Autore Herta Müller
Titolo La volpe era già il cacciatore
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2020, I Narratori , pag. 232, cop.fle., dim. 14x22x1,7 cm , Isbn 978-88-07-03375-9
OriginaleDer fuchs war damals schon derjäger
EdizioneCarl Hanser, München, 2009 [1992]
TraduttoreMargherita Carbonaro
LettoreMargherita Cena, 2020
Classe narrativa romena , narrativa tedesca












 

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Indice


 11 La strada del verme nella mela
 23 L'uomo nella mano
 27 Il ricciolo sulla fronte
 45 Un uomo buono come un pezzo di pane
 58 Una cravatta

 62 Viscere estive
 66 Giorni dei meloni, giorni delle zucche
 73 Il gatto e il nano
 87 Noci
 96 Un diverso silenzio

104 Infiammazione al timpano
111 L'uomo più piccolo cammina con il bastone più grande
115 Il filo d'erba in bocca
118 Faccia senza faccia
128 La lama del rasoio

131 Volpi cadono in trappola
137 Tu non dici niente
145 La mia testa è buia
154 La volpe sul tavolo
159 Il baciamano

164 La pala perduta
168 Quando fa freddo non posso guardare nell'acqua
171 Un tempo e non adesso
178 La voglia
184 Il gioco delle vespe

191 La città che si allarga
199 Il vaso da notte
204 Le unghie crescono
210 Sonno trasparente
213 Cielo bianconero

219 Lamponi congelati
224 L'estranea
228 Non fa niente


 

 

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Pagina 11

La strada del verme nella mela



La formica trasporta una mosca morta. La formica non vede la strada, rigira la mosca sottosopra e striscia all'indietro. La mosca è tre volte più grande di lei. Adina ritrae il gomito, non vuole bloccare la strada alla mosca. Un grumo di catrame ribolle luccicando al sole, accanto al ginocchio di Adina. Lei vi posa sopra il dito un istante, un filo dí catrame si allunga sotto la mano, si rapprende nell'aria e si spezza.

La testa della formica è come uno spillo, e là dentro il sole non ha spazio per bruciare. Punge. La formica si smarrisce. Striscia ma non è viva, per l'occhio non è un animale. Anche le spighe d'erba strisciano ai margini della città, come la formica. La mosca vive perché è tre volte più grossa ed è trasportata, lei sì che per l'occhio è un animale.

Clara non vede la mosca, il sole è una zucca incandescente che acceca. Le cosce di Clara sono divaricate, le mani posate fra le due ginocchia. Dove le mutandine incidono le cosce ci sono i peli. Sotto i peli un paio di forbici, un rocchetto di filo bianco, degli occhiali da sole e un ditale. Clara si sta cucendo una camicetta estiva. L'ago s'inabissa, il filo fa i suoi passi in avanti, tua madre fottuta sul ghiaccio, dice Clara leccandosi il sangue sul dito. Un'invettiva con il ghiaccio, con la madre dell'ago, del filo. Quando Clara inveisce, tutto ha una madre.

La madre dell'ago è il punto che sanguina. La madre dell'ago è l'ago più vecchio del mondo, che ha partorito tutti gli aghi. Per ogni ago cerca un dito da pungere, su ogni mano che cuce nel mondo. Nelle invettive il mondo è piccolo, e un grumo di aghi e uno di sangue sono sospesi sopra. E nell'invettiva la madre del filo, con i fili aggrovigliati, è appostata sopra il mondo.

In questa calura tu inveisci col ghiaccio, dice Adina, e gli zigomi di Clara sembrano masticare, la lingua le batte nella bocca. Quando Clara inveisce il suo viso fa le rughe, perché nell'invettiva ogni parola è un proiettile esploso dalle labbra, che colpisce le cose. Anche la madre delle cose.

Adina e Clara sono distese su una coperta. Adina è nuda, Clara ha solo le mutandine del costume.

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Pagina 27

Il ricciolo sulla fronte



Il giornale è ruvido, ma il ricciolo sulla fronte del dittatore scintilla luminoso sulla carta. È unto e luccica. È fatto di capelli schiacciati. Il ricciolo sulla fronte è grosso e scaccia gli altri riccioli più piccoli verso la nuca del dittatore. La carta li inghiotte. Sulla carta ruvida c'è scritto: l'amatissimo figlio del popolo.

