|
|
| << | < | > | >> |Pagina 9Ha chiuso piano piano la porta ed è uscita senza fare rumore come chi, a mezzanotte, lascia il capezzale di un malato che si è appena addormentato. Ho ascoltato i suoi passi lenti nel corridoio, con il timore o la speranza che all'ultimo minuto tornasse indietro per posare la valigia ai piedi del letto e sedervisi con un'espressione di resa o di stanchezza, come se stesse già tornando dal viaggio che mai, prima di stanotte, ha potuto intraprendere. Quando la porta si è richiusa la stanza è rimasta al buio, e ora mi illumina solo il filo di luce che arriva dal corridoio e scivola sottile fino ai piedi del letto, ma alla finestra si affaccia un'oscurità blu scuro e dalle persiane aperte entra un'aria di una notte ormai quasi estiva attraversata in lontananza dalle sirene dei treni espressi che avanzano sotto la luna nella vallata livida del Guadalquivir e risalgono i pendii di Mágina per giungere alla stazione dove lui, Minaya, in questo momento la sta aspettando senza più illudersi che Inés, snella e sola, con la sua sottanina rosa e i capelli raccolti in una coda di cavallo, sbuchi all'improvviso da dietro un angolo sulla banchina. Č solo, seduto su una panchina, e forse fuma mentre guarda le luci rosse e le rotaie e i vagoni fermi ai bordi della stazione e della notte. Adesso, che la porta si è richiusa, posso, se voglio, immaginare tutto solo per me, insomma, per nessun altro, posso nascondere la testa sotto il rimbocco che Inés ha lisciato con tanta segreta tenerezza prima di andarsene e così, rifugiandomi nell'ombra e nel calore del mio corpo sotto le lenzuola, posso immaginare o raccontare quanto è successo e guidare ancora i loro passi, quelli di Inés e di lui, fino a farli incontrare e riconoscersi sulla banchina deserta, proprio come se in questo stesso istante li stessi inventando e disegnassi la loro presenza, il loro desiderio e la loro colpa.Ha chiuso la porta e non si è voltata a guardarmi perché io glielo avevo proibito; ho visto solo per l'ultima volta il suo collo bianco e delicato e l'attaccatura dei capelli e poi ho sentito i suoi passi che si attutivano mentre lei si allontanava in fondo al corridoio, e lì si sono arrestati. Forse ha posato per terra la valigia ed è tornata verso la porta che aveva appena chiuso, e in quel momento ho temuto e probabilmente desiderato che si fermasse, ma subito dopo i suoi passi sono risuonati più lontani, già molto profondi, nelle scale; e so che quando è arrivata in cortile si è fermata ancora e ha alzato lo sguardo verso la finestra, ma io non ho voluto affacciarmi perché ormai non ce n'era bisogno. Bastano la mia coscienza e la mia solitudine e le parole che pronuncio sottovoce a guidarla verso la strada e la stazione dove lui non può che aspettarla. Ormai non serve più scrivere per indovinare o inventare le cose. Lui, Minaya, non lo sa, e immagino che prima o poi, inevitabilmente, si arrenderà alla scaramanzia della scrittura, perché non conosce il valore del silenzio né quello delle pagine bianche. Adesso, mentre aspetta il treno che al termine di questa notte, quando sarà arrivato a Madrid, l'avrà portato via per sempre da Mágina, guarda le rotaie e le ombre degli ulivi oltre le mura della stazione, ma tra i suoi occhi e il mondo si interpongono sempre Inés e la casa in cui l'ha conosciuta, il ritratto di Mariana in abito da sposa, lo specchio in cui si guardava Jacinto Solana mentre scriveva una poesia laconicamente intitolata Invito. Come il primo giorno, quando si presentò in quella casa con la cupa malinconia dell'ospite appena sceso dai peggiori treni della notte, Minaya, nella stazione, vede ancora la facciata bianca al di là della fontana, la casa alta semioffuscata dalle goccioline prodotte dagli