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| << | < | > | >> |IndiceDove ti si intrattiene intorno alle alterne fortune del "qui" e dell'"altrove" 9 Dove si introduce alla geosofia del "luogo" 16 Dove si specificano meglio i caratteri misteriosi e sorprendenti dello spazio e il ruolo del rito da riscoprire 22 Dove si parla della bellezza un poco dimenticata di quell'età straordinaria che è l'adolescenza e del modo di resuscitare in essa un poco di appetito d'apprendere 26 Dove si proclama con passione qual è la grande, unica, irriconosciuta e meravigliosa fonte del sapere e del modo per farla godere fino in fondo 29 Dove si insinua l'idea ingiuriosa e assai sovversiva di dimenticarsi dei "programmi" e di altre quisquilie consimili... 33 Dove, a calce viva, si vuoi aggiungere qualcosa su quella curiosa e deprecabile pratica chiamata "valutazione" 43 Dove ci si occupa di un altro temibile e maldenominato oggetto: l'apprendimento. Qui si praticherà un po' di omelia sugli apprendimenti "sbagliati", su quelli "per sottomissione", quelli "per identificazione" e quelli, senti senti, "per passione" 46 Dove più o meno si forniscono spunti, idee, persino strumenti per... insegnare: tra l'altro la legge del "si può sbagliare" e il "crampo della prova" 54 Dell'indurre, del sedurre, dell'illudere: il primo giorno 58 Dove si introduce del sano erotismo nella prassi scolastica e si parla del lungo atto d'amore 65 Dove, incredibile a udirsi, si inneggia all'insegnamento, e al cordoglio che segue la sua giusta fine 73 Dove si pronuncia un sentito Peana ad Eros, dio dei legami 78 Dove si parla, con tremore ma anche con amore, delle arti neglette dall'istruzione tradizionale: con particolar enfasi intorno a danza, musica, teatro e sesso 81 Dove si contrappone la scuola del desiderio a quella desiderata ardentemente dalle organizzazioni della grande industria per rifocillare la sua fame sempreverde di "capitale umano" 84 Dove si enuncia, non senza enfasi, il compito urgente di un insegnamento amoroso, di un "nuovo ordine amoroso" dell'insegnamento, come avrebbe detto Fourier 87 Letture sapide per pedanti 91 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Dove ti si intrattiene intorno alle alterne fortune del "qui" e dell'"altrove"Caro Insegnante, probabilmente conosci questa storiella Zen che dice così: Studente Zen: "Ebbene, Maestro, l'anima è immortale oppure no? Noi sopravviviamo alla morte del nostro corpo, oppure veniamo annientati? Ci reincarniamo veramente? La nostra anima si dissolve e si divide in elementi che vengono riciclati, oppure entriamo, in quanto singole unità, nel corpo di un unico organismo biologico? Inoltre, conserviamo i nostri ricordi, oppure no? È forse falsa la dottrina della reincarnazione? È forse più giusta la nozione cristiana della resurrezione? E se è così, si risorge come corpi, oppure la nostra anima entra in una sfera spirituale meramente platonica?". Maestro: "Guarda che ti si raffredda la colazione". Carina, vero? Ora, il significato più evidente è appunto palese: attenzione a non sacrificare il "presente" ai voli astratti della mente, all'altrove, direbbe Milan Kundera, che era un nemico giurato di tutti gli intellettuali narcisisti perennemente insoddisfatti (come lui) e, appunto, a caccia di un altrove sempre irraggiungibile. È un raccontino simpatico e acuto, come lo sono sempre i distillati di questi saggi maghi orientali. Ora vorrei provare però un poco ad applicarlo con te alla vita scolastica, alla tua vita scolastica in particolare. Non è complicato e non occorre essere dei maestri Zen per comprendere che spesso il "presente" scolastico è assai sacrificato alle astrazioni talora inservibili e anche esteticamente poco gratificanti dell' "altrove" (che tuttavia, bisogna riconoscerlo, a volte anche lui ha i suoi buoni diritti). Ma concentriamoci sul presente. Il presente, che è una nozione dall'alta indecidibilità, almeno in filosofia, è pur sempre qualcosa di abbastanza intuitivamente afferrabile: è