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| << | < | > | >> |Indice3 Amica della mia giovinezza 31 Five Points 57 Meneseteung 85 Stringimi forte, non lasciarmi più 121 Arance e mele 155 Foto del ghiaccio 177 Bontà e clemenza 205 Oh, a che giova 245 Diversamente 277 Parrucca ________________________________________________ |
| << | < | > | >> |Pagina 3Amica della mia giovinezzaCon gratitudine a R.J.T. Un tempo sognavo spesso mia madre, e sebbene i particolari variassero di volta in volta, la sorpresa era sempre la stessa. Il sogno si interrompeva perché era troppo palese la speranza, troppo scontato il perdono, credo. Nel sogno avevo la mia vera età e facevo la mia vera vita, ma scoprivo che mia madre era ancora viva. (In realtà, è morta quando io avevo poco piú di vent'anni e lei poco piú di cinquanta). Certe volte mi ritrovavo nella nostra vecchia cucina con mia madre che stendeva la sfoglia per i dolci, o che lavava i piatti in quella povera bacinella color panna con il bordo rosso. Altre volte, però, la incontravo per strada, in posti dove non mi sarei mai aspettata di vederla. Magari mentre attraversava la hall di un bell'albergo, oppure faceva la coda in aeroporto. La trovavo bene, non proprio giovanissima, e nemmeno del tutto al riparo dal male tiranno che la tormentò per piú di dieci anni prima della morte, ma comunque talmente piú in forma di come la ricordavo da lasciarmi di stucco. Oh, mi diceva, mi trema solo un po' il braccio, e mi sento la faccia un po' rigida da questa parte. È un fastidio, ma me la cavo. Recuperavo così quello che nella veglia avevo perduto: la vivacità della faccia e della voce di mia madre, prima che i muscoli della gola le si bloccassero e sui suoi lineamenti calasse una maschera dolorosa e impersonale. Come avrò fatto, pensavo nel sogno, a scordarmi il suo disinvolto senso dell'umorismo, piú allegro che ironico, e la sua leggerezza, l'impazienza, la sicurezza? Le dicevo che mi dispiaceva di non essere andata a trovarla per molto tempo - e non intendevo dire che mi sentivo in colpa, ma che era un peccato essermi tenuta in testa un brutto ricordo, al posto di quella realtà - e la cosa piú strana e piú dolce di tutte per me era la semplicità della sua risposta.
Beh, diceva, meglio tardi che mai. Ero sicura che ti avrei
rivista, un giorno o l'altro.
Mia madre, quando ancora era una ragazza dal viso morbido e malizioso e portava le calze di seta opaca sulle gambe floride (ho in mente una foto di lei con i suoi allievi), andò a insegnare alla Grieves School, dotata di un'unica aula, nella Valle di Ottawa. La scuola era sull'angolo della cascina che apparteneva alla famiglia Grieves: un'ottima fattoria per quella zona. Campi ben drenati, senza strati di roccia precambriana sotto il terreno, un modesto corso d'acqua costeggiato da salici, un boschetto di aceri da zucchero, lunghi fienili di legno e una grossa casa disadorna le cui pareti, mai dipinte, erano da sempre alla mercé delle intemperie. E quando il legno stagiona nella Valle di Ottawa, diceva mia madre, non so perché, ma non diventa grigio, diventa nero. Deve esserci qualcosa nell'aria, diceva. Parlava spesso della Valle di Ottawa, che era la sua zona di origine - era cresciuta a una trentina di chilometri dalla Grieves School - con un tono dogmatico, stupefatto, sottolineando al massimo tutto ciò che la distingueva da ogni altro posto sulla terra. Lí le case anneriscono, lo sciroppo d'acero ha un sapore ineguagliabile, gli orsi si avventurano quasi fino alle case abitate. La prima volta che visitai quei posti, naturalmente, ne rimasi delusa. Non era per niente una valle, se per valle si intende un anfratto tra due montagne; era un misto di prati piani, rocce basse, boschi fitti e laghetti: un paesaggio vario, disordinato, privo di una naturale armonia, piuttosto impegnativo da descrivere. I fienili di legno e la casa non intonacata, abbastanza comuni nelle cascine povere, nel caso dei Grieves non erano segno di indigenza ma di volontà. Loro i soldi li avevano, ma non li spendevano. Cosí