Quel che luccica, vede.

Il ricciolo sulla fronte luccica. Guarda ogni giorno il paese. Ogni giorno sul giornale la cornice che racchiude l'immagine del dittatore è grande come mezzo tavolo. Sotto il ricciolo il viso è come le due mani, quando Adina le accosta col dorso verso il basso, guarda dritto nel vuoto e inghiotte di nuovo il suo respiro.

Il nero nell'occhio del dittatore è come l'unghia del pollice di Adina, quando il pollice si piega senza cercare nulla. Ogni giorno, dal giornale, il nero dell'occhio guarda il paese.


Il nervo ottico si aggira nel paese. Città e villaggi, a volte radunati, a volte smembrati, sentieri si perdono nei campi, terminano accanto a fossati senza ponti o davanti ad alberi. E gli alberi, dove nessuno li ha piantati, si strangolano. I cani vagano randagi. Dove non ci sono case hanno disimparato da tempo ad abbaiare. Perdono il pelo invernale, poi quello estivo, ora sono schivi ora furiosi, quando non te l'aspetti. Hanno paura e correndo si passano le zampe sulla fronte, prima di mordere.

E la gente, là dove il nero nell'occhio cade, la gente sta nel paese e ha luoghi sotto i piedi che salgono ripidi lungo le gole e ripidamente scendono lungo le schiene.

[...]


La cameriera abbassa il vassoio, vede la faccia sul tavolo, i suoi zigomi pulsano, le sue orecchie sono in fiamme. Distoglie gli occhi così in fretta che la paura tende una vena azzurra sulla sua tempia, posa il bicchiere proprio sopra la fronte, sul tavolo. La limonata è annacquata, strisce gialle vorticano, il ricciolo sulla fronte è nel bicchiere. Adina agita il cucchiaino, il cucchiaino luccica, la limonata, quel che luccica vede.

Nella fronte c'è un ago ardente, il tram passa sul ponte, spinge onde nel fiume. Adina smette di agitare il cucchiaino, non prende il bicchiere, la sua mano è come il cucchiaino. Adina aspetta Clara e Paul. Gira la testa.

Dietro il tetto piano del caffè c'è il parco, e dietro ancora tetti aguzzi. È lì che ci sono le strade dei direttori, degli ispettori, dei sindaci, degli uomini dei servizi segreti e degli ufficiali. Le strade quiete del potere dove il vento, quando soffia, ha paura. E quando vola, non turbina. E quando impazza preferisce spezzare le proprie costole anziché un ramo. Le foglie secche graffiano i viottoli, coprono le tracce subito dopo i passi. Se passa qualcuno che non vive qui e che non c'entra, per queste strade è come se non fosse successo niente.

Le strade quiete del potere stanno nella corrente d'aria che biforca i rami nel parco e li ricopre di foglie origlianti, che accanto al fiume porge al piede la via perché vi cammini picchiettando e che su entrambe le rive, ancora sull'erba tagliata, rende verticali i passi e solleva il ginocchio verso il collo. I passanti qui non vogliono dare nell'occhio, camminano lenti e dritti. Però corrono, col fiato in gola. Quando poi arrivano al ponte la città li avvolge coi suoi rumori indifferenti. Sospirano sollevati, il tram sferraglia, strappa al silenzio la fronte e i capelli.

I signori delle strade quiete non si vedono mai nelle case e nei giardini. Dietro gli abeti, sulle scale di pietra camminano i domestici. Posando i piedi sul prato spingono le viscere fin nel collo, perché l'erba non si spezzi. Quando tagliano il prato, nel bianco dei loro occhi c'è uno specchio in cui la falce e il rastrello luccicano come le forbici e il pettine. I domestici non si fidano della propria pelle, perché le loro mani gettano ombre quando afferrano qualcosa. I loro crani sanno di essere nati con mani sporche in strade sporche. E che le loro mani, adesso nella quiete, non diventeranno pulite. Solo vecchie.

Quando i domestici guardano nel frigorifero dei signori gli occhi sussultano per la paura, perché la luce cade sui piedi in forma di rettangolo. L'orologio alla parete ticchetta, la tenda si gonfia, la guancia trema dal freddo ai loro pensieri. La carne è avvolta nel cellofan, il cellofan è coperto di brina, bianca brina, come la pietra, come il marmo in giardino.

