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| << | < | > | >> |IndiceUn debito pendente 7 di José "Pepe" Mujica Prefazione 13 di Omero Ciai Pepe Mujica. Un sogno venuto da lontano 15 di Massimo Sgroi INTERVISTA ESCLUSIVA A JOSÉ "PEPE" MUJICA Il potere della felicità 59 di Cristina Guarnieri L'impossibile costa sempre un po' di più 71 di José "Pepe" Mujica LA FELICITÀ AL POTERE L'uomo può salvare il mondo 105 Diffondete per le strade il piacere della conoscenza! 121 Un governo di trent'anni, una patria per tutti 131 Il sogno di una confederazione dei popoli 149 Lottare davvero per l'ambiente 157 C'era una volta la sinistra 161 Economia e amore per la vita 173 La bellezza della passione 185 Un patto con l'avvenire 197 Una battaglia culturale 205 Un esercito contro la povertà 211 Nuove potenze e nuovi equilibri 221 America Latina a confronto con l'Europa 225 L'Italia a Montevideo 229 America e Cina: la mano o il cappio 231 Un appello urgente all'azione 241 Postfazione 251 di Donato Di Santo Appendice fotografica 259 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Il movimento sindacale, le idee socialiste, anarchiche e comuniste, ancor più tutte le idee di progresso, hanno le loro radici in Europa. È nel vostro continente che sono nati i primi grandi movimenti popolari, i principali propositi di cambiamento sociale. L'Italia e il suo movimento operaio, la sua singolare esperienza di unione dei contadini, le sue cooperative, le rivolte garibaldine, la lucidità di molti intellettuali liberali e, più di recente, l'eroismo della lotta antifascista e l'insurrezione partigiana, il peso e l'influenza dei suoi due grandi partiti di sinistra, diedero all'interno di questa cornice continentale un contributo di particolare rilievo. Il movimento popolare uruguayano, i suoi sindacati, i primi organizzatori politici di sinistra, i primi giornali di opposizione sociale sorti nella seconda metà del XIX secolo vennero fortemente influenzati dalle idee e dal coraggio degli operai e dei contadini anarchici e socialisti italiani, che spesso furono in prima persona protagonisti di questi movimenti. In Uruguay — che per tradizione è sempre stato un rifugio per i perseguitati — sono sbarcati nel corso del tempo anche altri italiani che fuggivano dalle lotte sociali e dalle persecuzioni nei Paesi limitrofi. Lo stesso Giuseppe Garibaldi ha vissuto e combattuto le sue battaglie in queste terre lasciando tracce e ricordi che ancora persistono. Per questo motivo continua a sembrarmi curioso che il militante sociale di un piccolo Paese sudamericano susciti tanta attenzione, fino al punto di diventare il protagonista del libro di una importante casa editrice che raccoglie la tradizione della sinistra italiana del passato e che vanta fra i suoi autori prestigiosi nomi della sinistra italiana del presente. Forse il motivo si può trovare nella realtà attuale dell'America Latina, nella sua dirompente crescita economica, nei profondi cambiamenti sociali che hanno portato al governo, in molti suoi Paesi, movimenti di sinistra o vicini al socialismo. Senza dubbio si può anche sostenere che alcuni esperimenti sociali in atto nel nostro continente hanno un carattere rivoluzionario. Per dimostrarlo basterebbe menzionare la rivoluzione con cui più di cinquanta milioni di brasiliani cominciarono, durante il governo di Lula da Silva, a mangiare tre volte al giorno, trovando accesso all'istruzione e abbandonando lo stato di povertà, per trasformarsi nella nuova classe media. Fu un cambiamento tanto rivoluzionario quanto difficile da comprendere per chi da sempre ha avuto assicurati quei tre pasti. Fu un cambiamento altrettanto rivoluzionario il fatto che per la prima volta in cinquecento anni questo continente meticcio avesse una nazione con un Presidente indigeno il quale, per di più, dimostrò di essere capace di offrire governabilità, crescita economica e maggiore giustizia sociale a un Paese da sempre soggetto all'instabilità politica, all'ingiustizia e al malgoverno. L'America Latina sembra aver trovato anche la rotta della propria integrazione. Un continente che è stato educato a guardar fuori, verso l'Europa e gli Stati Uniti, comincia per la prima volta a guardarsi dentro, a scoprire la diversità e la ricchezza dei propri popoli nel processo di integrazione. Con questa affermazione non intendo sostenere che le differenze fra i Paesi siano scomparse ma, per la prima volta, le nazioni latino-americane stanno cominciando a riconoscere di dover camminare unite, pur nella diversità, accettando il fatto che l'integrazione non è soltanto un imperativo storico, ma anche una ragione di sopravvivenza nel mondo globalizzato in cui primeggiano i grandi spazi economici. In ogni caso, pur ammettendo queste e molte altre ragioni per spiegare l'attenzione che oggi si rivolge all'America Latina, è legittimo domandarsi se non ci sia anche dell'altro. Perché quel movimento operaio e della sinistra europea, che è stato per tanti anni all'avanguardia, guarda ora con tanta attenzione ai passi difficili e spesso contraddittori che noi latino-americani facciamo, in cerca del nostro progresso sociale e di una vita più degna e solidale per la nostra gente? Sarà solo per la ricchezza che trovate da queste parti, o non sarà forse per una certa perdita di punti di riferimento nelle vostre proprie ricerche? Perché diventa un personaggio interessante uno come me, che non è altro che un vecchio militante, che ha commesso molti errori e patito molte sconfitte, al di là di quello che è sempre stato l'obiettivo principale: conquistare una vita migliore per i suoi compatrioti? Perché suscita tanta attenzione il fatto che qualcuno difenda la politica come una passione superiore e pretenda che i governanti diano ai loro popoli un esempio di vita sobria e vicina a quella della maggioranza? Perché fa scalpore che qualcuno lanci l'allarme contro il crescente discredito che, per mancanza di questo esempio, i politici e la politica stanno soffrendo in molti Paesi? Perché sorprende che un Presidente allerti il mondo contro la folle corsa al consumo sfrenato e contro lo spreco, la crisi di governo globale, le gravi minacce all'ambiente, la debolezza delle politiche nell'affrontare la fame e la miseria che ancora patiscono milioni di esseri umani? In realtà credo che tutto questo susciti attenzione non tanto per il merito di chi propone questi temi, quanto per l'assenza di altre idee, di altre proposte e di altri esempi. Già da molti anni, ormai, noi che cerchiamo ispirazione per la nostra azione sociale e politica, che vorremmo nutrirci dell'esperienza di coloro che sono già passati per i nostri drammi, non troviamo in Europa quel che