almeno la gente diceva a mia madre. I Grieves erano grandi lavoratori, tutt'altro che ignoranti, ma decisamente non al passo coi tempi. Non avevano macchina, elettricità, telefono, né trattore. Qualcuno pensava dipendesse dal fatto che erano cameroniani - nel distretto scolastico c'erano soltanto loro, di quella religione - ma la chiesa in effetti (che loro chiamavano presbiteriana riformata) non proibiva né i motori né l'elettricità né altre invenzioni del genere; soltanto il gioco delle carte, il ballo, il cinematografo e, la domenica, qualunque occupazione che non fosse religiosa o ineludibile. Mia madre non era in grado di dire chi fossero i cameroniani né come mai si chiamassero cosí. Saranno una delle tante assurde religioni scozzesi, sentenziava dall'alto del suo spensierato e devoto anglicanesimo. La maestra alloggiava tradizionalmente dai Grieves, e mia madre era un po' spaventata dall'idea di trasferirsi in quella casa di assi nere illuminata a cherosene, dove le domeniche erano paralitiche e le idee antidiluviane. Al tempo però era fidanzata, preferiva farsi il corredo che andare in giro a divertirsi, e calcolò che poteva tornare a casa una domenica su tre. (La domenica in casa Grieves era permesso accendere il fuoco per scaldarsi, ma non per cucinare; non si poteva far bollire l'acqua per il tè, e nemmeno scrivere una lettera o acchiappare le mosche. Si scopri però che mia madre era esonerata dal rispetto di quelle regole. «No, no», le diceva Flora, ridendo. «Non vale per lei. Deve continuare a vivere come è abituata». E poco dopo mia madre aveva stretto una tale amicizia con Flora che non tornava a casa nemmeno la domenica prevista). Flora ed Ellie Grieves erano le due sorelle rimaste della famiglia. Ellie era sposata con un certo Robert Deal che abitava e lavorava lí senza che per questo la cascina fosse diventata per nessuno casa Deal. Per come ne parlava la gente, mia madre si aspettava che le sorelle Grieves e Robert Deal avessero una cinquantina d'anni, e invece Ellie, la sorella piú giovane, arrivava appena ai trenta, e Flora ne aveva sette o otto di piú. Robert Deal doveva essere a metà tra le due. La casa era divisa in modo strano. I coniugi non abitavano con Flora. All'epoca del loro matrimonio, da lei avevano avuto il salotto e la sala da pranzo, le camere da letto e la scala anteriore, e la cucina utilizzata d'inverno. Il problema di stabilire a chi andasse il bagno non si era posto, perché il bagno non c'era. Flora si tenne la cucina estiva, con le travi a vista e le pareti in mattone crudo, la vecchia dispensa che trasformò in sala da pranzo e salotto un po' sacrificati, e le due camere da letto posteriori, in una delle quali dormiva mia madre. La maestra stava da Flora, nella metà piú povera della casa. Ma a mia madre non importava. Aveva preferito Flora sin dall'inizio, la sua allegria, al silenzio e all'atmosfera malata delle stanze padronali. Nel regno di Flora non era neanche vero che fosse bandita ogni forma di divertimento. Possedeva una tavola da crokinole, e insegnò il gioco a mia madre. La divisione ovviamente era stata fatta pensando che Robert e Ellie mettessero su famiglia e avessero bisogno di una camera in piú. Il che non era successo. Ormai erano sposati da piú di una decina d'anni ma di figli vivi non ce n'erano stati. Ogni tanto Ellie restava incinta, ma due bambini erano nati morti e gli altri li aveva persi prima. Durante il primo anno in cui mia madre alloggiò lí, pareva che Ellie passasse sempre piú tempo a letto e mia madre pensò che dovesse essere di nuovo incinta anche se nessuno ne faceva parola. Era un argomento di cui gente del genere non parlava. Dall'aspetto di Ellie quando lasciava il letto e girava per casa era impossibile stabilirlo, con quel suo fisico flaccido e sfibrato, dal petto cascante. Si portava addosso un odore di malato e faceva i capricci per ogni cosa, come una bambina. A badare a lei e sbrigare tutto il lavoro pensava Flora. Faceva il bucato, riordinava le stanze e cucinava per entrambe le tavole della