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| << | < | > | >> |IndicePremessa di Luigifranco Zoena 9 Introduzione di Paolo Del Duca, Gianni La Torre, Luigifranco Zoena 11 Per un'alba del possibile di Sisto Peluso 13 «Euforika Napoli» 19 Titoli delle opere 46 «Napoli Oltre Napoli» 49 ... con e non su Napoli di Luigifranco Zoena 50 «Il Cuore» 55 Ringraziamenti di Luigifranco Zoena 79 Note biografiche 81 Traduzioni 85 |
| << | < | > | >> |Pagina 9PremessaNel 2008, l'incontro con Christophe Mourey, l'artista francese che ha scelto Napoli quale sua città elettiva, è stato per me travolgente ed illuminante. Mi ha conquistato la capacità di entrare nei dettagli del quotidiano con discrezione e sensibilità. Una particolare tecnica pittorica traccia, nei suoi disegni, con purezza e semplicità, forme nitide che appaiono reali più delle cose stesse. Il grande atlante del mondo, che lui ha disegnato, rappresenta il reale sublimato dalla fantasia. In questo atlante Napoli si guarda allo specchio: come per incanto ogni angolo nei vicoli, nelle piazze o nei giardini è animato da un flusso positivo, regna un'atmosfera ricca di ottimismo e si respira un'aria progettuale ed incoraggiante. In questo specchio la nostra storia, i nostri volti: il pescatore, l'attore, il giornalista, il direttore d'orchestra, il nostro amico, le strade, i vicoli, i monumenti, i dettagli, il mare... ed oggi anche il cuore del centro antico. In questo specchio c'è riflesso il nostro grande amore per Napoli, che Christophe Mourey ha fatto suo e lo ha restituito attraverso i colori modulati con dolcezza dal suo estro. Luigifranco Zoena | << | < | > | >> |Pagina 13Per un'alba del possibileNon v'è alcun luogo sulla terra in cui scrutare l'orizzonte della differenza, alcun luogo in cui il possibile sfiora la sua nientificazione in un gioco di riflessi che non sono specchi ma volti d'uomini, non strade ma solchi del volto, lavoro terrestre del pensiero, luoghi dell'anima sconvolti da un esistere spesso troppo denso; nessun luogo in cui si condensa la storicità del tempo nell'identità dei volti pompeiani e di quelli attuali. Qui, in questo luogo non identitario, è complesso scrivere, dipingere, pensare, senza tener conto della duplicità dell'esistenza stessa, della sua complessità a livello strutturale e metastrutturale; qui diviene complesso persino esistere in modo cosciente. In questo luogo dell'apparire e dell'essere che gioca la sua storicità sulla cum-fusione come tema dominante affondano, le radici, i nervi scoperti da cui parte l'opera d'arte in esame. La possibilità di descrivere, dipingere, far riflettere, controllare attraverso un linguaggio definibile come artistico è nell'opera di Mourey una costante. Un intreccio complesso di volti, sguardi, paesaggi e posizionamenti degli stessi all'interno di microuniversi che contengono impressioni, fotografie, paure che l'artista cerca di controllare e di restituire attraverso la penna. Il mondo dell'evidenza quello di Christophe Mourey; un'evidenza oscena e ter-ribile che pone dinanzi alla domanda politica della responsabilità e intellettuale della riflessione; un'indagine personale che impone al lettore di scavare negli angoli della memoria, di ricercare il nascosto senza pudore, senza timore, per ritrovarsi faccia a faccia con quella dimensione dell'abbandono, della tristezza, della solitudine angosciante che è la riflessione della coscienza. Ciò che trovo disarmante di questi ritratti sono gli occhi e i sorrisi, tutti non definiti, distratti, morbidi eppur compressi, come se nascondessero una verità indicibile, un segreto furente, un angoscioso mistero. Tutti quei volti sono maschere ed anche soggetti del mondo quotidiano, velati di mistero; persino il Cristo della Cappella Sansevero non è in sé l'opera ma rappresenta un nascosto, una necessità di