sempre vi avevamo trovato in passato. Talvolta rattrista sentir parlare persone destinate ad altissime responsabilità, che rappresentano Paesi con una profonda tradizione culturale, e verificare una totale mancanza di idee, di lungimiranza, di capacità di comprendere pienamente il mondo in cui vivono, a volte dotate persino di una dubbia caratura morale. La sinistra, il movimento popolare, gli intellettuali europei, hanno un enorme debito pendente nei confronti dei militanti di tutto il mondo. In quale altro luogo esiste tanta intelligenza accumulata, a livello d'economia, di ricerca sociologica, di politica e di movimenti sociali, come in Europa? Quali altri Paesi possono essere laboratori migliori per avanzare nella generazione di altre forme di produzione, di altre forme di convivenza che superino lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo? Quali altri Paesi possono essere migliori di quelli in cui lo sviluppo economico e sociale ha raggiunto livelli tanto alti come nella maggior parte dei Paesi d'Europa? I nostri Paesi latino-americani hanno davanti a sé decenni di lotte per raggiungere livelli di vita e di convivenza che possano essere anche solo comparati a quelli oggi abituali nel Nord Europa, forme di produzione che somiglino a quelle che ho potuto vedere nel Paese Basco o che predominano nella valle del Po. Noi stiamo provando a fare la nostra parte, cerchiamo il nostro cammino, a volte centriamo il bersaglio, altre volte commettiamo errori, ma abbiamo bisogno delle vostre idee, del vostro impegno, del vostro desiderio di cambiare le condizioni materiali e ideali di vita di questa umanità. Non potete rifuggire questo impegno, dovete assumere la sfida, pensare, lottare, provare e anche sbagliarvi, ma con lo sguardo rivolto a migliorare la vita dei vostri popoli, a superare questo sistema e questo modello di società, che deve essere cambiato prima che ci conduca tutti alla catastrofe. | << | < | > | >> |Pagina 13Dalla fine del 1998, con la vittoria di Hugo Chàvez in Venezuela, la sinistra sudamericana ha attraversato una lunga stagione di trionfi elettorali conquistando il governo in molti Paesi. Ricardo Lagos e Michelle Bachelet in Cile, Lula e Dilma Rousseff in Brasile, Evo Morales in Bolivia, il peronismo di sinistra dei Kirchner in Argentina, il Frente Amplio in Uruguay. Esperienze molto diverse, tanto che si è spesso parlato di "due" sinistre latino-americane. Figlie sia dei movimenti socialisti europei che della grande rottura storica della Rivoluzione cubana. La sinistra, per così dire, "caudillista" che si è raccolta intorno al Venezuela chavista, polo d'attrazione contiguo al regime cubano, e l'altra che ha archiviato le avventure tragiche e fallimentari dei socialismi reali. In alcuni casi – è successo con il Farabundo Martì in Salvador e soprattutto con Dilma Rousseff in Brasile e José Mujica in Uruguay – al potere sono arrivati protagonisti di primo piano delle guerriglie degli anni Settanta. José "Pepe" Mujica è certamente il frutto migliore di questa lunga e dolorosa traiettoria dalla lotta armata (prima per la rivoluzione sociale, e poi contro le dittature militari che infestarono il continente nella seconda metà del secolo scorso) all'impegno istituzionale. Da Fidel alla democrazia. È affascinante pensare – ed è in America Latina una delle più preziose eredità del Novecento – che un dirigente dei guerriglieri tupamaros passerà alla storia per essere stato il Presidente che ha legalizzato i matrimoni gay e la coltivazione della cannabis. Diritti civili piuttosto estranei alle ideologie rivoluzionarie del secolo scorso. I primi ad accorgersi del fenomeno "Pepe" in Uruguay furono i giornalisti di un magazine molto patinato in inglese, Monocle. Poi arrivano tutti gli altri, fino all' Economist che lo santificò sullo scenario dei mass media internazionali. Quello che colpiva tutti era uno stile di vita che gli uruguayani avevano imparato a conoscere da tempo. Un Presidente che rifiuta i lussi della residenza ufficiale e rinuncia al 90% del compenso per il suo incarico pubblico, per destinarlo a programmi di solidarietà. Vive alla periferia della capitale, Montevideo, in una baracca di legno e latta con molti cani e tante galline. Coltiva fiori, viaggia su una vecchia auto, si veste con assoluta modestia. La sobrietà di Mujica ha colpito perfino di più di qualsiasi programma politico innovativo, perché la sua critica e la sua opposizione al capitalismo e al consumismo in favore di una crescita sostenibile e solidale è basica, istantanea: in una parola, è reale. Ossia quotidiana e concreta. José "Pepe" Mujica è "l'uomo nuovo" della nostra modernità. Un esempio per tutti che non pretende di imporre a nessuno le sue convinzioni. Semplicemente le mette in pratica. È un Che Guevara del nuovo secolo. Senza Rolex e soprattutto senza Kalashnikov. | << | < | > | >> |Pagina 105Cari amici, sono un uomo del Sud, vengo dal Sud. Angolo tra l'Atlantico e il Plata, il mio Paese è una terra pianeggiante, dolce, temperata, ricca di bestiame, con una storia di porti, cuoio, tasajo, lana e carne. Ci sono stati decenni sanguinosi, di lance e cavalli, fino a che, al volgere del XX secolo, questo Paese divenne avanguardia in campo sociale, nello Stato, nell'istruzione. Si potrebbe dire che la socialdemocrazia sia stata inventata in Uruguay. Per quasi cinquant'anni il mondo ci ha considerato una specie di Svizzera. In realtà, in campo economico, eravamo figli bastardi dell'impero britannico e, quando quello soccombé, abbiamo dovuto sorbirne il fiele amaro sotto forma di funesti termini di scambio, rimanendo così stagnanti, agognando il passato: quasi cinquant'anni trascorsi a ricordare il Maracaná, la nostra prodezza sportiva. Se oggi siamo risorti in questo mondo globalizzato, è forse grazie a quanto abbiamo imparato dal nostro dolore. La mia storia personale è quella di un ragazzo – perché un tempo sono stato anch'io ragazzo – che come altri voleva cambiare la sua epoca, il suo mondo, realizzare il sogno di una società libertaria e senza classi; i miei errori sono in parte figli del mio tempo. Ovviamente me ne assumo la responsabilità, ma ci sono volte in cui grido con nostalgia: «Chi avrà oggi la forza di quando eravamo capaci di albergare in noi tanta utopia?».
Io, però, non mi guardo indietro perché l'oggi reale è
nato dalle ceneri fertili del nostro passato; al contrario,
non vivo per riscuotere conti rimasti in sospeso o per rinverdire i miei
ricordi. Mi angustia, e molto, l'avvenire che
non vedrò e per il quale impegno tutto me stesso. Si, è
possibile un mondo abitato da un'umanità migliore ma
forse, oggi, il nostro primo compito è salvare la vita.