casa, oltre ad aiutare Robert a mungere e a scremare. Era in piedi prima dell'alba e sembrava instancabile. La primavera dell'anno in cui mia madre arrivò dai Grieves, si procedette a una massiccia pulizia generale nel corso della quale Flora si arrampicò personalmente sulle scale a pioli per smontare le finestre antibufera, lavarle e metterle via; sgomberò di tutti i mobili una stanza dopo l'altra per poter fregare a fondo il pavimento di legno e lucidarlo. Lavò ogni singolo piatto e bicchiere delle varie credenze, nonostante dovessero già essere puliti. Fece bollire pentole e posate. Era preda di una tale foga irrefrenabile che quasi non chiudeva piú occhio: a mia madre capitava di essere svegliata dal rumore che faceva smontando i tubi della stufa, oppure abbattendo ragnatele nere di fumo con la scopa avvolta in uno strofinaccio. Dalle finestre pulite e senza tende si riversava in casa un torrente spietato di luce. Un nitore devastante. Mia madre ormai dormiva tra lenzuola candeggiate e inamidate che le irritavano la pelle. Ellie, l'ammalata, si lamentava quotidianamente dell'odore di cera e detersivo. Flora aveva le mani tutte screpolate ma restava di ottimo umore. Fazzoletto, grembiule e l'informe tuta da lavoro di Robert che usava per montare sulle scale le davano un'aria clownesca: allegra e imprevedibile. Mia madre la chiamò derviscio rotante. — Sei identica a un derviscio rotante, Flora, — le disse, e Flora si interruppe. Voleva sapere di'che si trattava. Mia madre glielo spiegò, temendo di avere offeso la sua sensibilità religiosa. (Non tanto la sensibilità, anzi, non si poteva definirla cosí. Diciamo piuttosto il rigore religioso). Ma naturalmente non accadde. La devozione di Flora non conosceva traccia di malanimo né di diffidenza ottusa. I pagani non la spaventavano: era sempre vissuta in mezzo a loro. L'idea di essere un derviscio le piacque, e andò a riferirla alla sorella. — Sai a chi dice che assomiglio, la maestra? Sia Flora che Ellie erano alte e longilinee, minute di spalle, scure di capelli e d'occhi. Ellie naturalmente era malridotta; Flora invece aveva ancora un bel portamento aggraziato. Poteva sembrare una regina, secondo mia madre, perfino arrivandosene in città su quel carretto che avevano. Per andare in chiesa usavano un calesse o la slitta, ma quando andavano in città avevano spesso dei sacchi di lana da trasportare (tenevano qualche pecora nella stalla) o dei prodotti agricoli da vendere, senza contare che al ritorno c'erano le provviste da portare a casa. Il viaggio di pochi chilometri era un'occasione speciale. Robert sedeva davanti per guidare il cavallo; Flora sapeva farlo altrettanto bene, ma doveva essere sempre l'uomo a condurre. Flora si metteva in piedi dietro di lui e si reggeva ai sacchi. Andava e tornava dal paese cosí, col suo cappellino nero sulla testa, senza mai perdere l'equilibrio. Quasi ridicola, ma non proprio. Pareva una regina zingara, secondo mia madre, con quei capelli neri, la pelle che sembrava sempre leggermente abbronzata, e quella sua seraficità sinuosa e spavalda. Ovviamente, le mancavano i cerchi d'oro alle orecchie e i vestiti sgargianti. Mia madre le invidiava la linea sottile e gli zigomi alti. | << | < | > | >> |Pagina 121Arance e mele- Ho assunto una bellezza di fuori Shawtown, - disse il padre di Murray. - È una Delaney, ma per ora non sembra avere brutte abitudini. L'ho messa al reparto Uomo. Succedeva nella primavera del '55. Murray era fresco di college. Appena arrivato a casa non aveva avuto il minimo dubbio su che cosa gli riservasse il futuro. L'avrebbe capito chiunque: stava scritto sulla faccia scavata e cupa di suo padre e nella pagnotta dura che giorno dopo giorno gli lievitava in pancia e che lo avrebbe ucciso prima dell'inverno. Nel giro di sei mesi Murray sarebbe diventato il responsabile, seduto nella piccola guardiola appesa come una gabbia in fondo al negozio, sopra il reparto Linoleum. Al tempo Zeigler si chiamava ancora Grandi Magazzini Zeigler. L'azienda era praticamente nata insieme al