zampilli che salgono e ricadono sulla vasca di pietra fuoriuscendo dal bordo e superando a volte in altezza le cime rotonde delle acacie. Guarda la casa e sente alle sue spalle altri sguardi che convergono su quell'edificio per dilatarne l'immagine aggiungendole la distanza di tutti gli anni trascorsi da quando fu costruito, e non sa più se è proprio lui stesso che la sta ricordando o se davanti ai suoi occhi si stia risvegliando la memoria sedimentata di tutti gli uomini che l'avevano guardata e abitata fin da prima che lui nascesse. Quelli della percezione inesorabile, penserà, e dell'amnesia, sono doni che solo gli specchi possiedono appieno, ma se ci fosse uno specchio capace di ricordare starebbe piantato davanti alla facciata di quella casa, e solo esso avrebbe percepito la successione delle cose immobili, la favola celata sotto la quiete dei suoi balconi chiusi, il suo resistere al tempo. | << | < | > | >> |Pagina 62Fuori dalla casa, da quel presente in cui si era installato come chi si chiude da dentro in una stanza per sedersi pacificamente davanti al fuoco e non sente il freddo né il rumore della pioggia, né i rintocchi dell'orologio, assorto nella lettura di un libro, la città quasi non esisteva più, e ancor meno Madrid, e il passato mediocre. Al suo arrivo l'aveva attraversata senza riconoscerla da dietro i finestrini di un taxi, prima i campi abbandonati intorno alla stazione e il viale di tigli con i rami spogli e levati contro un vasto cielo grigio che si condensava come nebbia al limite della pianura in cui spuntavano i campanili delle chiese. Ma non era quella la città che lui ricordava e non sentiva suo quel chiarore invernale, bensì la luce esaltata sui muri di calce e gli architravi di pietra color sabbia, quella che fluiva dal tunnel d'ombra dei portoni e stagnava in fondo, come in lagune ombrose, ai cortili a pergolato di Mágina, quando alle prime luci dell'alba una donna, sua madre, apriva la porta e tutte le finestre e spazzava il selciato bagnandolo poi finché non emanava un odore di pietra umida e terra bagnata dopo un temporale. Per questo non fu in grado di riconoscere la città al suo arrivo e ci mise tanto prima di calpestare le sue strade come uno straniero, perché Mágina, nei pomeriggi d'inverno, diventa una città castigliana di porte chiuse e negozi scuri con banconi di legno brunito e manichini tristi nelle vetrine, città di androni cupi e piazze troppo grandi e desolate dove le statue sopportano da sole l'inverno e le chiese sembrano alti scafi incagliati. Era un'altra la sua luce, dorata, fredda e azzurrina, una luce che calava dai terrapieni delle mura in una discesa ondulata di orti e canali ritorti e piccole case bianche tra i melograni, che si dilatava a sud verso gli oliveti sterminati e la pianura azzurra o violacea del Guadalquivir, e quel paesaggio era lo stesso che avrebbe poi riconosciuto nei manoscritti di Jacinto Solana, piatto come il mondo delle cartografie antiche e delimitato dal profilo delle montagne oltre le quali non poteva esistere nulla. Anche lui, Solana, aveva guardato da bambino quello spazio di luce illimitata e vi era tornato a morire, le strade aperte di Mágina che sembrava dovessero finire in mare e i terrapieni come balconi scoscesi o alti belvedere marittimi da dove si affacciava a tutto il chiarore del mondo non ancora violato dall'avidità delle sue pupille e dalle favole della sua immaginazione.