il tempo in cui. Il tempo che trascorri ora. Uno psicologo gestaltista (Fritz Perls per esempio) lo definirebbe: ciò che "ci trattiene nel presente e sottolinea il fatto che nessuna esperienza è possibile se non nel presente...". Piuttosto ripetitivo, ma chiaro, non trovi? E come è il tuo tempo "presente" dentro la tua classe, nelle "ore" scolastiche, unità di misura del presente dell'insegnamento? Non lo sai? Io credo che spesso sia così: deludente, noioso, sfiancante (naturalmente non sempre, diciamo prevalentemente). E dove si svolge, cioè quale è il suo luogo del presente, il suo spazio, la sua dimora? Le "aule": luoghi spesso freddi, anodini, deprimenti. È un tempo di cui si attende troppo spesso soprattutto la fine. Questo, non so se sei d'accordo, non è proprio il massimo. Alla lunga, questo trattamento muterà il moltissimo tempo trascorso dentro le "ore" di insegnamento in una routine sofferta e vuota. Un passato di cui persino la memoria si disferà con gusto, magari fatta eccezione per qualche rara isola di soddisfazione, di intensità (che andrebbe allora studiata con attenzione). Tu potrai dirmi che non c'è nulla di straordinario o di particolarmente sfortunato in questo, che la vita stessa è così e che dunque si tratta solo di adattarsi e di convivere con questo carattere strutturale dell'esistenza. Lo ammetto, è una tesi che ha i suoi sostenitori, anche di un certo peso, per quanto sia una tesi cui continuo a riluttare, se non altro per amor proprio. Oppure tu potrai dirmi che è falso, che non sempre è così, forse tu vivi un presente di continuo, sulfureo e appassionante coinvolgimento: in questo caso questo libro non ti serve, chiudilo o se vuoi regalalo a un collega meno fortunato. Per l'esperienza che ho io, che insegno, per quanto in luoghi anche più autunnali e grigi del tuo, e dove pascolano esemplari della nostra specie ancora più mummificati e deprimenti (gli Accademici), la regola è quella di un "presente" tutt'altro che intenso, vissuto con debole entusiasmo, pigramente illuminato (ahi, le lampade al neon) e abitato da un palpabile senso di noia (non tanto negli Accademici stessi, che si drogano del loro stesso ego smisurato, ma negli studenti, che sono gli unici a poter fornire prova autentica del clima che si respira dentro le mura del luogo). Ora, perché tu possa diventare un Insegnante felice e appassionato, meta verso cui si propone di instradarti questo trattatello bizzarro – posto che tu non lo sia già, cosa che ti auguro di cuore, e che ti dispensa ipso facto dalla lettura – devi renderti consapevole di un fatto di importanza capitale: questo tempo è sterminato. È tantissimo. Non è il tempo di un breve corso di cucina o di karate, sono ore e ore e ore. Infinite ore di "vita", vita vera, senza riscatto, tempo vitale, simile a quello degli operai che lo passano (ancor oggi) per anni e anni a una catena di montaggio, o quello dei minatori in una oscura galleria, o quello di un impiegato inchiodato alla sua tastiera. Tutta gente che avrebbe il diritto di dire che il proprio tempo di vita potrebbe essere trascorso in maniera più ricca, più stimolante e più soddisfacente. Proprio quello che potresti dire anche tu, e che in gran coro certamente potrebbero dire, e soprattutto, i tuoi allievi: anche loro infatti stanno trascorrendo infinite ore inchiodati a scomodi tavoli e a scomode sedie, in genere in aule il cui aspetto evoca o il monumentalismo tetro e angosciante o il funzionalismo anoressico e psicotizzante, comunque l'anatema di ogni traccia di sensualità e bellezza nelle forme, nelle tinte e negli arredi, davanti ad adulti spesso male in arnese che non sempre hanno chiaro quello che stanno facendo e soprattutto perché lo stanno facendo. E quegli allievi, ragazzi, giovani, oltre tutto stanno nella maggior parte dei casi trascorrendo lì il presente della stagione più straordinaria della loro vita, gli anni più intensi, più complessi, più esplosivi, per ormoni, energia, curiosità, sensualità, sensibilità, corporeità