paese. L'attuale sede in mattoni rossi, alta tre piani, con quell'insegna in lettere oblique di mattoni grigi che a Murray era sempre sembrata stranamente esotica e pretenziosa, aveva sostituito, nel 1880, una precedente costruzione di legno. Il magazzino non trattava piú prodotti alimentari né ferramenta, ma aveva mantenuto i reparti Uomo, Donna e Bambino, Tessuti, Calzature, Articoli per la casa, Arredamento e Tendaggi. Murray andò a dare un'occhiata a questa bellezza. La trovò relegata dietro file di camicie confezionate nel cellophane. Barbara. Era alta e ben fatta, come aveva detto sottovoce suo padre, con una punta di rimpianto. I folti capelli neri non erano né lisci né ricci ma le si gonfiavano a corona sulla fronte bianca e spaziosa. Sopracciglia altrettanto folte e nere, e lustre. Murray scopri in seguito che le ungeva di vaselina, sfoltendole un po' nel mezzo per evitare che si congiungessero sopra il naso. La madre di Barbara era stata la colonna portante di una fattoria isolata in aperta campagna. Alla sua morte, la famiglia si era trasferita a Shawtown, un insediamento semirurale ai margini di Walley. Il padre di Barbara faceva lavoretti occasionali, mentre i due fratelli erano finiti nei guai per furti d'auto e violazioni di domicilio. Poi uno dei due era sparito. L'altro si era sposato con una ragazza molto decisa e pareva si fosse calmato. Era lui che adesso aveva preso il vizio di ciondolare per il magazzino, con la scusa di venire a trovare Barbara. — Non perdetelo d'occhio, — avverti Barbara, rivolgendosi agli altri impiegati. — È un cretino, ma a farsi restare roba attaccata alle dita non lo batte nessuno. Quando venne a saperlo, Murray fu colpito da una tale mancanza di solidarietà familiare. Come figlio unico, prediletto se non viziato, Murray si sentiva vincolato a una serie di obblighi, morali e affettivi. Ogni volta che rientrava dal college gli toccava fare il giro dei saluti ai dipendenti del magazzino, che perlopiú conosceva da quando era piccolo. Doveva sorridere e chiacchierare nelle strade di Walley, cordiale e affabile come un erede al trono. Il fratello di Barbara fu pinzato con un paio di calzini in tasca e una confezione di ganci da tende nell'altra. — Secondo te che cosa se ne faceva dei ganci? — chiese Murray a Barbara. Era ansioso di scherzarci sopra, per dimostrarle che la bravata del fratello non avrebbe avuto conseguenze su di lei. — E chi lo sa? — disse Barbara. — Magari avrebbe bisogno di un aiuto, qualcuno con cui parlare, — disse Murray. Aveva seguito un paio di corsi di sociologia, con la speranza, in passato, di diventare ministro della Chiesa Unita. — O magari di una corda al collo. Murray si innamorò di lei in quel momento, ammesso che non fosse già innamorato. Che ragazza, pensò. Un coraggioso giglio bianco e nero della Palude d'Irlanda: una Lorna Doone con la lingua piú sciolta e la schiena piú dritta. Alla mamma non piacerà, pensò. (E su quel punto decisamente non si sbagliava). Era piú felice di quanto non fosse stato dal giorno in cui aveva perso la fede. (Messa cosí però non gli piaceva. Era piú come se fosse entrato in una stanza chiusa o avesse aperto un cassetto per scoprire che la sua fede si era inaridita, trasformandosi in un mucchietto di polvere nell'angolo). Diceva sempre di aver deciso subito che voleva conquistare Barbara, ma non fece ricorso ad alcuna strategia, se si esclude un'adorazione manifesta. L'indole dell'adoratore era già emersa in lui dai tempi della scuola, insieme al suo buon carattere e alla tendenza ad allearsi coi perdenti. Era in compenso abbastanza robusto, in virtú di alcuni innegabili privilegi, da non dover subire serie ripercussioni. Quanto alle meno pesanti, era in grado di sostenerle. Barbara si rifiutò di sfilare su un carro da parata in rappresentanza dei commercianti locali nel concorso per l'elezione della reginetta del Canada Day. — Sono assolutamente d'accordo con te, — disse Murray. — I concorsi di bellezza sono umilianti.
— È per i fiori di carta, — disse Barbara. — Mi fanno starnutire.