disvelare. Ci si accorge che la città che disegna Mourey è una città non nascosta, ripresa dall'evidente, dipinta nell'immediatezza, quasi nel suo essere "qualunque". Un volto qualunque, di una città, di un vicolo qualunque. Un qualunque che però inganna, che è l'orizzonte in cui si gioca il riflesso dei luoghi, dei volti, degli sguardi; il luogo in cui il rimando spinge il lettore attraverso una tecnica anch'essa immediata e non lontana dall'idea di un artista che viaggia con l'anima semplicemente camminando nelle strade di una città che oramai gli appartiene. Una volontà di appropriarsi d'una parte della realtà, in un singulto quasi fotografico che raccoglie la dinamicità della scena ma rende la sua mortalità e immediatezza nell'immortalità del rimando, nello spalmare il pensiero del lettore dell'opera, nel ricordo. Non si tratta in realtà di una proiezione nel passato né di evidenziare uno scorcio, né di mettere in luce un angolo di città ma di un monumentale processo di coesione tra passato e presente in cui la memoria mangia il futuro, in cui lo spettatore si trova dinanzi al film del possibile, dinanzi ad un'opera acronica che pretende di raccontare il tempo. Proprio in questo gioco temporale la singola opera ha un valore funzionale ma non legato alla sua singolarità bensì filtrato attraverso l'appartenenza, un tassello di un mosaico che non è nemmeno l'opera, ma la terra che si calpesta. Un'opera che contiene una finzione poiché narra un tempo e ne sottende un altro, che in sé rappresenta un singulto di volontà ma che soltanto nel suo essere un micro-avvenimento può trovare una collocazione. Un'opera dunque bifronte che può esser letta da sola e che contiene il suo tutto e che non può essere scissa dal fatto di appartenere ad una visione superiore che la lega ad altre opere di cui è parte. Un voluto rimandare ad una tecnica di posizionamento delle opere in cui i volti non si guardano mai tra di loro ed in cui ognuno rimanda ad un altro luogo. Sembra che l'opera sia retta da una serie di fili che legano gli sguardi dei singoli a molteplici eventi, accaduti o da accadere, sguardi che spingono il lettore alla riflessione sul già dato o sul "dantesi" nel momento stesso in cui si legge o in un "da darsi" che lega la singolarità del lettore ad ognuno di quei volti attraverso il ricordo, la volontà, il vissuto esperienziale di ciascuno. Questo speciale legame non è dato da volti normali, non da strade di qualsiasi città non da passi che sono solo un andare e non un riflettere su di esso. Qui tutto è coscienza, conoscenza del rapporto tra il proprio essere e la propria possibilità di vivere, un appartenere che è sofferenza del saputo. Le opere di Mourey sono luoghi senza figura, figure senza luoghi, senza sfondi paesaggistici. Come sfondo il tempo, perché l'obiettivo non è il mostrare una parte di Napoli o un luogo affollato ma carpire uno sguardo, catturare una strada vuota nel suo essere possibilità di passaggio, un luogo dell'utilizzabilità senza forzature. Un mercato che non è un mercato, un mare che potrebbe essere una dimensione d'azzurro, un castello che potrebbe essere in qualsiasi luogo perché i margini sono isolati, i contorni mangiati dalla volontà di non definire. Tutto ciò però si lega ad un livello di conoscenza. Il paradosso è che questa mostra che non dovrebbe essere per i napoletani diventa un viaggio nella città che ci è alle spalle, nella città che non è più luogo ma accorgimento d'esser passato di lì, d'esserci stato, posizionamento di quel fotogramma dinanzi al proprio sguardo, temporale furto dell'opera e della sua utilizzabilità. Il paradosso è proprio nell'appartenenza; qui essa non è più un luogo come nella considerazione precedente ma diviene memoria, un aver calpestato quel luogo, un esser passato, un essersi fermato, un aver visto. | << | < | |