Ma sono del Sud e, dal Sud, vengo in questa assemblea. Mi faccio carico senza riserve dei milioni di compatrioti poveri, nelle città, nelle lande, nelle selve, nella pampa, nelle miniere dell'America Latina, patria comune che si sta facendo. Mi faccio carico delle culture originarie schiacciate, dei resti del colonialismo nelle isole Malvine, degli embarghi inutili a quel caimano sotto il sole dei Caraibi che si chiama Cuba. Mi faccio carico delle conseguenze della vigilanza elettronica, che non fa altro che seminare diffidenza, sfiducia che ci avvelena inutilmente.
Mi faccio carico di un gigantesco debito sociale, della
necessità di difendere l'Amazzonia, i mari, i nostri grandi
fiumi d'America. Mi faccio carico del dovere di lottare
per una patria per tutti e affinché la Colombia possa trovare il cammino della
pace.
E mi faccio carico del dovere di lottare per la tolleranza: la tolleranza è necessaria tra persone che sono diverse, con quelli con cui abbiamo differenze e discrepanze. Non c'è bisogno di tolleranza tra persone che sono d'accordo fra loro. La tolleranza è il fondamento per poter convivere in pace, accettando che nel mondo siamo differenti. La battaglia va mossa contro l'economia sporca, il narcotraffico, la truffa, la frode e la corruzione, piaghe contemporanee, affiliate a quell'anti-valore che sostiene che siamo più felici se ci arricchiamo, sia come sia.
Abbiamo sacrificato gli antichi dèi immateriali, ma occupiamo i loro templi
con il dio mercato che governa l'economia, la politica, le abitudini, la vita e
arriva persino a finanziare, con rate e carte di credito, la nostra apparente
felicità.
Sembra che siamo nati solo per consumare e consumare ancora, e quando non possiamo farlo la frustrazione grava su di noi, insieme alla povertà, conducendoci fino all'auto-esclusione. La cosa certa, oggi, è che per consumare, e poi seppellire i detriti in quella che per la scienza si chiama "impronta di carbonio", se aspirassimo in questa umanità a consumare quanto un americano medio nella media, sarebbero imprescindibili tre pianeti per poter vivere.
La nostra civiltà ha lanciato una sfida bugiarda, insostenibile: per come
vanno le cose, non è possibile per
tutti colmare questo senso di spreco che è stato dato alla
vita. Nei fatti, si sta
massificando
una cultura, nella nostra epoca, sempre rivolta alla accumulazione e al mercato.
Promettiamo una vita di sperpero e spreco che in fondo costituisce un conto alla
rovescia contro la natura e contro l'umanità come futuro. Civiltà contro
semplicità, contro sobrietà, contro tutti i cicli naturali.
Ancora peggio, civiltà contro la libertà, che presuppone di avere tempo per vivere le relazioni umane, l'unica cosa trascendente: l'amore, l'amicizia, l'avventura, la solidarietà, la famiglia. Civiltà contro il tempo libero che non paga, che non si compra e che ci permette di contemplare e scrutare lo scenario della natura. Radiamo al suolo le foreste, le foreste vere, e impiantiamo anonime selve di cemento. Affrontiamo la sedentarietà con i tapis roulant, l'insonnia con le pasticche e la solitudine con dispositivi elettronici. Ma siamo davvero felici isolati dal contesto umano? Dobbiamo porci questa domanda. Sconvolti, fuggiamo dalla nostra radice biologica che difende la vita per la vita stessa, come causa superiore, e la soppiantiamo con il consumismo funzionale all'accumulazione. La politica, l'eterna madre dell'accadere umano, è rimasta inceppata nell'economia e nel mercato; passo dopo passo la politica non può fare altro che perpetuarsi e in quanto tale ha delegato il potere e si dedica, stordita, a lottare soltanto per il governo. Deformata marcia della storiella umana! Comprando e vendendo tutto, e innovando per poter negoziare in qualche modo ciò che è innegoziabile. C'è un marketing per tutto: per i cimiteri, i servizi funebri, le maternità; marketing per i padri, per le madri, per i nonni e per gli zii, passando per le segretarie, le automobili e le vacanze. Tutto, proprio tutto, è commercio. Le campagne di marketing continuano a indirizzarsi in modo deliberato ai bambini e alla loro psicologia, così da influenzare gli adulti e ottenere, per il futuro, un terreno fertile e assicurato. Sovrabbondano prove di queste tecnologia piuttosto abominevoli che, a volte, conducono a frustrazioni o anche peggio.
Il piccolo uomo medio delle nostre grandi città deambula tra le finanziarie
e il tedio routinario degli uffici,
a volte climatizzati con l'aria condizionata. Sogna continuamente le vacanze e
la libertà, sogna sempre di poter
chiudere i conti in sospeso fino a quando, un giorno, il
cuore gli si ferma e... addio! Dopo di lui verrà un altro
soldato a sfamare le fauci del mercato, assicurando l'accumulazione. La crisi è
l'impotenza, l'impotenza della politica, incapace di intendere che l'umanità non
può fuggire né fuggirà dal sentimento di nazione, quel sentimento
che è quasi incrostato nel nostro codice genetico: siamo
sempre di un qualche luogo.
Ma oggi, oggi è tempo di cominciare la battaglia per preparare un mondo senza frontiere. L'economia globalizzata non ha più altra guida se non l'interesse privato di pochissimi, mentre ogni Stato nazionale guarda al permanere della propria stabilità. Oggi il grande compito per i nostri popoli, secondo il nostro umile modo di vedere, è il "tutto".
E, come se ciò fosse poco, il capitalismo produttivo,
dichiaratamente produttivo, è mezzo prigioniero nella
cassa delle grandi banche, che in fondo sono l'apice del
potere mondiale. Detto più chiaramente: crediamo che il
mondo richieda a gran voce regole globali che rispettino
i risultati raggiunti dalla scienza che abbondano, ma non
è la scienza che governa il mondo. C'è bisogno, per esempio, di una lunga lista
di definizioni: «Quante ore di lavoro su tutta la terra?». «Come far convergere
le monete?». «Come si finanzia la lotta globale per l'acqua e contro i
deserti?». «Come si ricicla e come si fa pressione contro
il riscaldamento globale?». «Quali sono i limiti di ogni
grande azione umana?».
Sarebbe una necessità imperiosa ottenere consensi planetari per liberare
solidarietà verso i più oppressi, imporre
sanzioni contro lo spreco e la speculazione, mobilitare le
grandi economie, non per creare scarti e rifiuti, con obsolescenza calcolata, ma
beni utili, senza frivolezze, per aiutare a sollevare i più poveri del mondo.