Murray e Barbara adesso stanno al Villaggio vacanze Zeigler, circa venticinque miglia a nordovest di Walley. Una terra aspra, montuosa. I coltivatori l'abbandonarono all'inizio del secolo, lasciandola inselvatichire. Il padre di Murray ne acquistò duecento acri, ci costruí una prima baracca rustica e definí l'area riserva di caccia. Quando Murray perse il magazzino a Walley, insieme alla casa grande e alla piccola sul terreno retrostante, si trasferí qui con Barbara e i due bambini. Per guadagnare qualcosa si mise a guidare lo scuolabus mentre il resto del tempo lo passò a costruire altre otto casette e a ristrutturare quella esistente che doveva servire da portineria e da abitazione per la famiglia. Imparò a fare il falegname, il muratore, l'elettricista, l'idraulico. Abbatté alcuni alberi, arginò il corso d'acqua, ne ripulí il greto e vi scaricò dentro camion di sabbia per allestire una spiaggia e un laghetto artificiale. Per ovvie ragioni (come dice sempre), delle finanze si occupò Barbara. Murray ripete che la sua è una storia comune. Forse perfino degna dell'appellativo di un classico. - Il mio bisnonno ha avviato l'azienda. Mio nonno l'ha consolidata in tutta la sua gloria. Mio padre l'ha tenuta in piedi. E io l'ho mandata in malora. Non ha problemi a dirlo. Non che fermi apposta la gente per strada per raccontare subito tutta la storia. Gli ospiti sono abituati a vederlo sempre indaffarato. A riparare un moletto, pitturare una barca, caricare provviste, scavare fossati; ha un'aria cosí competente, instancabile, allegra, talmente impegnata in qualsiasi lavoro, che tutti lo scambiano per un contadino che abbia deciso di trasformarsi in gestore di un villaggio. Del contadino ha la pazienza, la cordialità discreta, il fisico forte e prestante sebbene non atletico, il viso abbronzato, il fare da ragazzo a dispetto dei capelli grigi. Ma capita che gli stessi ospiti tornino anno dopo anno e diventino amici che l'ultima sera ricevono l'invito a cenare con la famiglia. (Tra gli affezionati clienti, riuscire a stringere rapporti amichevoli con la maestosa Barbara è considerato un successo. Per alcuni è una battaglia persa). E a quel punto è possibile che sentano raccontare la storia. - Mio nonno saliva sul tetto del nostro stabilimento di Walley, - dice Murray. - Saliva sul tetto e buttava giú monete. Tutte le domeniche pomeriggio. Quarti di dollaro, decini, nickelini - cinquini, come si chiamavano allora. Attirava la folla. I primi abitanti di Walley erano gente grossolana. Di certo non istruita. Né raffinata. Credevano di costruire chissà quale metropoli. Poi però è successo qualcosa, continua. Sono arrivate le signore e i ministri della chiesa e il liceo. Fine dei saloon, e via con le feste in giardino. Il padre di Murray era un anziano della St Andrew; si presentò alle elezioni per il partito conservatore. - Strano, all'epoca si diceva «presentarsi», anziché candidarsi. Il magazzino era già un'istituzione. Per decenni rimase identico. I vecchi banchi per esporre la merce, con i cristalli bombati, e il tintinnio degli spiccioli che rotolavano negli appositi cilindri metallici. La città era tutta cosí, negli anni Cinquanta. Gli olmi non erano ancora morti. Avevano appena cominciato ad ammalarsi. D'estate la piazza si imbandierava di vecchi tendoni parasole. Quando Murray decise di rimodernare, non volle mezze misure. Era il 1965. Fece intonacare l'edificio a stucco e murare le finestre lasciando soltanto, ad altezza uomo, una serie di vetrinette lungo la via tanto sofisticate che pareva dovessero esibire i gioielli della corona. L'insegna Zeigler - il nome e nient'altro - diventò una scritta rosa al neon in corsivo sulla facciata. Eliminò i banconi alti, moquettò i pavimenti verniciati e fece installare molti punti luce indiretti e una grande quantità di specchi. Un enorme lucernario sopra la scala. (Lasciava filtrare la pioggia, bisognava sempre ripararlo; non durò nemmeno due inverni). Piante e vasche d'acqua interne e una specie di fontana nella toilette per signore. Pura follia. | << | < | > | >> |Pagina 155Foto del ghiaccioTre settimane prima di morire - era annegato in un incidente di barca su