| << | < | > | >> |Pagina 67«Se tu avessi visto», disse Manuel, «l'espressione dei suoi occhi quando entrò per la prima volta in biblioteca. Mia madre era andata a trascorrere qualche giorno nell'Isola di Cuba, e mio padre si trovava a Madrid, al Congresso dei Deputati, e per una settimana intera la casa fu tutta nostra. Avevamo undici o dodici anni e Solana, quando mise piede nel patio, si bloccò e non disse più niente, come se la paura gli impedisse di avanzare. Č come una chiesa, mi disse, ma quello che gli interessava davvero non era la casa, bensì il posto da cui provenivano i libri che io gli prestavo di nascosto da mia madre, e che lui leggeva a una velocità che mi aveva sempre sconcertato, perché lo faceva di notte e alla luce di una candela, quando i suoi genitori andavano a letto. In casa sua c'era un solo libro. Si intitolava, ricordo, Rosa María o il Florilegio degli Amori, un romanzo d'appendice in tre volumi che Solana lesse a dieci anni e per il quale ebbe sempre una sorta di gratitudine. «La cosa che più vorrei al mondo è scrivere qualcosa di simile alle sue duemila pagine di peripezie», mi diceva. Entrò in biblioteca come se s'addentrasse nella grotta del tesoro, e non si azzardava a toccare i libri, si limitava a guardarli o a sfiorarli delicatamente, come si accarezza un animale.Le labbra strette, la rabbia oscura e l'odio lucido e precoce contro la vita che gli negava quella casa e quella biblioteca, la voglia di ribellarsi a tutto e di fuggire da Mágina e da suo padre e dai due ettari di terra e dal futuro cui suo padre voleva confinarlo. Non era l'amore per i libri che gli fece stringere i pugni e lo sprofondò nel mutismo in mezzo al salone che profumava di cuoio e di legno lucidato, bensì la consapevolezza della sporca ristrettezza in cui era nato e della fatica animale del lavoro cui si sapeva condannato. I libri, come l'opaca lucentezza dei mobili e le lampade dorate e la cuffia bianca e il grembiule inamidato della donna che servì loro la cioccolata per merenda in grandi tazze di porcellana con dipinti sopra paesaggi azzurrini, erano solo la misura o il segno del suo desiderio di fuggire per meditare da molto lontano la sua vendetta futura, bramata e tramata quando leggeva sui libri il ritorno del conte di Montecristo. Manuel, allarmato dal suo silenzio, gli propose di salire con lui in camera, ma in quell'istante Solana era diventato un estraneo. Salì correndo, per invogliarlo a seguirlo, ma dalla balaustra del loggiato, vide che Jacinto Solana si stava guardando nello specchio del primo pianerottolo, indifferente a Manuel e alla sua voce e a quanto desiderava così ansiosamente di dividere con lui per non perdere l'amicizia che, per la prima volta da quando si erano conosciuti, sentiva in pericolo. Solana guardava nello specchio la sua testa rapata e le sue espadrillas di tela e la sua giacchetta grigia che era stata del padre, indizi dell'affronto da cui poteva difendersi solo immaginando con ostinato fervore un futuro nel quale sarebbe stato un viaggiatore ricco, misterioso e implacabile coi propri nemici o il corrispondente e l'eroe in una guerra dalla quale sarebbe tornato per umiliare ai suoi piedi tutti coloro che adesso tramavano contro il suo talento e il suo orgoglio. Manuel non vide le sue lacrime davanti allo specchio né capì il suo silenzio, ma mezzo secolo dopo ricordava ancora con quanta ostile risoluzione Jacinto Solana gli aveva detto che un giorno in quella biblioteca ci sarebbero stati anche i libri che lui avrebbe scritto. Beatus ille, pensò Minaya, com'era nobile l'ideale di vita e di missione che aveva coltivato fino al giorno della sua morte senza mai riuscire a realizzarlo. Non c'erano i suoi libri, ma c'erano invece, a graffiare l'ombra, le sue parole e i suoi occhi che fissavano con ossessione dalla mensola del camino lo spazio di serena penombra e i volumi allineati che non arrivò a toccare. | << | < | > | >> |Pagina 94«Avanti», sentì prima la voce dura oltre la porta e subito dopo, entrando, l'odore leggero di Inés si smarrì in un profumo sconosciuto e denso che riempiva