e molte altre cose. Non è una cosa da poco che tanta, quasi la metà del loro tempo di vita scorra in un "presente" che solo arduamente si potrebbe considerare affascinante. (A proposito, so che leggendo queste frasi, alcuni di voi avvertiranno una dolorosa fitta alla spina dorsale, quella che qualcuno ha costretto loro a mantenere diritta per periodi lunghi e con pertinace inflessibilità: so che così siete diventati ottusi e moralisti; anche in questo caso debbo osservare fin d'ora che questo libro non fa per voi: per voi cure così violente sono pericolose, meglio dosi omeopatiche e lubrificate di regole per la buona comunicazione o per imparare a valutare test a risposta multipla. Questo libro non scherza e voi finireste con il sentirvi impallinati. Lasciate perdere ora prima che sia troppo tardi e che tra di noi si sia fatto anche troppo cattivo sangue). Comunque, stavo dicendo che ci sono orde di ragazzi ancora vivi, pieni di ormoni, gravidi di voglie, affamati d'esperienza, che irrompono, per destino da tempo stabilito nella storia, in un luogo che tragicamente li trasformerà, nella migliore delle ipotesi, in scialbi castratelli d'allevamento e, nella peggiore e più diffusa, in agenti indefessi del disprezzo sistematico della cultura, dei suoi funzionari e dei suoi devoti. Gente che sarà stata così profondamente eviscerata di qualsiasi curiosità, di qualsiasi desiderio di scoprire la materia invisibile e profonda del mondo e delle opere umane in esso, da fuggire fors'anche la lettura dei Reader's digest e di riviste come Oggi o Gente. Mi pare un bello spreco di tempo e di "presente", per tornare al nostro racconto Zen. Molti miei colleghi sono esattamente come l'allievo del dialogo: fanno discorsi che assomigliano moltissimo alle domande del giovane sprovveduto e nel frattempo quasi tutto si raffredda nella loro vita. Soprattutto nella loro vita lì, mentre fanno quei discorsi, intorno a loro. Chiaramente è gente parecchio disturbata (anche io con loro, beninteso, anche se forse oggi finalmente comincio a vedere uno spiraglio di aurora): nessuno può diventare professore universitario senza essere profondamente disturbato, anzitutto nel suo rapporto con il tempo (quante serate in discoteca, o gite in bicicletta, o pomeriggi oziosi, o pomiciate interminabili avrà perduto un giovane studioso sostituendole con la lettura di spaventevoli tomi o con la meditazione di teoremi inimmaginabili, mentre i suoi ormoni avvizzivano inesorabilmente? – in questo, occorre dirlo, anche la bruttezza gioca un suo ruolo non irrilevante...). È quindi gente, per altro, che prova un piacere decisamente perverso nell'infliggere anche agli altri dosi massicce di strologar furioso sotto la forma ben acclamata della "lezione magistrale", a persone che avrebbero per converso voglia di mordere a fondo e con gusto dentro la carne del sapere e della vita (che esiste, lo giuro, anche se molti l'hanno sostituita con un tessuto smaterializzato di astruse e smozzicate ventosità). Essi, fin da piccoli, spesso, hanno smarrito la via del piacere, sono finiti nel gorgo di un altro mondo, parallelo, gremito di paranoici pericolosi e dedito alla coltivazione ossessiva di forme di vita estinte e trascurabili mentre, parallela a loro, la cultura grassa e carnosa procedeva beffarda e indifferente. Non nego che qualche loro sforzo nel tastare ciechi il grande corpo del sapere possa avere indicato vie scoscese di scoperta per altri della stessa specie (parlano solo fra di loro, e sono scorbutici, e quanto!), ma reputo con convinzione che il loro prestarsi al divino compito d'insegnamento sia davvero nella maggioranza dei casi un delitto (per i loro poveri allievi, ma anche per loro, che dovrebbero essere mantenuti nell'atmosfera rarefatta e eterea che gli conviene). Appartieni anche a tu a questa stirpe di occhialuti pedanti (come li appellava Federico Nietzsche), sei anche tu un cadente e tarlato tronco di verbosità inutili, anche tu coltivi il feticismo del rigore, delle valutazioni