un lago di cui nessuno gli aveva mai sentito fare neanche il nome - Austin Cobbett si trovava a Logan nel magazzino di Confezioni Maschili Crawford dove, circondato da uno specchio a tre ante, rimirava se stesso in camicia amaranto di taglio sportivo e pantaloni scozzesi color panna, marrone e amaranto. Entrambi i capi non prevedevano stiratura. - Dia retta a me, - gli diceva Jerry Crawford. - Con camicia scura e pantaloni chiari non può sbagliare. È giovanile. Austin sghignazzò. - Ha mai sentito l'espressione «Di spalle liceo, di fronte museo»? - Esclusivamente riferita alle signore, - disse Jerry. - Comunque oggigiorno è tutto cambiato. Non esistono piú gli abiti per persone anziane, uomini o donne che siano. La moda si adatta a chiunque. Appena Austin si fosse abituato a vedersi con quella roba addosso, Jerry voleva convincerlo a prendersi anche un fazzoletto da collo abbinato e un pullover color panna. Austin aveva bisogno di mimetizzarsi al massimo. Da quando era morta sua moglie, circa un anno prima, e dacché alla Chiesa Unita avevano finalmente preso un ministro nuovo (Austin aveva settant'anni ed era ufficialmente in pensione, ma si era trattenuto in attesa che si concludessero i mercanteggiamenti sull'assunzione e lo stipendio del nuovo incaricato), aveva perso peso e massa muscolare, mentre assumeva la sagoma concava e panciuta di un vecchio. Aveva le vene del collo gonfie, il naso piú lungo e le guance cascanti. Era un vecchio galletto, scheletrico sí, ma ancora coriaceo, e in gamba quanto basta per un secondo matrimonio. - I pantaloni vanno ripresi un po', - disse Jerry. - Ce lo può dare ancora qualche giorno, no? Quando sarà il lieto evento? Austin doveva sposarsi alle Hawaii, dove abitava la moglie, la futura moglie, cioè. Disse una data, da li a un paio di settimane. Entrò Phil Stadelman della Toronto Dominion Bank e da dietro non riconobbe Austin, che pure era il suo ex pastore. Vestito cosí, non lo aveva mai visto. Phil parti con la solita freddura, senza che Jerry riuscisse a fermarlo. Sai perché a Terranova la gente va in giro con i preservativi sulle orecchie? Perché non vogliono sentir parlare di Aids. A quel punto Austin si è voltato e, anziché dire: «Beh, ragazzi, non so voi, ma io sull'Aids non trovo ci sia proprio niente da ridere», oppure, «Chissà che barzellette si raccontano, a Terranova, su noialtri della Huron County», commenta: - Questa sí che è buona -. E ride. Questa sí che è buona. E subito dopo chiede a Phil un parere sul suo abbigliamento.
- Secondo lei quando mi vedono arrivare alle Hawaii,
si fanno tutti una bella risata?
Karin l'ha saputo andando a prendersi un caffè al chiosco di ciambelle alla fine del turno pomeridiano di sorveglianza a un incrocio. Seduta su uno sgabello al banco, ha sentito degli uomini parlare a un tavolo dietro di lei. Si è voltata di scatto: - Ma sí, potevo dirvelo io, che è cambiato. Lo vedo tutti i giorni, potevo dirvelo io. Karin è un tipo alto, sottile, dalla pelle ruvida e la voce roca e lunghi capelli biondi con quattro dita di ricrescita scura alla radice. Se li vuol far crescere scuri e ormai potrebbe tagliarseli, ma non lo fa. Una volta era una spilungona bionda, timida, carina, che viaggiava sul sedile posteriore della motocicletta di suo marito. È diventata un po' stramba, ma non troppo, altrimenti non potrebbe fare sorveglianza agli incroci, nemmeno con la raccomandazione di Austin Cobbett. Si intromette nei discorsi degli altri. Sembra che da mettersi addosso abbia solo jeans e un vecchio montgomery blu scuro. Ha un'aria dura, sospettosa e non fa mistero del proprio rancore verso l'ex marito. Gli scrive con il dito sulla macchina: Cristiano un corno. Ipocrita leccaculo. Brent Duprey è uno squalo. Nessuno sa che ha anche scritto Lazzaro fa schifo perché è tornata indietro (sono cose che fa di notte) e l'ha cancellato con la manica. Perché? Le è sembrato pericoloso, roba da metterla nei guai - guai di un genere vagamente soprannaturale, piú che una chiacchierata con il capo della polizia - e poi lei non ha niente contro il Lazzaro della Bibbia, è con Casa Lazzaro che ce l'ha, il posto che Brent manda avanti e dove ora abita.