l'ambiente, come se anch'esso facesse parte della presenza non visibile, della solitudine inaccessibile e dei vestiti e dei mobili d'altri tempi che avvolgevano donna Elvira. Non è l'odore di una donna, pensò, bensì quello di un secolo: così odoravano le cose e l'aria cinquant'anni prima. Senza alzare lo sguardo, Inés fece una vaga riverenza e posò il vassoio su un tavolo vicino all'invetriata. «Puoi andare», disse donna Elvira e non la guardò perché, da quando era entrato, non aveva tolto gli occhi di dosso a Minaya e persino mentre lui l'aiutava a sedersi accanto al tavolino del tè continuò a guardarlo nello specchio dell'armadio, goffo, sollecito, proteso verso di lei, cosciente del silenzio che non sapeva come rompere e degli occhi freddi e saggi che l'avevano già giudicato.«Assomigli a tua madre», disse osservandolo con calma dietro al vapore e alla tazza del tè. «Hai i suoi stessi occhi e la stessa bocca, mentre il sorriso è di tuo padre. Sorrideva così anche mio marito e tutti gli uomini della sua famiglia, e persino tua nonna Cristina, che era bella come te. Non hai visto il ritratto che mio figlio tiene in camera sua? Sorridete per farvi perdonare le vostre bugie, non cercate neanche di nasconderle perché vi è sempre mancato il rigore morale necessario per distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, o per essere sfiorati da questo problema. Per questo il mio povero marito si scusava sempre prima di commettere una sciocchezza o di dire una bugia, mai dopo. Pensava che non ci fosse niente che non gli si potesse perdonare. Il suo sorriso non fu mai più candido e più affascinante della volta in cui mi informò di aver venduto un podere da mille olivi per comprarsi una di quelle automobili italiane, Bugatti, si chiamavano. Se ne andò con la sua macchina e una puttanella a Montecarlo e tornò dopo un mese senza entrambe e, naturalmente, senza un centesimo, ma si presentò con uno smoking impeccabile e un mazzo di gladioli e sorrise come se fosse andato in Costa Azzurra solo per poter comprare i fiori per me. Mio figlio, invece, non ha mai saputo sorridere come suo padre, o come il tuo, che era a sua volta un pericolosissimo imbroglione. Ha sbagliato né più né meno degli altri componenti della famiglia, ma l'ha sempre fatto con un'enorme solennità, come se si stesse comunicando. Č entrato da volontario in quell'esercito di affamati che ci avevano privato della metà delle nostre terre per dividersele e per poco non ha perso la vita combattendo contro quelli dalla cui parte sarebbe dovuto stare, e come se non bastasse, si è sposato con quella donna che era di seconda o terza mano, capisci cosa intendo?, e voleva addirittura andarsene con lei in Francia. Ma sono sicura che tu non sei fino in fondo come loro, come mio marito e mio figlio e quel matto di tuo padre, o come il tuo bisnonno, don Apolonio, che ha trasmesso a tutti la sua furfanteria e la sua pazzia ma non la sua capacità di far soldi. Tutti imbroglioni, tutti temerari o incapaci, o le due cose insieme, come mio marito, che Dio l'abbia in gloria, che se avesse tardato ancora un po' a morire ci avrebbe ridotto tutti in miseria, con quella sua mania di fare collezione prima di purosangue e poi di donne e automobili. Per questo era diventato così amico di Alfonso XIII ai tempi in cui era deputato. A entrambi piacevano le stesse cose e nessuno dei due si preoccupava di doverlo nasconderlo. Forse tuo padre ti ha raccontato che quando il re venne a Mágina nel 1924 si fermò un pomeriggio intero a prendere il tè con noi, in questa casa. I nobili impallidirono dall'invidia nel vedere la familiarità con cui il re trattava mio marito, che in fin dei conti non era che il figlio di uno che si era arricchito in America senza altri blasoni