Nei giardini delle strade quiete non ci sono nani con berretti sulla testa. Ci sono pietre tristi, scalze fin dentro la testa. Leoni nudi, bianchi come cani innevati, e angeli nudi senza ali, come bambini innevati. E quando in inverno il gelo gira intorno al sole, anche qui la neve diventa gialla e si spezza senza sciogliersi.

Le domestiche abitano sotto le case, in cantina. Quel che di notte sfiorano nel sonno è più vicino ai topi e agli scarafaggi che ai pavimenti di sopra. I mariti delle domestiche sono andati sottoterra, i figli sono ormai grandi e fuori casa. Le domestiche sono vedove.

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Pagina 154

La volpe sul tavolo



La sveglia ticchetta senza sosta, sono le tre.

Forse durante la notte le zampe si sono riattaccate alla volpe, pensa Adina. Tende il piede dal letto e scosta le zampe posteriori dalla pelliccia. Le sue dita sussultano sentendo la coda che pur essendo mozzata è ancora morbida e folta. E non si affloscia.

Adina mette le due zampe e la coda sul tavolo e le accosta. Ora c'è una volpe intera, solo che per metà è strisciata sul tavolo. Tiene la testa e le zampe anteriori sotto, e mette invece le zampe posteriori e la coda sul piano del tavolo, per tenersi.

Alla finestra della cucina la luna è così gonfia che non può restare. Viene rosicchiata dal primo mattino. Sono le sei e dopo la notte la luna è stanca, ha ancora tre dita gialle, e uno è grigio e le regge la fronte. Si sentono già i primi autobus, o forse a far rumore è il confine della notte a cui la luna, non essendo tonda, resta attaccata quando abbandona la città. Cani guaiscono come se l'oscurità fosse una grande pelliccia, e il vuoto delle strade nel cranio un cervello tranquillo. Come se i cani della notte avessero paura, quando la gente gli passa accanto, paura del giorno in cui la fame che cerca incontra la fame vagabonda. Quando lo sbadiglio incontra lo sbadiglio, e con lo stesso alito nella bocca la parola incontra il latrato.

I collant hanno odore di sudore invernale. Adina li infila sulle gambe nude, come il dondolio in un treno, indossa il cappotto sopra la camicia da notte. Nel cappotto sono appesi ancora i piccoli cappotti neri del viadotto e quelli grandi e verdi dell'autobus. Nei bottoni del cappotto c'è ancora la stazioncina e il nero nell'occhio. Nella tasca del cappotto ci sono ancora i soldi del viaggio e la torcia elettrica. La chiave è ancora sul tavolo della cucina. Alle scarpe è attaccato ancora il fango del cortile della caserma. Adina vi infila i piedi.


Il cerchio della torcia elettrica inciampa, il bordo del marciapiede è spigoloso. Un gatto balza fuori dal bidone della spazzatura, le sue zampe sono bianche, del vetro va in frantumi alle sue spalle.

Il parcheggio è vuoto, lo stadio tiene nel buio il suo terrapieno, il cielo sopra diventa grigio. Dietro lo stadio si sente battere del ferro, là c'è la fabbrica. La ciminiera non si vede, solo il fumo giallo. Il tram gira l'angolo e stride. Ci sono finestre illuminate e sveglie, e altre buie, appoggiate alle pareti nel sonno.

Nelle strade silenziose del potere il mattino arriva più tardi. Le finestre sono scure, gli steli delle lampade pieni di ghirigori. Nei giardini, sopra le scale, le lampade appese illuminano gli angeli e i leoni di pietra. I cerchi di luce sono proprietà privata, non sono per i passanti che non abitano qui e che non hanno qui nulla da cercare.

I pioppi sono coltelli, nascondono la lama e dormono in piedi. Dall'altra parte c'è il caffè. Le sedie di ferro bianche sono state ritirate, l'inverno non ne ha bisogno, non si siede, segue il fiume e rimane sospeso sotto i ponti. L'acqua non scintilla e non vede, lascia i pioppi da soli.