Beni utili contro
la povertà mondiale. Mille volte più redditizio del fare le
guerre è rovesciare un neo-keynesianismo utile, su scala
planetaria, per abolire le vergogne più flagranti che ha
questo mondo.
Forse il nostro mondo avrebbe bisogno di meno organismi mondiali, quelli che organizzano forum e conferenze, che servono molto alle catene alberghiere e alle compagnie aeree, anche se poi le idee, perfino nel migliore dei casi, nessuno le raccoglie e le trasforma in decisioni. Abbiamo bisogno di masticare molto il vecchio e l'eterno della vita umana, insieme alla scienza, quella scienza che si impegna in favore dell'umanità e non per l'unico scopo di arricchirsi; con loro, con gli uomini di scienza per mano, primi consiglieri dell'umanità, dovremmo stabilire accordi per il mondo intero.
Né i grandi Stati nazionali, né le transnazionali, né
tantomeno il sistema finanziario dovrebbero governare il
mondo umano. Dovrebbe farlo invece l'alta politica intrecciata alla sapienza
scientifica: lì sta la fonte. Quella
scienza che non ambisce al lucro, ma che mira all'avvenire e ci dice cose a cui
noi non prestiamo ascolto. Quanti
anni sono trascorsi da quando ci dissero, a Kyoto, determinate cose di cui noi
non ci siamo interessati? Credo che
sia necessario convocare l'intelligenza affinché si metta al
comando della nave sulla terra; cose di questo genere e
altre, che non posso sviluppare qui, ci sembrano imprescindibili, ma
richiederebbero che l'umanità considerasse
determinante la vita, non l'accumulazione di ricchezze.
Ovviamente non siamo tanto illusi da non sapere che queste cose non passeranno, né altre simili. Ci restano molti sacrifici inutili davanti a noi, dovremo rammendare molte conseguenze e non affrontare le cause. Oggi il mondo è incapace di regolamentare a livello planetario la globalizzazione e questo accade per via dell'indebolimento dell'alta politica, che si occupa del "tutto".
Per un certo periodo ci rifugeremo dietro ad accordi
più o meno regionali, che disegneranno un libero commercio interno bugiardo, ma
che in fondo finiranno con
il costruire parapetti protezionisti, supernazionali, in alcune regioni del
pianeta. A loro volta, cresceranno rami
industriali importanti e servizi, tutti dedicati a salvare e
a migliorare l'ambiente: in questo modo ci consoleremo
per un periodo, avremo qualcosa da fare e, naturalmente,
continuerà imperterrita l'accumulazione delle ricchezze,
con grande gioia del sistema finanziario.
Continueranno le guerre, e quindi i fanatismi, finché un giorno, magari, sarà la stessa natura a richiamarci all'ordine rendendo invivibile la nostra civiltà. Forse la nostra visione è troppo cruda, impietosa: vediamo l'uomo come una creatura unica, l'unica sulla terra capace di agire contro la propria specie. Torno a ripeterlo: ciò che alcuni chiamano "la crisi ecologica del pianeta" è la conseguenza del trionfo schiacciante dell'ambizione umana. Questo è il nostro trionfo, ma anche la nostra sconfitta, perché abbiamo l'impotenza politica di inquadrarci in una nuova epoca che pure abbiamo contribuito a costruire, eppure non ce ne rendiamo conto. Perché dico questo? Vi do alcuni dati, nulla di più. La cosa certa è che la popolazione si è quadruplicata e il Pil è cresciuto di almeno venti volte nell'ultimo secolo. Dal 1990, più o meno ogni sei anni, il valore del commercio mondiale raddoppia. Potremmo proseguire annotando dati che stabiliscono con chiarezza la marcia della globalizzazione. Che ci sta succedendo?
Stiamo entrando in un'altra epoca in modo accelerato,
ma con politici, atteggiamenti culturali, partiti e perfino
giovani, che sono tutti vecchi al cospetto della spaventosa
accumulazione di cambiamenti che neppure riusciamo a
registrare. Non riusciamo a gestire la globalizzazione perché il nostro pensiero
non è globale. Non sappiamo se sia un limite culturale o se stiamo toccando i
nostri limiti biologici.
La nostra epoca è portentosamente rivoluzionaria, la storia dell'umanità non ne ha mai conosciuta una simile. Non ha però una guida consapevole, meno ancora una conduzione semplicemente istintiva. Tantomeno vi si riscontra una guida politica organizzata, perché non siamo riusciti neppure ad avere una filosofia precorritrice dinanzi alla velocità dei cambiamenti che si sono accumulati.
La cupidigia, tanto negativa quanto vero motore della
storia, ha spinto verso il progresso materiale, tecnico e
scientifico che ha creato la nostra epoca e il nostro tempo
aprendo la via a un fenomenale avanzamento su molti
fronti; paradossalmente, questo stesso strumento, la cupidigia, che ci ha spinto
ad addomesticare la scienza e a
trasformarla in tecnologia, ci precipita in un abisso brumoso, verso una storia
che non conosciamo, verso un'epoca senza storia. E stiamo rimanendo senza occhi
e senza intelligenza collettiva, per continuare a colonizzare e a
perpetuarci trasformandoci.
Se questo ridicolo essere umano ha una sua caratteristica peculiare, è quella di essere un conquistatore antropologico. Sembra che le cose acquistino autonomia e che sottomettano gli uomini. Da un lato all'altro, sovrabbonando gli indizi per scorgere queste cose e, in ogni caso, per decifrare la rotta, ma ci risulta impossibile collettivizzare decisioni globali per quel "tutto" di cui parlavamo prima. Più chiaramente: la cupidigia individuale ha trionfato lungamente sulla cupidigia superiore della specie. Occorre spiegare: che cos'è il "tutto", questa parola che utilizziamo? Per noi è la vita globale del sistema terra che include la vita umana con tutti i fragili equilibri che rendono possibile il nostro perpetuarci nel tempo. Per altro verso, un verso più semplice, meno opinabile e più evidente, soprattutto nel nostro occidente (perché da lì veniamo, anche se veniamo dal Sud): le Repubbliche — che nacquero per affermare che gli uomini sono uguali, che nessuno vale più di un altro, che i loro governi dovrebbero rappresentare il bene comune, la giustizia e l'equità — molte volte si deformano e cadono nell'oblio della gente comune, quella che se ne va per le strade, il popolo.
Le Repubbliche non sono state create per vegetare
alle spalle del gregge ma, al contrario, sono un grido
nella storia per essere funzionali alla vita delle proprie
genti e, pertanto, le Repubbliche devono votarsi alla
maggioranza e devono lottare per la promozione della
maggioranza.