Karin è rimasta a vivere dove stava con Brent negli ultimi mesi - sopra la
ferramenta, sul retro, in uno stanzone
con un letto incassato nel muro (per il bambino) e l'angolo cottura. Passa molto
tempo da Austin, a pulirgli la casa, e a occuparsi di tutti i preparativi per il
suo viaggio alle Hawaii. Austin abita ancora nella vecchia canonica, in
Pondicherry Street. La chiesa ha costruito una residenza
nuova per il pastore in arrivo: è bella, con patio e garage a
due posti - oggi come oggi le mogli dei pastori spesso lavorano, il che aiuta
parecchio, se riescono a trovare un impiego come infermiere o maestre, ma a quel
punto ci vogliono due macchine. La vecchia canonica è un edificio in mattoni
bianco grigiastri con decori dipinti d'azzurro in veranda e
intorno agli abbaini. Avrebbe bisogno di parecchi lavori.
Occorrerebbe isolarla, ripulire i muri esterni con il getto
a sabbia, ridare il colore, cambiare gli infissi, ripiastrellare il bagno.
Mentre rincasa a piedi, la sera, Karin a volte
si tiene occupata la mente pensando che cosa farebbe lei
se la villa fosse sua e avesse i soldi.
Austin le mostra una foto di Sheila Brothers, la donna che deve sposare. In realtà nella foto sono in tre: Austin, sua moglie e Sheila Brothers, davanti a uno chalet e qualche pino. Un Ritiro dove ha — o meglio hanno — conosciuto Sheila. Austin indossa la camicia nera da pastore con il collare bianco: ha un'espressione sfuggente, con quel sorriso umile, da prete. Sua moglie guarda altrove, ma il grosso fiocco della sciarpa a fiori sventola sul collo di lui. Vaporosi capelli bianchi, figura snella. Chic. Sheila Brothers — signora Brothers, perché è vedova — guarda dritto davanti a sé ed è l'unica a sembrare davvero soddisfatta. I capelli chiari e corti le incorniciano il viso dandole un'aria da donna d'affari; indossa comodi pantaloni marroni, e un maglione bianco sotto il quale appaiono ben visibili le forme abbondanti di seno e pancia; affronta l'obiettivo a testa alta, senza preoccuparsi di come la immortalerà. — Sembra contenta, — dice Karin. — Beh, al tempo non sapeva ancora che mi avrebbe sposato.
Le mostra una cartolina del posto dove abita Sheila. Il
paese dove andrà a stare, alle Hawaii. E anche una foto
della casa. La via principale ha una fila di palme al centro, è costeggiata da
casette bianche o rosa, lampioni decorati con cesti traboccanti di fiori, il
tutto sotto un cielo turchese carico sul quale campeggia in lettere svolazzanti
come un nastro di seta il nome della località: un nome hawaiano, impossibile da
pronunciare come da memorizzare. Quel nome a galla nel cielo risulta non meno
credibile di tutto il resto che lo circonda. Quanto alla casa, non è
facile individuarla: è giusto un angolo di balcone tra il rosso e il rosa e il
giallo acceso di piante e cespugli in fiore.
Di fronte però c'è la spiaggia, la sabbia immacolata come
panna davanti a un mare di cristallo. Ecco, qui Austin passeggerà insieme alla
gentile Sheila. Sfido che gli occorreva un guardaroba nuovo.