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Pagina 168

Quando fa freddo non posso guardare nell'acqua



So quello che so, dice Clara ad alta voce, il tram stride e passa vicinissimo al parapetto, Ilije è molto sensibile, dice, il ponte trema, gli alberi si affollano nel parco. Lo sapevo che non avrebbe resistito alla volpe, dice piano. Le unghie rosse affondano nei capelli e poi riemergono, seguendo una mano bianca e ricurva. So anche che non fuggirà, dice. E i suoi capelli volano nel vento e si posano come un ventaglio sopra la sua fronte. Questo non lo sai, dice Adina, e come potresti saperlo. Guarda la guancia di Clara, i bordi degli occhi affilati e neri.

Senza pescatori il fiume è una striscia d'acqua nella città, solo la sua putrida artrite se ne sta in mezzo, tra lo specchio e il fondo, e si sente il suo odore.

Le scarpe di Clara battono sul lastricato. Adina si ferma e Clara fa ancora tre passi, e senza farci caso cammina sempre al centro delle pietre. Vieni, dice, quando fa freddo non posso guardare nell'acqua. Poi si ferma, e i suoi capelli sono scuri come le alghe di fiume nell'acqua. C'è da diventare nudi dal freddo, dice Adina. Clara la tira per il braccio, ho le vertigini, dice. Poi si allontana dall'acqua, fa qualche passo sulla strada. Adina getta una foglia secca nell'acqua, ma non è il fiume a farti venire il vomito, dice, e segue con gli occhi la foglia, pesante e già così bagnata che le onde piccole non la afferrano. Paul ti ha visto in ospedale, dice.

Lo so, dice Clara, e lo so che ti dice tutto. Le unghie rosse si immergono nelle tasche e con le mani fa sporgere una pancia sotto il cappotto. Ero incinta, dice. I polsi bianchi e curvi riaffiorano, le unghie no. Come sei riuscita ad abortire, chiede Adina. Una foglia bagnata è incollata al tacco sottile di Clara. Pavel conosce il medico, dice.

L'erba nel parco è ghiacciata, abbandonata a ciuffi accanto ai sentieri, folta e vuota. Ma i rami in alto, anche senza foglie, ascoltano.

Clara prende un filo d'erba, non deve strapparlo perché sta là disteso, non è attaccato al terreno. È piegato e non sta dritto fra le dita. Adina si gira. Lo scricchiolio non è un passo estraneo, ma solo un ramo sotto la sua scarpa. Fa il medico, chiede Adina e Clara dice: l'avvocato. Si gira. Il rumore non è un passo estraneo, ma una ghianda caduta sul sentiero. Perché non mi hai detto niente, chiede Adina. Clara butta via il filo d'erba che non vola, è troppo leggero e cade sulla sua scarpa, perché è sposato, dice. Poi si sente un battere di scarpe e uno sfregare di sabbia sul sentiero. Una donna spinge una bicicletta, perché me lo tieni nascosto, chiede Adina. Sulla bicicletta c'è un sacco. Perché è sposato, dice Clara, la donna si volta, ci vediamo poco, dice Clara. Da quando lo conosci, chiede Adina.

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Pagina 172

Com'era la storia del piccolo rumeno che va all'inferno, ha chiesto lui. Non lo so, ho detto. Però fino a tre settimane fa la sapevi, ha detto lui. Poi ha detto che, come si può vedere dappertutto, secondo lui io penso che i piccoli vanno in cielo e non all'inferno. Ma è una contraddizione, ha detto. Io ho aperto il cassetto perché sono raffreddato, ho cercato il fazzoletto e lui mi ha detto di chiuderlo. Ho chiesto perché e lui ha detto che nel cassetto poteva esserci qualcosa che lui non deve vedere. Ho detto che era un ufficio, e lui ha detto che dopo quattro anni e mezzo in ogni cassetto si sviluppa una certa intimità. Mi sono messo a ridere e ho detto che non lo sapevo così discreto. Poi lui ha detto che di mestiere fa l'avvocato e ha ricevuto una buona educazione. E allora, cosa vede il piccolo rumeno all'inferno, ha chiesto. Poi ha raccontato lui la barzelletta per intero: un piccolo rumeno muore e va all'inferno, c'è una grande folla e tutti stanno nel fango rovente fino al mento. Il diavolo indica al piccolo rumeno l'ultimo posto libero in un angolo, lui ci va e affonda fino al mento. Al centro, vicino al trono del diavolo, c'è invece uno che sta nel fango solo fino alle ginocchia. Il piccolo rumeno tende il collo e riconosce Ceaușescu. Allora chiede al diavolo dov'è la giustizia, lui ha più peccati di me. Sì, ma lui sta sopra la testa di sua moglie, dice il diavolo.