Per varie ragioni, per reminiscenze feudali che sono presenti nella nostra cultura, per classismo dominatore, o magari per la cultura consumista che circonda tutti noi, le Repubbliche adottano frequentemente, nelle loro direzioni, un vivere quotidiano che esclude e mette a distanza l'uomo della strada. Nei fatti, questo uomo della strada dovrebbe essere la causa centrale della lotta politica nella vita delle Repubbliche: i governi repubblicani dovrebbero somigliare sempre di più ai loro rispettivi popoli, nella forma di vivere e nel modo di impegnarsi con la vita.
Il fatto è che coltiviamo arcaismi feudali, cortigianerie
consentite, facciamo distinzioni gerarchiche che al fondo
minano il meglio che le Repubbliche hanno: la convinzione che nessuno sia
migliore di un altro. Il gioco di
questi e di altri fattori ci trattiene nella preistoria e, oggi,
è impossibile rinunciare alla guerra quando la politica fallisce, va in malora.
Così si strozza l'economia, dissipiamo le nostre risorse.
Ascoltate bene, cari amici: in ogni minuto del mondo, su questa terra, si investono due milioni di dollari in spese militari. Due milioni di dollari al minuto nei bilanci militari! La ricerca medica su tutte le malattie, pur essendo enormemente avanzata e costituendo una benedizione per la promessa di vivere alcuni anni in più, copre appena la quinta parte della ricerca militare. | << | < | > | >> |Pagina 121Cari amici, la vita con me è stata straordinariamente generosa. Mi ha regalato infinite soddisfazioni, ben al di là di quanto avrei mai osato sognare, ma sono quasi tutte immeritate. Nessuna lo è più di quella di oggi: trovarmi qui, nel cuore della democrazia uruguayana, circondato da centinaia di teste pensanti. Teste pensanti, a destra e a sinistra, teste pensanti da tenere in alto. Ricordate Paperone, lo zio milionario di Paperino? Nuotava in una piscina piena di monete, aveva sviluppato una passione fisica per il denaro. Io, invece, penso di essere uno a cui piace fare il bagno in piscine colme di intelligenza, di culture lontane, di sapienze diverse. E tanto meglio quanto più mi sono estranee; meno coincidono con quel poco che so, più sono contento.
Il settimanale «Búsqueda» usa una bella frase come
frontespizio: «Quel che dico non lo dico come uomo sapiente, ma cercando insieme
a voi». Per una volta siamo d'accordo: quel che dico, non lo dico come contadino
saputello, né come colto cantastorie; lo dico ricercando
insieme a voi. Lo dico mentre cerco, perché solo gli ignoranti credono che la
verità sia definitiva e irremovibile,
quando invece è a malapena provvisoria, fuggevole. Bisogna inseguirla mentre
scappa da un nascondiglio all'altro,
ed è un uomo misero chi si impegna da solo in questa
partita di caccia. Bisogna farlo insieme, io con voi, con
coloro che hanno fatto del lavoro intellettuale la ragione
della propria vita, con quelli che sono qui e con i tanti
altri che non ci sono.
Se vi guardate attorno sono certo che riconoscerete alcuni volti; sono qui presenti, infatti, persone che si muovono in contesti di lavoro affini ai vostri. Tuttavia scorgerete anche molti altri visi sconosciuti, perché il criterio delle convocazioni per questa giornata è stato l'eterogeneità. C'è chi lavora con atomi e molecole e chi si dedica alle regole della produzione e dello scambio economico; ci sono persone che si occupano delle scienze pure e chi, quasi agli antipodi, studia le scienze sociali; uomini e donne che si occupano di biologia, altre di teatro, di musica, di educazione, di diritto o del carnevale. E, per non farci mancare nulla, ci sono anche persone che si dedicano all'economia: macroeconomia, microeconomia, economia comparata e persino qualcuno che lavora nel campo dell'economia domestica. Tutte queste teste pensanti si cimentano in diversi settori e possono contribuire a migliorare il nostro Paese proprio a partire dalle loro distinte discipline. Sono molte le cose che possiamo intendere con l'espressione "migliorare il Paese", ma il senso che vogliamo darle in questa giornata consiste nell'offrire un impulso a quegli articolati processi che possono moltiplicare per mille la ricchezza intellettuale oggi qui riunita. "Migliorare il Paese" significa che tra vent'anni, per un avvenimento come questo, non basterà lo Stadio del Centenario, perché l'Uruguay traboccherà di ogni sorta di ingegneri, filosofi e artisti.
Non vogliamo un Paese che batta i record mondiali
per il puro piacere di farlo. È dimostrato, però, che quando l'intelligenza
raggiunge un certo grado di concentrazione nella società diviene contagiosa.
Se un giorno riempiremo gli stadi di persone colte e ben istruite, sarà perché fuori, nella società, ci saranno centinaia di migliaia di uruguayani che coltivano la loro capacità di pensiero. L'intelligenza che si addice a un Paese è l' intelligenza distribuita: essa non si conserva solo nei laboratori o nelle università, ma cammina per le strade, si usa per seminare, per tornire, per manovrare una gru o programmare un computer. Anche per cucinare o per accogliere un turista è necessaria la medesima intelligenza: qualcuno salirà più scalini di altri, ma la scala è la stessa. I primi passi sono identici per la fisica nucleare e per il lavoro agricolo: quel che è necessario, in tutte queste cose, è lo stesso sguardo curioso, assetato di conoscenza e molto anticonformista. Se alla fine del cammino si giunge al sapere, è perché l'ignoranza ci ha fatto sentire inadeguati. Se impariamo, è grazie a un prurito che si acquisisce per contagio culturale fin dal momento in cui apriamo gli occhi sul mondo. Sogno un Paese in cui i genitori mostrino ai bambini un prato erboso e dicano loro: «Sai cos'è questo? È una pianta che trasforma l'energia del sole e i sali minerali della terra». O che indichino il cielo stellato e li facciano innamorare di quello spettacolo per indurli a riflettere sui corpi celesti, sulla velocità della luce e sulla trasmissione delle onde.
Non preoccupatevi, quei piccoli uruguayani continueranno a giocare a pallone
ma, quando vedranno saltare la palla, potranno pensare anche all'elasticità dei
materiali che la fa rimbalzare.