oggettive, della storicizzazione obbligatoria, sei anche tu un fanatico ossessivo dell'ortopedia delle pronunce? Se appartieni a questa genìa, anche tu, te lo devo dire con franchezza, sei troppo conciato per questo libro. Prima rivolgiti a qualche psicoterapeuta neurolinguista o a qualche affiliato di Scientology Ti tirerà su. Poi prova a leggermi. Caro Insegnante "vero", mi rivolgo a te che spero non ancora completamente mortificato, avvizzito, ossificato dal nulla che regna nelle nostre istituzioni formative, tutte figlie di quella grande peste del sapere che è stata la rivoluzione disciplinare, l'irruzione delle scienze analitiche e dei loro criteri astratti e polverizzatori nell'alveo della materia fermentante e cantante della grande ode cosmica del sapere, di quella effervescenza della forma e della sostanza tutta intera delle cose, cose vive, tessute dentro il grande corpo del mondo. Se hai ancora un po' di sangue, di spirito, di anima, se non sei stato spolpato fin nel midollo dall'acido muriatico delle antologie e delle "storie", dei dizionari e delle enciclopedie, tutta roba che corrode la bellezza del conoscere, se non ti sei ancora familiarizzato completamente con il neon, con il legno cattivo e scomodo dei banchi e delle cattedre, con il color cacca secca delle aule scolastiche, con il malcostume di malvestirsi e maleodorare del "corpo" docente. Se ci tieni almeno un poco al tuo presente e a quello dei tuoi innocenti allievi ancora vivi, allora questo libro può forse fare per te. Lo so, lo so che il tono che uso può irritare molti di voi, i più rarefatti, i più illividiti, i sorveglianti del linguaggio rigoroso, con le note, con le citazioni, con la metrica dell'intelligenza garantita, voi, i più snob, gonfi della vostra superiorità, filosofi, letterati, matematici con la sigla Prof. nella rubrica del telefono. Conosco la sindrome, ne ho sofferto anch'io, ma a quale prezzo... Non vi fate scrupoli, snocciolate le vostre recensioni accigliate, rancorose, beffarde. Ben conosco la vostra prosopopea, la titillazione compiaciuta della parte più malsana dello spirito elitario, di un'idea "alta" della cultura, tutta chiose, tutta virgolette, tutta bibliografie ragionate. Uno sport che aduna tutto il rancoroso popolo di frustrati, di emarginati dalla vita, di spostati che sono gli Accademici gibbuti. Fate pure, è nel vostro diritto, così come lo sprezzo che cestina direttamente il paragrafo non giustificato, la glossa manchevole, l'esergo non allineato, l'altezzosità aristocratica e calvinista che fa della castità feticista il suo esercizio quotidiano. Che le mie parole siano uno sputo nel vostro occhio opaco e cisposo. Ma, Caro Insegnante, lasciamo i nostri vili detrattori. Tu che esisti, che hai ancora un briciolo di speranza, tu puoi ancora assaporare quest'esperienza antichissima e sorprendente, intensa e inconfondibile, unica, che è l'insegnamento, il grande insegnamento, le cui tracce e rovine giacciono e riaffiorano talora qua e là nel fango crepato della storia, o forse del mito. A te che ancora sei in condizione di amare a fondo questo lavoro, non nella forma indebolita e scarnificata che l'edificio scolastico ti regala ogni giorno, ma nella sua fremente e appassionata intera misura, spesso stornata dai luoghi deputati a promuoverla, a te dedico queste lettere, questa confidenza, questa speranza. A proposito, mi scuso fin d'ora per l'uso del caro al maschile, ma vorrei che fosse inteso come un neutro, o come un attributo ambisesso. Infatti il termine Insegnante con la I maiuscola vuole indicare una sorta di archetipo dell'insegnante, che io immagino personificato, ma che può essere inteso assolutamente sia come maschio che come femmina o come le varie possibili combinazioni secondo il Rapporto Kinsey. D'altra parte, se è pur vero che la femminilità o la maschilità dell'insegnante introducono un elemento di (s)oggettiva differenza, sia fenomenologica che comportamentale, le cose che dirò credo che possano in larga misura