Non la finiva più di ridere. Poi si è reso conto che stava ridendo e il suo sguardo è diventato tagliente, ha tirato in dentro le spalle e la sua voglia ha tremato sulla vena del collo. Mi ha odiato perché non poteva fare a meno di ridere. I suoi movimenti sono diventati precipitosi, le sue mani come coltello e forchetta, ha preso un foglio dalla cartella e ha messo una penna sul tavolo. Scrivi, ha detto. Ho preso la penna e lui ha guardato fuori dalla finestra il cortile della fabbrica, e ha dettato: IO, e io ho chiesto, IO o LEI, e lui ha detto scrivi IO e il tuo nome. Il mio nome basta, ho detto, sono già io. Lui si è messo a gridare, scrivi quello che ti dico, e poi si è reso conto che stava gridando, si è preso il mento e ha stretto l'angolo della bocca fra pollice e indice e ha detto piano: scrivi IO e il tuo nome. L'ho scritto. NON RACCONTERÒ A NESSUNO, QUALUNQUE SIA IL GRADO DI VICINANZA CON QUELLA PERSONA, CHE COLLABORO. Ho posato la penna e ho detto: questo non posso scriverlo. Lui mi ha chiesto perché e io ho detto perché così non posso vivere. Ah, ha detto lui, e le sue tempie ruminavano, ma la sua voce è rimasta assolutamente tranquilla. Mi sono alzato e mi sono allontanato dal tavolo, sono andato alla finestra e ho guardato in cortile, non vorrei più essere infastidito nella fabbrica, ho detto. Va bene, ha detto lui, pensavo che avessi bisogno dei tuoi pomeriggi per te. Poi ha infilato la penna nella giacca, ha appallottolato il foglio e ha messo la pallottola nella cartella.

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Pagina 182

I cancelli dello stadio sono aperti. Poliziotti e cani sono in attesa nel parcheggio. Degli uomini si accalcano all'uscita, cantano e gridano. Nello stadio, nella luce, il pallone rumeno è volato contro i danesi. La partita è vinta. Dal terrapieno la luce sale verso il cielo, come se la luna si fosse smarrita. E chi sono questi danesi, le mani degli uomini portano il tricolore, con le tre bande. Le toppe rossofame, giallomuto, bludiguardia nel paese isolato. E chi li conosce i danesi, le labbra degli uomini parlano di mondo e di mondiali, i loro canti strisciano su per il collo, come sterpaglia sul terrapieno dello stadio. Cosa cercano qui i danesi, il fondista guarda indifferente. Quando la folla esplode di gioia, lui è solo. Allora è uno straniero.

Destati rumeno dal tuo sonno eterno, canta un vecchio. Il canto è proibito, l'uomo si mette sul bordo del marciapiede, vede il muso di un cane e le scarpe di un poliziotto, canta per allontanare la paura, leva in alto il mento. La sua mano tiene fermo il berretto di pelliccia. Poi lo strappa dal capo, lo sventola, lo getta a terra e ci passa sopra con le scarpe. Pesta e pesta e canta, e nel canto si sentono le suole. E il canto è proibito, e il canto sa di acquavite. Le bandiere in alto sono impazzite, le teste degli uomini di sotto sono ubriache, le scarpe confuse. Le bandiere accompagnano gli uomini sulla strada mentre camminano incontro alla notte.

La voce del vecchio si blocca. Mio Dio, dice davanti all'acacia spoglia, cosa potremmo essere noi nel mondo e non abbiamo pane da mangiare. Un poliziotto va verso di lui, e poi un cane e poi ancora un poliziotto. Il vecchio solleva le braccia e leva un grido al cielo, Dio ci perdoni se siamo rumeni. I suoi occhi luccicano nella luce rada, nella coda dell'occhio il luccichio si affretta. Il cane guaisce e gli balza al collo. Due, tre, cinque poliziotti lo portano via.

Il parcheggio si abbassa e si solleva, e con lui l'acacia spoglia. La strada getta i propri passi sul suo viso. Il parcheggio sta a testa in giù. Il cielo è il Danubio che sta sotto, l'asfalto è la notte che sta sopra. Nello sguardo capovolto, là sotto il terrapieno, sopra in cielo nel paese isolato una luce bianca avvolge la città.