Un proverbio del passato recitava così: «Non dare un pesce a un bambino, insegnagli piuttosto a pescare». Oggi dovremmo dire: «Non dare un dato a un bambino, insegnagli piuttosto a pensare». Il serbatoio di conoscenza che oggi è disponibile non si lascia contenere nelle nostre menti: resta fuori, accessibile in qualsiasi momento grazie a una ricerca su internet. Lì ci sono tutte le informazioni, tutti i dati, tutto quello che già si sa; lì, in altre parole, si trovano le risposte. Quel che non si trova, però, sono le domande: il problema è avere la capacità di interrogarsi, saper formulare domande feconde che suscitino nuovi sforzi di ricerca e di apprendimento. E questa capacità si situa lì, in fondo, quasi incisa nell'osso del nostro cranio, tanto intima da non averne quasi coscienza. Impariamo semplicemente a osservare il mondo con sguardo interrogativo, e questo diventa il nostro modo naturale di guardarlo. Basta poco per fare nostra questa attitudine che ci accompagnerà per tutta la vita. Soprattutto, cari amici, tutto questo è contagioso. In ogni epoca ci sono stati uomini che si sono dedicati all'attività intellettuale, incaricati di spargere il seme. Per dirla in altre parole, a noi molto care: a voi è affidato il compito di lanciare il "mirabile allarme".
Per favore, andate per le strade e contagiate. Non risparmiate nessuno,
abbiamo bisogno che la cultura si
propaghi nell'aria, tra le case, che si intrufoli nelle cucine
e arrivi perfino nelle stanze da bagno. Quando si riesce a
far questo, la partita è vinta quasi per sempre, perché si
spezza l'ignoranza essenziale che rende deboli molte persone, una generazione
dopo l'altra.
Abbiamo bisogno che l'intelligenza sia massificata. È quasi una questione di sopravvivenza: soprattutto dobbiamo cercare di diventarne noi stessi produttori più potenti. Tuttavia, in questa vita, non bisogna solo rivolgersi al produrre: bisogna anche godere. Sapete meglio di chiunque altro che nella conoscenza e nella cultura non esiste solo lo sforzo, ma anche il piacere. Dicono che ai corridori accada, a un certo punto, di entrare in una specie di estasi in cui d'un tratto non esiste più la stanchezza, resta solo il piacere. Credo che con la conoscenza e con la cultura succeda la stessa cosa. Si arriva a un punto in cui studiare, ricercare o imparare non costituiscono più uno sforzo, ma un puro godimento. Come sarebbe bello se questi manicaretti fossero a disposizione di tante persone! Come sarebbe bello se nel paniere della qualità della vita che l'Uruguay può offrire alla sua gente ci fosse una buona quantità di consumi intellettuali! E non perché questo sia elegante, ma perché è piacevole, perché si può godere della cultura con la stessa intensità con cui si riesce ad assaporare un piatto di tagliatelle. Non esiste una lista obbligata di ciò che ci rende felici. Qualcuno potrebbe pensare che un mondo ideale sarebbe un luogo pieno di centri commerciali, e in quel mondo le persone sarebbero felici perché potrebbero esser cariche di borse ricolme di vestiti nuovi e di scatole piene di elettrodomestici. Io non ho nulla contro questa visione, dico solo che non è l'unica possibile. Dico che possiamo pensare a un Paese in cui le persone scelgano di riparare le cose invece di buttarle via, o magari preferiscano una macchina piccola a una grande, o scelgano di coprirsi anziché aumentare il riscaldamento. Le società più mature non sperperano. Andate in Olanda e vedrete le città piene di biciclette; vi renderete conto che il consumismo non è la scelta della vera aristocrazia dell'umanità, è la scelta degli incostanti e dei frivoli. Gli olandesi si spostano in bicicletta, la usano per andare a lavoro, ma anche per recarsi ai concerti o nei parchi, dal momento che sono giunti a un livello in cui la loro felicità quotidiana si alimenta di consumi sia materiali sia intellettuali. Quindi, amici, andate e contagiate il piacere per la conoscenza. Intanto, il mio modesto contributo sarà quello di far sì che gli uruguayani vadano in giro in bicicletta, una pedalata dietro l'altra. | << | < | > | >> |Pagina 157Alle autorità di ogni latitudine qui presenti e alle organizzazioni, molte grazie. Il nostro ringraziamento sia indirizzato anche al popolo del Brasile e alla sua signora Presidentessa. Molte grazie anche alla buona fede che hanno dimostrato tutti gli oratori che mi hanno preceduto. Come governanti esprimiamo l'intima volontà di dare seguito a tutti gli accordi che la nostra povera umanità riuscirà a sottoscrivere, ma permettetemi di porre alcune domande ad alta voce. Durante il pomeriggio abbiamo parlato dello sviluppo sostenibile, dell'impegno a far uscire immense masse di cittadini dalla condizione di povertà. Cosa aleggia nelle nostre menti? Il modello di sviluppo e di consumo dipende dall'azione delle società ricche, e mi sorge allora questa domanda: che succederebbe a questo pianeta se gli indiani possedessero la stessa proporzione di automobili per famiglia che hanno i tedeschi? Quanto ossigeno ci rimarrebbe da respirare? Per porre la domanda in modo più chiaro: il mondo, oggi, dispone delle risorse materiali per offrire a sette o ottomila milioni di persone lo stesso grado di consumo e di spreco che hanno le più opulente società occidentali? È davvero possibile? O forse un giorno dovremo sviluppare un altro tipo di dibattito? Abbiamo dato vita a una civiltà — quella in cui ci troviamo — figlia del mercato, figlia della concorrenza, che ha procurato un progresso materiale portentoso ed esplosivo. Ma quello che era "economia di mercato" ha creato "società di mercato" e ha prodotto la globalizzazione in cui oggi viviamo. E noi? Noi stiamo governando questa globalizzazione o è la globalizzazione a governare noi? È possibile parlare di solidarietà e di unione in un'economia basata su una concorrenza spietata? Fino a che punto arriva la nostra fratellanza? Nulla di quel che dico intende negare l'importanza di questo evento, al contrario: la sfida che abbiamo davanti è colossale e la grande crisi non è ecologica, ma politica. L'uomo oggi non governa le forze che ha scatenato, sono piuttosto quelle forze a governare lui. E la vita? Noi non veniamo al mondo per svilupparci in termini generali, veniamo alla vita per cercare di essere felici, perché la vita è breve e fugge via. Nessun bene vale come la vita, questo è elementare, ma se la vita mi scappa di mano lavorando, e lavorando allo scopo di consumare un plus, che succederà? La