valere sia per l'una che per l'altro. Infine, sarebbe certamente interessante importare in maniera completa l'elemento soggettivo in questa trattazione, ma significherebbe dover fare i conti, oltre che con il genere, anche con un'infinità di altri descrittori alternativi, tipo il profilo psicologico, i gusti e le predilezioni, le scelte politiche, il contesto di provenienza, il dio da cui si è posseduti, se Apollo o Dioniso, se Eros o Atena, se Ermes o Artemide e così via. Sarebbe un'impresa davvero titanica, che, con un adeguato finanziamento, si potrebbe anche tentare di porre in essere, attendo notizie. | << | < | > | >> |Pagina 46Dove ci si occupa di un altro temibile e maldenominato oggetto: l'apprendimento. Qui si praticherà un po' di omelia sugli apprendimenti "sbagliati", su quelli "per sottomissione", quelli "per identificazione" e quelli, senti senti, "per passione"Lo so, sono d'accordo, apprendimento è una parola che andrebbe asportata chirurgicamente dal dizionario da tanto è vergognosa, ma non riesco a trovare di meglio, se non con l'ausilio della metafora. Sarebbe meglio fioritura, o distillazione, o trasmutazione, sono d'accordo, ma perfino tu credo finiresti per non seguirmi più, a star dietro a queste meravigliose immagini. Invece io ti voglio sì portare a pensar questa brutta parola proprio come guarigione, aurora, rinascita, ma prima bisogna farci i conti, sì, con tutta la sua letteralissima beotaggine. Si apprende in modi molto diversi, questo lo sai anche tu, in una scala dalle molteplici e sfumatissime variazioni. In questo c'è una vastissima letteratura, che comunque puoi benissimo evitare di pupparti. Te lo spiego io, in modo sintetico e pressocché definitivo (abbi pazienza con la mia μbris, arroganza, dal greco). Da una parte ci sono gli apprendimenti che definiremo per comodità "sbagliati", di solito debitori di personalità, ahimè, disturbate, e gravemente. Di questi non parleremo, ma se ti interessa c'è parecchia letteratura in commercio che può aiutarti a snebbiare anche questo settore sul quale, te lo dico con franchezza, il tuo potere di sovvertire il pronostico è a dir poco scarso. Per questi dolci diseredati occorre qualcosa di più, come dire, appropriato e particolare. Ci sono ragazzi che rovesciano tutto quello che apprendono nel suo contrario o altri che lo frullano in tanti mirabili pezzetti e poi lo vomitano senz'alcun nesso, altri ancora rovistano nella spazzatura del sapere, ma non ne traggono le piccole gemme perdute, combinano solo degli aggeggi informi e inutilizzabili. Ma, come ripeto, il duro lavoro con i più disgraziati – a meno che tu non abbia la vocazione per le sciagure umane, e non mi sembri il tipo (se lo sei esistono favolose strutture specializzate dove potrai sfogarti alla grande) – non fa per te. Lo so, purtroppo a volte casi così sfortunati penetrano anche nella tua aula e tu ci stai male o te ne fai un alibi per lamentarti come il tuo solito. Per lui c'è il sostegno e se non c'è allora qualcosa non può funzionare a dovere nella tua "casa". Poi esistono altre questioni, per esempio quella degli stranieri, e temo che da loro sarai tu a dover imparare, per guidarli, molto più di quanto tu non veda ora. D'altro canto non credere, anche dentro la "gaussiana" dei normali, cioè fra quelli che ti sembrano nella norma appunto, di colore bianco e italianissimi, un apprendimento a dir poco decente non è davvero la regola, proprio no. Anzi. E spesso, come si sa, cinesi e sudamericani sono molto ma molto più motivati. Tu sei il primo a scambiare lucciole per lanterne e magari con un pizzico di truffaldina consapevolezza. Eppure. Eppure. Caro Insegnante, io provo a dirtelo, poi, nella sconfinata libertà di farsi e fare del male, tu puoi sempre scegliere di continuare a protrarre il nulla, poco male, nessuno se ne accorgerà più di quanto non accada ora. Sarà il tuo cuore, secondo me, il tuo cervello, e anche la tua libido, a risentirne. Pazienza. Comunque. Intanto prova a venirmi dietro. Ti dirò due