sentiva di cavalcare tanto a lungo. Così
spronò Night sulla via del ritorno e si diresse verso casa,
cercando di escogitare qualcos'altro da dire, o da fare, per
impedire a Dovey di passare la notte in paese. Dormire
senza avere accanto il profumo dei suoi capelli era
impossibile.
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