La testa del vecchio pende più in basso di tutto.

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Pagina 224

L'estranea



I finestrini illuminati viaggiano e ondeggiano e restano sui binari. Qua e là, nelle strade buie, c'è una luce. Chi dietro i muri è sveglio, ha luci alle finestre. Chi adesso è già sveglio, deve andare in fabbrica. Le maniglie per attaccarsi dondolano sulle sbarre, il nano è seduto vicino alla porta. I binari stridono. Accanto a Clara c'è una donna con un bambino in braccio. E a ogni fermata la porta sbatacchia, e il . fa un sospiro, e il nano chiude gli occhi, e la porta si apre. E nessuno sale, solo la sabbia spinta dentro dal vento. Non la si vede. È come farina, ma scura. La si sente grattare sul pavimento.

E all'angolo, dove il recinto arriva fin quasi ai binari e un ramo sfiora il finestrino luminoso, il bambino canta con voce assente, verso il vagone:

            Sempre mi affligge il pensiero
            di vender casa e campo

La madre abbassa la testa e guarda il pavimento vuoto, il nano abbassa la testa, Clara abbassa la testa. Sotto le scarpe i binari accompagnano il canto. Le maniglie dondolano e ascoltano.

L'altoparlante vicino al portone della fabbrica è muto, il gatto tigrato sta accanto al portone, c'è stagnola verde nei suoi occhi. Gli slogan nei padiglioni sono scomparsi e adesso stanno nel cortile. Il nano entra nel filo metallico, i suoi mattoni rotti battono a terra. Dietro di lui corre il gatto tigrato.

Grigore è direttore, il direttore è caposquadra, il custode è sorvegliante del magazzino, il caposquadra è custode.

Crizu è morto.


E lo stesso mattino, un'ora dopo, quando fuori è più chiaro e i caseggiati nel cielo grigio sono un gregge, Adina va a scuola. Nella cabina telefonica sfasciata c'è una crosta di pane. In fondo alla strada c'è il grande rotolo di filo metallico. In cortile, davanti alla baracca di legno, c'è una catena vuota. Il cane Olga non c'è più.


Nel cortile della scuola, nell'angolo più lurido e nudo, davanti al muro c'è una montagna. Una metà è di tessuto, cordoncini intrecciati, nappe gialle, spalline. L'altra metà è di carta, slogan, stemmi dello stato, opuscoli e giornali con discorsi e fotografie.

Il bambino con gli occhi distanziati e le tempie strette avvicina al viso una foto. Là sopra c'è il ricciolo sulla fronte e il nero nell'occhio. Il ricciolo sulla fronte arriva fino alle scarpe del bambino. Le cornici non le bruciamo, dice la figlia della domestica. E strappa il ricciolo dalla cornice, mia madre è rimasta sola nella casa dell'ufficiale, dice, l'ufficiale è stato arrestato e sua moglie si è nascosta. I gemelli portano un cesto pieno di cravatte e bandierine rosse con le frange di seta gialle dei pionieri.

La figlia della domestica avvicina il fiammifero alla montagna, cioè alla metà di carta. Il fuoco si fa rapidamente strada verso l'alto, la carta spessa fa onde che sembrano grigie orecchie. Per quanto tempo ho aspettato questo momento, dice la figlia della domestica. La carta morbida si disintegra, non si sarebbe detto, dice Adina. I gemelli infilzano frange di seta in fiamme su bastoni, e corrono per il cortile. Cosa potevo fare, dice la figlia della domestica, dovevo stare zitta, ho una figlia. Il vento spinge il fumo sopra il muro. Il bambino con gli occhi distanziati sta accanto ad Adina e ascolta.

Lo so, dice Adina, gli uomini avevano donne, le donne avevano bambini, i bambini avevano fame. La figlia della domestica si passa in bocca una ciocca di capelli, guarda la montagna semicarbonizzata. Adesso è finita, dice, e siamo vivi. La settimana prossima vengo a trovarti.


La figlia della domestica è direttrice, il direttore è insegnante di ginnastica, l'insegnante di ginnastica è dirigente del sindacato, l'insegnante di fisica è responsabile per la trasformazione e la democrazia.

La donna delle pulizie passa per i corridoi con la scopa e toglie la polvere dalle pareti vuote, là dov'erano appese le immagini.

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