o tre cose anche abbastanza ovvie, ma che ti devi scolpire tra le meningi e il perineo, come un lapidario diagnostico di base, ok? Per comodità divideremo il campo in tre grandi categorie di apprendimenti "giusti". Quelli "giusti" ma finti: "per identificazione" e "per sottomissione"; e quello "giusto giusto": "per passione" (la parola è troppo grossa per te? Pazienza). [...] L'apprendimento vero viene subito bene a quelle persone cui la natura ha fornito il perfetto equipaggiamento per fare esperienze e distillarne scienza. Esistono, te lo assicuro, a volte li si chiama "imparati", non per niente. Una misteriosa alchimia di cure parentali, corredo genetico, ambiente privilegiato, fortuna, clima favorevole e chissà cosa altro fa sì che alcuni, rari, imparino sempre e comunque, e nel migliore dei modi. Tu li lasci per errore nella tana dell'orso bianco allo zoo e loro, anziché venir divorati, se ne vengono fuori avendo appreso un'infinità di cose sul comportamento di questi animali, talora hanno imparato a dialogare con loro, come San Francesco. Gli si ferma la macchina nel deserto e anziché perdersi d'animo, come fossero Ken Follett o Wilbur Smith, contattano il loro agente editoriale per avvisarlo che ci sarà un libro d'avventura in serbo per lui nel giro di poche settimane. Li metti in una classe scolastica e riescono a imparare anche quello che tu non ti sei mai sognato neppure di inserire in programma, anzi che tu non sai nemmeno. Loro, invece, l'hanno scoperto, prima di te. Ma non ti sbeffeggiano, anzi, te lo regalano, con modestia (falsa?). Sono per così dire perfetti. Beh, questi non dovrebbero neppure venirci a scuola, non ti fare bello dei loro successi. Loro prescindono da te, dalle macerie (sì, macerie, non materie) scolastiche, dall'ottusità della programmazione ministeriale. Loro imparano, con autentica passione, e tu sei solo un opaco incontro nella loro mirabile carriera di persone semplicemente fortunate e felici di esistere. Ma a qualcosa di simile, se cerchi ispirazione, dovresti provare a pensare anche per quelli un po' più sgarruppati. Non potrai mai renderli così perfetti (e antipatici), ma far sì che imparino con passione, che studino, leggano, si esercitino, provino, con desiderio, con dedizione, con curiosità, con amore persino, in tutto presenti, al completo per così dire, con i loro pensieri, la loro storia, i loro sentimenti, le loro debolezze finalmente esposte senza timore, con il loro orgoglio, la loro luminosità, il loro ardore, la loro ingenuità, la loro bellezza, qualcosa del genere, dovrebbe essere la tua unica e massima ambizione "professionale" (e personale). Non ce n'è (è un gergalismo), imparare con passione vuol dire semplicemente trasformare l'esperienza in elisir. Ogni esperienza, che deve, come vedremo, essere preparata in modo che sia autenticamente desiderabile, deve divenire fonte di motivato sforzo, di coinvolgimento, di interrogativi e di ricerca, di approfondimento e di interessamento sincero. Questo non è qualcosa che possa capitare solo ai fortunati, è qualcosa che almeno qualche volta capita a tutti, quando la "cucina" è buona, almeno se non si è stati troppo violati e sabotati in precedenza. E allora si tratta di lavorarci seriamente sopra. Perché l'allievo si renda disponibile, si dischiuda, un po' come la moleca del granchio, apra le sue ali anziché ingobbirsi nella paura di una struttura minacciosa e mortificante, si cimenti, sbagli, cada, si rialzi, con un minimo di fiducia, di sostegno, un sostegno che gli garantisca di poter parlare senza sentirsi sotto tiro, di potersi manifestare nelle parti più deboli senza il timore di essere irriso, insomma di poterci "essere". Solo a questa condizione si può verificare un'esperienza di autentico apprendimento, toto corpore, tota mente, toto corde (sono latinismi, per la cronaca, con tutto il corpo, con tutta la mente, con tutto il cuore, ma anche con tutta la pancia, direi).
Ma come fare?
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