società di consumo è il motore primo perché, in definitiva, se il consumo si paralizza o si blocca, si blocca anche l'economia; e se si blocca l'economia, appare il fantasma della stagnazione a ciascuno di noi. Questo iperconsumo, a sua volta, aggredisce il pianeta. Deve generare cose che durino poco, perché bisogna venderne molte, e così una lampadina elettrica non riesce a durare più di mille ore anche se esistono lampadine che possono restare accese centomila o duecentomila ore, ma ovviamente non si possono produrre perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare, perché dobbiamo creare la civiltà dell'usa e getta. Ecco, ci troviamo in un circolo vizioso. Questi sono problemi di carattere politico che ci indicano la necessità di lottare per un'altra cultura. Non si tratta di prospettare un ritorno all'uomo delle caverne, né di erigere un monumento al passato, all'arretratezza, e tuttavia non possiamo continuare ad essere indefinitamente governati dal mercato. Dobbiamo essere noi, piuttosto, a governarlo. Per questo dico che il problema è di carattere politico. Secondo il mio umile modo di ragionare — come dicevano anche vecchi pensatori come Epicuro, Seneca o gli aymara —, povero non è colui che possiede poco; povero è, in realtà, colui che ha infinitamente bisogno di molte cose, colui che desidera, desidera, desidera, ancora e ancora e ancora. Questa è una chiave di lettura di carattere culturale. Voglio dunque salutare lo sforzo, gli accordi che si stringono e, come Presidente, accompagnerò tutto questo. So benissimo che alcune delle cose che dico creano riluttanza, ma dobbiamo renderci conto che la crisi dell'acqua, l'aggressione all'ambiente naturale, non sono le cause. La causa è il modello di civiltà che abbiamo costruito, per cui quel che dobbiamo rivedere è il nostro modo di vivere. Appartengo a un piccolo Paese provvisto di molte risorse naturali per vivere. Qui ci sono tre milioni e trecentomila abitanti, ma ci sono anche tredici milioni di mucche, fra le migliori del mondo, nonché tra gli otto e i dieci milioni di pecore stupende. Il mio Paese è un esportatore di cibo, di latticini, di carne. È tutto pianura, di conseguenza quasi l'80% del territorio è sfruttabile. I miei compagni lavoratori hanno lottato molto per le otto ore di lavoro e adesso stanno per ottenerne sei, ma chi riuscirà a conquistare le sei ore si troverà ad avere due impieghi e quindi lavorerà più di prima. E perché mai? Per pagare un'enorme quantità di rate: il motorino, la macchina... Pagherà rate su rate e quando se ne accorgerà si ritroverà vecchio, con i reumatismi, come me, e la vita gli sarà scappata via dalle mani. Allora viene da chiedersi: è questo il destino della vita umana? Si tratta di cose molto elementari. Lo sviluppo non può andare contro la felicità umana, deve piuttosto favorirla insieme all'amore, alle relazioni umane, alla cura dei figli, all'amicizia, al possedere almeno le cose essenziali: questo è il tesoro più importante che si può avere. Quando lottiamo per l'ambiente, il primo elemento dell'ambiente si chiama "felicità umana". | << | < | > | >> |Pagina 161«Nessuno dice che sia una via verso il socialismo, ma è senz'altro un grande passo in avanti, perché spaventa la burocrazia». La fattoria era quieta. La luce spettacolare dell'autunno tingeva ogni cosa di una calma speciale. Sembrava che non ci fossero adulti nelle case. Ne rimaneva uno, il più anziano, e due bambine sedute nell'angusto sottoscala che disegnavano e ridevano. Manuela accompagnava come sempre il Presidente, che il giorno seguente avrebbe compiuto settantasette anni. I due agenti erano tornati alla loro tranquillità abituale. Un momento prima li aveva sorpresi il vicino rumore di una motosega che proveniva dalla casa. Mujica aveva risolto un problema rimasto pendente: aveva dovuto disboscare e segare in tavole un paradiso che non smetteva di svilupparsi dalla quercia americana che avevano piantato tempo addietro. Ora, solo quelle bambine e quegli animali interrompevano senza accorgersene il lungo silenzio della sera. Dentro, come aveva fatto con le piante e con gli alberi, il Presidente cercava di sfrondare le sue idee e scriveva senza fermarsi il testo che si pubblica qui. I suoi appunti, già diventati classici, venivano scritti con la biro su un quadernino. Alcune ore dopo li lesse a voce alta. Alla conclusione, rimase in silenzio alcuni secondi, come per dire: «Questo è ciò che penso». E commentò, guardando il mate che gli veniva porto: «Da quando sono stato incarcerato mi domando che cosa ci è successo; soprattutto mi chiedo che cosa sia l'uomo, chi sia». Quel sabato di maggio tutto sembrava tranquillo, come se i compiti di governo avessero avuto una tregua. Però, nell'austerità di quella "residenza", un vecchio militante non cessava di domandarsi perché, malgrado tanta dedizione e generosità di migliaia e migliaia di combattenti, ancora non si fosse riusciti a costruire una società migliore. Ancora una volta gli indicatori dello sviluppo del Paese, le statistiche che mostrano minore povertà e indigenza, non riescono a rendere più sereno il Presidente il quale, inquieto, continua a interrogarsi sulle sue idee, fino in fondo. Mujica formula domande e risposte preliminari a partire da una linea d'azione rilevante della sua amministrazione: lo sviluppo delle aziende autogestite mediante la creazione del Fondo per lo Sviluppo (fondo creato per decreto nel dicembre del 2010). Un momento dopo la lettura, quando il dibattito tornava a ruotare attorno al ruolo dello Stato e alle esperienze vissute in altre parti del mondo, Mujica volle che rimanessero per iscritto altre riflessioni. Il registratore tornò a funzionare ed è ciò che si pubblica in un riquadro a parte, sotto il titolo Le deformazioni dello statalismo. Il messaggio che nasce dal profondo dei tempi dovrebbe continuare a valere ancor oggi e nel futuro: non sfruttatevi gli uni gli altri, ma cercate di superare le dolorose differenze di classe in cui i più deboli hanno la parte peggiore; fate in modo che il lavoro sia parte della vita e non la vita uno strumento per lavorare e consumare. Alla fine, si tratta di ricreare società più giuste e benevole, dove il mio e il tuo non ci dividano in modo deciso.
Migliaia e migliaia di combattenti cercarono negli ultimi centocinquant'anni
di costruire modelli di società, in tutto il mondo, che avessero come meta la
ricreazione di convivenze capaci di creare socialità.