Quello che Austin vuole da Karin è che sgomberi tutto. Compresi i suoi vecchi libri, la macchina da scrivere, le foto di sua moglie e dei figli. Il maschio sta a Denver, sua figlia a Montreal. Ha scritto a tutti e due, ci ha parlato al telefono, ha detto loro di prendersi pure tutto quel che vogliono. Il figlio ha chiesto i mobili della sala da pranzo; verrà a ritirarli un furgone la prossima settimana. La figlia ha detto che lei non vuole niente. (Secondo Karin ci ripenserà: alla fine la gente vuole sempre qualcosa). Tutti i mobili, libri, quadri, tende, tappeti, piatti e batterie da cucina finiranno alla Casa d'aste. Stessa sorte toccherà alla macchina di Austin, al tosaerba elettrico e allo spazzaneve che gli ha regalato il figlio a Natale dell'anno prima. La vendita avrà luogo dopo la partenza di Austin per le Hawaii e il ricavato andrà a Casa Lazzaro. L'ha fondata Austin quando era pastore. Solo che lui non l'aveva chiamata cosí; il nome allora era Casa del Buon Ritorno. Poi però si è deciso — Brent Duprey ha deciso — che era meglio trovare un nome piú religioso, piú cristiano. In un primo tempo, Austin intendeva consegnare direttamente la roba perché fosse utilizzata in Casa Lazzaro. Poi invece gli è parso piú rispettoso donare il corrispettivo in denaro da spendere come credevano, per comprare quel che volevano, anziché costringerli a usare il servizio di piatti di sua moglie e a sedersi sul suo divano di chintz. — E se quelli intascano i soldi e se li spendono in biglietti della lotteria? — gli domanda Karin. — Non crede che la tentazione possa essere forte? - Non si va lontano nella vita, senza tentazioni, - risponde Austin, col suo sorrisetto indisponente. - E se dovessero vincere, alla lotteria? - Brent Duprey è uno squalo. Brent Duprey ha preso in mano le redini di Casa Lazzaro, dopo che a fondarla era stato Austin. Una volta era un posto per gente che voleva smettere di bere o comunque cambiare vita; ora invece è una sorta di albergo della rinascita, con sessioni di preghiera, canti, gemiti e confessioni che possono durare anche tutta la notte. Ecco come ha fatto Brent a impossessarsene: diventando piú religioso di Austin. Austin ha aiutato Brent a chiudere con l'alcol; tanto ha fatto che è riuscito a tirarlo fuori dalla vita di prima per instradarlo in una nuova, grazie alla gestione della Casa con i fondi della Chiesa, dello Stato eccetera, solo che ha commesso un errore madornale, Austin, pensando di poter tenere a bada Brent. Perché una volta avviatosi sulla via della santità, Brent ha ingranato la quinta e si è lasciato indietro in un amen la cauta e moderata religiosità di Austin, allontanandolo dall'assemblea dei suoi stessi fedeli smaniosi di una dottrina piú feroce e severa. Austin è stato sollevato quasi contemporaneamente dall'incarico di pastore e dalla gestione della Casa, e Brent non ha avuto alcun problema a imporsi sul nuovo pastore. Ciononostante, o forse proprio per questo, Austin vuole lasciare i soldi a Casa Lazzaro. - Magari il sistema di Brent è piú vicino a Dio del mio, chi lo sa? - dice. Karin ormai spiattella a chiunque quello che pensa. A Austin, risponde: - Ma non mi faccia vomitare. Austin le raccomanda di tenere conto delle ore di lavoro, per poter essere pagata come è giusto e aggiunge di fargli sapere se c'è qualcosa che le interessa in modo particolare, cosí ne possono discutere. - Entro certi limiti, s'intende, - dice. - Suppongo che se mi dicessi che vuoi la macchina o il tosaerba, sarei costretto a dire di no, perché sarebbe come truffare quelli di Casa Lazzaro. Ma dell'aspirapolvere, che ne pensi? È cosí che la vede, quindi: come una persona che pensa solo a fare pulizia? E comunque, l'aspirapolvere è praticamente un pezzo d'antiquariato. - Scommetto che so che cosa ha detto Brent quando ha saputo che mi sarei occupata io di tutto. Scommetto che le ha chiesto se aveva preso un avvocato per tenermi d'occhio. È andata cosí, dico bene? Anziché risponderle, Austin commenta: - Perché dovrei fidarmi piú di un avvocato che di te? - Gli ha detto cosí? - Lo sto dicendo adesso. Uno o si fida o non si fida, secondo me. Se si decide di avere fiducia, bisogna farlo e basta.
Austin nomina Dio raramente. Tuttavia, ai margini di
frasi come questa si sente aleggiare il suo nome inespresso
e la cosa mette cosí a disagio - a Karin per esempio vengono i brividi lungo la
spina dorsale - che uno preferirebbe lo dicesse chiaro e la facesse finita.
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