che quelli che gli inventava tuo nonno José Emilio Minava, il poeta, che io credo sia stato l'unico a poterlo ingannare, con quella sua aria candida, perché gli strappò cinquecento pesetas per pubblicare quel libro di versi e riuscì a portargli via la figlia, anche se non l'eredità. L'ultima notte della sua visita a Mágina, Alfonso XIII sparì, cosa che a quanto pare rientrava nelle sue abitudini, e nessuno, né la regina né don Manuel Primo de Rivera, che l'aveva accompagnato, né i militari della scorta sapevano dove andare a cercarlo. Alle due del mattino mi svegliò il telefono. Era Primo, tanto nervoso da sembrare ubriaco. 'Elvira, Sua Maestà è a casa tua?'. 'Don Miguel', gli dissi, 'Vostra Eccellenza crede che se il re fosse qui io sarei andata a dormire?'. E sai dov'era? Nell'Isola di Cuba che già allora era l'unico podere che ci era rimasto, a offrire champagne a due prostitute di lusso procurategli da mio marito, il quale credo si divertisse più a fare íl ruffiano per i suoi amici che il gallo da combattimento. Tornò all'alba, si spogliò con estrema naturalezza come se venisse dall'Opera, e mi disse prima di addormentarsi: 'Mia cara, Sua Maestà è un vero sportman'». | << | < | > | >> |Pagina 175Lo chiamai dalla cima del sentiero, ma il rumore dell'acqua che dalla cisterna sboccava nel canale non gli permetteva di sentirmi, e allora, invece di raggiungerlo o chiamarlo di nuovo, mi fermai accanto al pioppo secco al quale, quando ero un ragazzino, eravamo soliti legare la cavalla per guardarlo a lungo prima che lui potesse accorgersi del mio arrivo, per guardarlo solo e assorto nel suo lavoro, così come aveva sempre voluto vivere. Era accucciato, chino a fior d'acqua sulla cisterna, all'ombra del melograno, con il cappello di paglia che mi nascondeva il suo volto e il carnicione nero abbottonato fino al collo che indossava ogni giorno. Vidi le sue grandi mani arrossate che scuotevano energicamente nell'acqua un mazzo di cipolle per pulirle del fango alle radici, e quando si drizzò per mettere il mazzo in una cesta di vimini vidi finalmente anche la sua faccia con il mozzicone di sigaro che pendeva da un lato della bocca. Dalla cima del sentiero, l'orto scendeva in un pendio di terrazze scrupolosamente coltivate, disegnate con angoli così precisi che sembravano quelli di un foglio di carta, limitate dai canali d'irrigazione e dai fichi e dai melograni nei cui tronchi tante volte avevo inciso il mio nome con il coltello. Scesi lungo il sentiero e mi fermai a metà strada per chiamarlo di nuovo. Si alzò lento, pulendosi le mani umide e rosse in un lembo del camicione e spense con cura il mozzicone prima di baciarmi due volte, come aveva sempre fatto, ma adesso era molto meno alto di me e dovette mettersi in punta di piedi per raggiungere la mia faccia. «Avresti anche potuto scrivere, sciagurato». Quando ero davanti a lui mi paralizzava sempre un antico pudore, non del tutto estraneo alla paura che nutrivo per lui in passato, quando era un uomo temibile e grande come un albero e mi diceva che sarei diventato scemo a forza di leggere libri. «Č la guerra, padre», mi giustificai, anche se lui non mi faceva caso, «che non mi lascia neanche il tempo di scriverle». «La guerra?», disse guardandosi attorno, come se il fatto di non avvertirne alcun indizio nella tranquilla terra coltivata e nei canali gli facesse pensare che gli stessi mentendo. «Che cosa c'entri tu con la guerra?». E io volevo annuire, e accusarlo, anche, volevo dire qualcosa con il fervore necessario, ma nella mia stessa voce, quando gli parlai, avvertii lo stesso tono vacuo d'esagerazione o menzogna di cui erano pieni all'epoca i comunicati ufficiali. «Lei stando qui non se ne accorge o non vuole farlo, ma noi stiamo dando una bella lezione