Sono stati enormi l'epopea creatrice e gli innegabili apporti nel favorire l'uguaglianza della distribuzione della ricchezza, della massificazione della conoscenza e della cultura; il salto che è stato fatto è innegabile, a volte muovendo da società primitive e feudali. In molti casi si è partiti dalla premessa secondo cui c'era da imporre transitoriamente la dittatura in nome di una classe, il proletariato. Questa classe, ovviamente, sarebbe stata rappresentata da un partito, e tutto ciò per sostituire la dittatura che di fatto esercitava ancora la classe dominante in quei regimi più liberali e democratici. Tale interpretazione dello Stato, nella cornice dell'analisi classica dello Stato e della rivoluzione, sembrava un kit di grandi verità incontrastabili. A sua volta, la statalizzazione di gran parte dell'economia appariva, insieme alla razionalità della pianificazione, come la grande magia creatrice per una crescita economica costante e senza i sussulti dei cicli capitalisti, così funesti per la sicurezza dei popoli. Tuttavia quasi un secolo di esperimenti, che cominciarono con i più giganteschi e nobili sacrifici di generazioni di combattenti, sfociò in una stagnazione insopportabile dell'economia e in un tacito rimprovero delle grandi maggioranze lavoratrici di queste società per la mancanza di libertà. In questa situazione, tali società – chiamate a torto "democrazie popolari" – crollarono come se fossero state assediate da un tarlo, senza alcun eroismo, senza alcun modello o proposta, senza altra idea oltre quella di demolire quel che avevano; fu, in ogni caso, il cammino più lungo verso il capitalismo. Che cosa era successo? Poco a poco, i combattenti furono sostituiti da una burocrazia protetta sotto la tranquillità dello Stato; senza proporselo, incubarono lentamente il tradimento, per comodità, per non correre rischi. La burocrazia dimostrò di essere simile e peggiore della borghesia, perché finì col parassitare ogni cosa; ma ancor peggio, la lezione più amara che ci ha lasciato questo processo è che tutti possiamo arrivare a essere burocrati, perché sembrerebbe che la tendenza alla linea del minor sforzo appartenga proprio alla natura umana. Non c'è dubbio, come insegna tutta la storia, che dove fallì la sinistra, inevitabilmente seguì la destra più retriva. Così accadde con i Giacobini, nella loro temeraria alleanza con la destra contro la Gironda, che determinò la fine della Rivoluzione francese. Così accadde con le lotte dei socialisti e dei comunisti tedeschi, che aprirono le porte al nazismo. In altri Paesi, in altre società, con altri metodi, i combattenti socialisti scelsero il cammino delle riforme progressive, non abolirono la gestione privata, ma cercarono di conciliarla con quella dello Stato e promossero politiche di redistribuzione e di giustizia sociale. Fecero molto, ma non abolirono il capitalismo, e per questo motivo, pur non patendo le drammatiche tensioni che questa variante cercò di produrre, subirono però la crisi dei cicli economici e furono sostituiti molte volte dalle borghesie dominanti. In sintesi, quel che è certo è che, per un cammino o per l'altro, abbiamo fallito nel costruire le società che pensavamo o che sognavamo. Ad ogni modo, nulla è stato vano, nulla sarà uguale, ci sono stati una semina enorme, un incredibile progresso tecnico e scientifico e anche moltissimi miglioramenti sociali.
Nonostante tutto, l'essenziale di tutti i cambiamenti
rimane integro: non fu possibile, attraverso l'iniziativa
dello Stato e la pianificazione, sostituire la forza moltiplicatrice
dell'iniziativa privata, capace di mettere assieme moltitudini, né riuscire ad
appropriarsi, in un grande sforzo sociale e collettivo, della guida e dei
benefici che ne risultavano.
Il capitalismo, con le sue crisi, le ingiustizie e cannibalismi di ogni genere, dimostra la sua forza e la sua energia. Dovremo forse arrenderci? Non esistono altri cammini? Gli uomini non riusciranno mai a gestire sé stessi? Non riusciranno mai ad essere responsabili del proprio destino senza dover necessariamente praticare lo sfruttamento? E ancor peggio: cosa resterà, se la corrente che serve a mantenere la marcia crescente dell'accumulazione è sempre la moltiplicazione delle necessità, il non fermarsi mai a pensare, ma semplicemente vivere per bruciare il tempo in ore di lavoro, oppure spenderlo per imparare a lavorare? Se il tempo della nostra vita diventa una mercanzia, che ne sarà della nostra libertà? Dopo quasi un secolo di lotte per le otto ore di lavoro, otto ore di riposo e otto ore di vita, le conseguenze umane di questo tipo di civiltà sono ben visibili. Oggi, molto tempo dopo, con il trionfo della tecnica, della scienza e del capitale, molti lavoratori sono pur arrivati a lavorare sei ore, e anche meno, ma con il risultato di avere non più uno, bensì due o tre lavori. Sono stati così riportati indietro di cento anni! Perché? Perché, paradossalmente, più che vivere, l'imperativo è consumare. Il formidabile progresso materiale non riesce a liberarci, dal momento che finiamo con lo scambiare la libertà con le cose. Eppure, proprio questo, al tempo stesso, rende evidente la necessità di creare società migliori, in cui la vita non ci sfugga di mano, senza infamia e senza lode, come chi baratti la vita con i beni materiali. Tale evidenza è oggi più diffusa che mai, nonostante tutti i fallimenti. Forse dovremmo restituire valore alla cultura, dato che un tempo sognavamo che tutto si sarebbe trasformato se ci fossero stati cambiamenti nei rapporti di produzione e distribuzione. La cultura e la conoscenza rappresentano la lunga creazione di una costruzione collettiva che, a quanto pare, produce insieme successi e vicissitudini umane. La cultura della lotta per la liberazione è, prima di tutto, affrontare ciò che ci trasciniamo dietro storicamente e conoscere quel che siamo nel profondo. Mi riferisco al fatto che veniamo al mondo, in quanto specie, con un programma biologico iniziale che è nascosto al fondo della nostra vita. È quello che ci portiamo appresso come specie. È sepolto sotto gli strati della storia, dell'educazione, della formazione, imposti dall'oggi attraverso il mezzo sociale. Se osserviamo a fondo questo programma biologico nel nostro disco rigido, ci limiteremo a concludere che, per definizione biologica, siamo esseri sociali. Non potremmo vivere isolati per lungo tempo. Millenni or sono i nostri antenati vivevano in gruppi o bande, uniti per i raccolti e per la caccia. In questa lunga preistoria, simile alla nostra vita oggi su questo pianeta, non ci fu altra guida fondamentale se non le necessità del gruppo sociale. I cosiddetti "classici" non potevano sapere, con le conoscenze della loro epoca, quanto hanno apportato da un lato l'antropologia e dall'altro la biologia molecolare. Presto proveremo in modo inequivocabile che esiste una memoria genetica negli esseri superiori. È a partire da qui che pensiamo che l'uomo non sia soltanto, in quanto essere sociale — come diceva Aristotele — «un animale politico», ma che sia anche biologicamente socialista, benché abbia seminato o costruito nel corso della storia, attraverso gli ultimi secoli, una cultura mercantilista e capitalista.
Qui risiede una delle contraddizioni fondamentali
dell'umanità, la biologia contro la storia. Questo dilemma sembra quasi
disegnato poeticamente da Cervantes
quando, nel discorso dei caprai, torna indietro con la
mente e dice: «Età felice e secoli felici quelli in cui il mio
e il tuo non ci separavano».
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