ai fascisti», conclusi. Ricordo che si mise a sedere stringendosi nelle spalle, sullo scanno di pietra che c'era sotto il melograno, e si frugò nel camicione in cerca del suo mozzicone spento, guardandomi come se avesse appena avuto la conferma che, dopo vent'anni di sospetti, i libri erano definitivamente riusciti a rincretinirmi. «Dicevano la stessa cosa quando ci hanno mandato a Cuba. Che gli avremmo dato una bella lezione, agli insorti. E sai una cosa? C'è mancato poco che tu non nascessi».Viveva solo, nell'orto che lui stesso aveva dissodato, nella casa che aveva costruito con le sue sole mani prima che io nascessi, una baracca con delle mangiatoie, una piccola stalla per i maiali, una sola stanza in cui c'era il camino, il letto, i sacchi delle sementi e gli arnesi, i piatti di terracotta in cui si faceva da mangiare proprio con lo stesso piacere che traeva da tutte le faccende della sua vita solitaria, perché adesso che è morto ho capito che era sempre stato dominato da una fiera volontà di stare da solo e che se aveva lasciato Mágina il 19 luglio del 1936 non era stato perché avesse paura della guerra ma unicamente perché la guerra gli aveva dato il pretesto che aveva sempre aspettato per abbandonare la città e sfuggire alla noia del consorzio umano. Quel pomeriggio del 19 luglio era uscito in strada e aveva visto un uomo che attraversava correndo la piazza di San Lorenzo per poi appostarsi dietro un angolo. L'uomo, uno sconosciuto, aveva la camicia intrisa di sudore e aveva guardato mio padre con la bocca aperta, dicendogli qualcosa che lui non era riuscito ad afferrare, perché subito dopo si era sentito uno sparo nella piazza deserta e lo sconosciuto, come spinto da una folata di vento, era stato sbattuto contro il muro stringendosi il ventre ed era caduto morto sull'acciottolato. La mattina seguente, senza dire parola con nessuno, mio padre aveva caricato su una mula un materasso, un letto di ferro smontato e il secondo tomo di Rosa Maria o il Florilegio degli Amori, un romanzo d'appendice in tre volumi e un numero infinito di pagine e lugubri litografie che aveva ereditato dal padre e che molto probabilmente non aveva mai finito di leggere. Da bambino io mi ero rifugiato in quei volumi con l'esaltazione e l'orrore di chi attraversa di notte un bosco deserto, e molti anni dopo, quando tornai a Mágina per partecipare al funerale di mia madre, scoprii che intorno alla metà del secondo tomo di Rosa Maria o il Florilegio degli Amori mio padre custodiva, gelosamente ritagliati e ripiegati, certi miei articoli che in quel periodo avevo cominciato a pubblicare su giornali di Madrid. Non gli dissi mai di averli visti: lui non si era mai mostrato propenso a rivelarmi, neppure indirettamente, che li leggeva e conservava con un orgoglio più forte della sua volontà di rinnegare me, il figlio fuggito da Mágina e dal futuro che lui stesso mi aveva assegnato ancor prima che nascessi, quando aveva scavato un pozzo nella roccia viva e spianato un pendio di terra sterile e costruito la casa che io non avevo voluto condividere né ereditare e dove alla fine visse in solitudine gli ultimi tre anni della sua vita, lontano da una città e da una guerra che non gli interessavano, proprio come non si era mai interessato di Alfonso XIII né di Primo de Rivera né di quella vaga Repubblica che aveva cambiato le bandiere degli edifici pubblici e i nomi di alcune strade di Mágina. Dal momento che io gliene parlavo e la difendevo, deve aver pensato che la Repubblica appartenesse, come Madrid e la letteratura, a quel genere di miraggi che mi avevano avvelenato la fantasia fin da quando andavo a scuola e mi trasformavano irrimediabilmente in uno straniero ai suoi occhi senza che lui potesse far nulla per salvarmi.
Vecchio ed esile sotto il camicione nero, ma ancora provvisto di una forza
fisica che si manteneva intatta perché non era che un attributo del suo vigore
morale, si caricò sulle spalle la cesta di cipolle e la portò in casa senza
permettermi di aiutarlo. Impilate sotto la tettoia c'erano ceste e sacchi di
ortaggi umidi che mi mostrò con orgoglio. «Figurati cosa può importare, a me, di
questa guerra. Quando ho visto come mi hanno ammazzato quell'uomo quasi davanti
alla porta di casa mi sono detto: 'Justo, sono diventati tutti completamente
matti, ma questo non è un tuo problema'. E così ho caricato quattro cose sulla
mula, ho chiuso la casa a doppia mandata e sono venuto a vivere qui nell'orto.
Non ho più messo piede a Mágina da quel giorno. La gente viene qui e mi compra
le verdure o le scambia con quello di cui ho bisogno, che non è molto perché mi
faccio da solo persino il pane. E tu, di cosa vivi?». «Ho un impiego al
Ministero della propaganda». Mi guardò in silenzio scuotendo la testa con
un'aria di delusione che conoscevo già: lui, che non aveva mai chiesto nulla né
obbedito a nessuno, che non aveva mai voluto lavorare che per se stesso né
possedere niente che non si fosse guadagnato con le proprie mani... «Accidenti,
mangiare con i soldi del Governo... Dovresti vergognarti, Jacinto». Ma io non
riuscivo più a spiegargli niente e neppure a difendermi, e non perché pensassi
che lui non avrebbe capito ma perché io stesso, in quel posto e in
quell'istante, non ero in grado di appellarmi a una ragione che mi potesse
giustificare. Le solite parole, le parole tuttora sacre, la sensazione pura di
felicità e di eccitazione che solo nella primavera del '37 ci rapiva, erano
ormai, quella sera, tanto improbabili e lontane come la guerra stessa nella
mente di mio padre: un uomo sconosciuto e morto nella luce incandescente della
siesta di luglio, un suono di sirene a mezzanotte che si confondevano a volte
con il fischio dei treni che attraversavano la valle, una formazione di aerei
che volavano più in alto di tutti gli uccelli e splendevano nel sole prima di
sparire oltre la sierra. L'avevo sentito fin da quando avevo varcato la porta
delle mura e riconosciuto, proprio lì, l'abbeveratoio dove, quando ero bambino,
portavo la cavalla bianca per poi lanciarla al galoppo lungo il sentiero
dell'orto. Venivo da casa di Manuel e avevo ancora fissi nella memoria gli occhi
di Mariana, ma non appena mi lasciai alle spalle le mura e calpestai la terra
finissima di quei sentieri fu come se mi fossi spogliato della mia figura
presente per trasformarmi, man mano che mi avvicinavo all'incontro con mio
padre, nell'ombra di quello che ero stato quando quei viottoli e la valle e la
sierra blu erano l'unico paesaggio della mia vita. Pensai che il tempo non è
consequenziale ma immobile, che le regioni e i contorni della sua geografia si
possono disegnare con la classica precisione del mondo della cartine
scolastiche. Come gli acquerelli di Orlando, l'orto di mio padre era un
territorio fuori dal tempo, e io non potevo tornarvi, proprio come non si può
attraversare uno specchio o unirsi alle figure di un quadro: potevo,
semplicemente, anche se in questo la mia volontà non c'entrava già più,
accettare l'oblio, la trasfigurazione, la paura e l'impossibile tenerezza che
avevo provato per tanti anni al cospetto di mio padre, la parte di colpa che mi
spettava per la sua delusione o la sua vecchiaia.
|