Copertina
Autore Alice Munro
Titolo Chi ti credi di essere?
EdizioneEinaudi, Torino, 2012, Supercoralli , pag. 272, cop.ril.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-06-18353-0
OriginaleWho Do You Think You Are? [1977]
TraduttoreSusanna Basso
LettoreCristina Lupo, 2012
Classe narrativa canadese
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Indice


  3   Botte da re

 31   Privilegio

 51   Mezzo pompelmo

 72   Cigni selvatici

 85   La Mendicante

127   Un'avventura

172   Provvidenza

197   La fortuna di Simon

225   Lettera per lettera

244   Chi ti credi di essere?


 

 

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Pagina 3

Botte da re


Botte da re. La promessa arrivava da Flo. Adesso te le prendi, e saranno botte da re.

Indugiando sulla lingua di Flo, l'espressione si caricava di decorative gualdrappe. Rose aveva un bisogno di immaginare le cose, di pedinare assurdità, che superava anche quello di tenersi lontano dai guai, perciò, invece di prendere la minaccia sul serio, si perdeva a rimuginare: ma come saranno le botte da re? Si inventò un viale alberato, una folla di spettatori eleganti, dei cavalli bianchi, degli schiavi neri. Qualcuno si inginocchiava e il sangue schizzava copioso come stendardi al vento. Una cerimonia selvaggia e stupenda. Nella vita vera neanche si avvicinavano a tanto splendore; c'era giusto Flo che tentava di conferire all'evento un'aria di rincresciuta ineluttabilità. Rose e suo padre invece varcavano subito la soglia del presentabile.

Era suo padre il re delle botte da re. Quelle che passava Flo non arrivavano mai a tanto; erano lesti ceffoni o sberle rifilate con l'attenzione sempre rivolta altrove. Levati dai piedi, diceva. Fatti gli affari tuoi. Togliti quell'espressione dalla faccia.

Abitavano in un retrobottega ad Hanratty, nell'Ontario. Erano in quattro: Rose, suo padre, Flo, e Brian, il fratellastro minore di Rose. Il negozio in realtà era una casa, acquistata dai genitori di Rose ai tempi del loro matrimonio, quando avevano avviato l'attività di tappezzieri e restauratori di mobili. Sua madre era brava a tappezzare. Rose avrebbe dovuto ereditare da entrambi le mani d'oro, un innato gusto per i tessuti e un occhio acuto e pratico nelle riparazioni, ma così non era andata. Era maldestra e se si rompeva qualcosa non vedeva l'ora di spazzare i cocci e buttare via tutto.

Sua madre era morta. Quel pomeriggio aveva detto al padre di Rose: — Non so se riesco a spiegare come mi sento. Θ come se avessi un uovo sodo nel petto, con il guscio e tutto —. Prima di sera era morta: aveva un grumo di sangue in un polmone. Al tempo Rose era una neonata in culla, perciò di tutto questo non ricordava niente. L'aveva sentito raccontare da Flo, che a sua volta doveva averlo sentito da suo padre. Flo era comparsa di lí a poco, a tirar su lei dalla culla, sposare il padre e trasformare il tinello in un negozio di alimentari. Per Rose, la casa era sempre stata cosí e Flo era da sempre sua madre, quindi immaginava i circa sedici mesi che i suoi genitori avevano passato insieme come un tempo armonioso, di gran lunga piú educato e pacifico, con piccoli tocchi di abbondanza. Non aveva granché a cui rifarsi, tranne certi portauovo comprati dalla madre, con un delicato decoro di uccelli e foglie di vite, e disegnati con una specie d'inchiostro rosso che, peraltro, cominciava a sbiadire. Non restavano libri né vestiti né foto di sua madre. Il padre doveva aver eliminato tutto quanto, o forse era stata Flo. L'unico racconto su sua madre, quello del modo in cui era morta, stranamente suonava come una concessione fatta contro voglia. A Flo piacevano i particolari delle morti: le cose che la gente diceva, il modo in cui si ribellava, cercava di scendere dal letto, imprecava o rideva (succede qualche volta); eppure, quando ricordava l'episodio dell'uovo sodo, lo faceva sembrare un po' cretino, come se sua madre fosse il tipo di persona che davvero crede sia possibile ingoiare un uovo intero.

Suo padre aveva un capanno dietro il negozio dove andava ad aggiustare e restaurare i mobili. Impagliava sedili e schienali di sedie, riparava arredi in vimini, stuccava crepe, montava gambe rotte; il tutto con perfetta maestria, e a prezzi contenuti. Era il suo vanto: strabiliare la clientela con lavori ben fatti a costi bassi, per non dire ridicoli. Magari durante la Grande Crisi nessuno poteva permettersi di pagare di piú, ma lui continuò quella pratica anche durante la guerra, e negli anni di prosperità che la seguirono, fino a quando morí. Con Flo non discuteva mai di quanto si faceva pagare o di quanto gli era dovuto. Alla sua morte, Flo dovette aprire la porta chiusa a chiave del capanno e tirare giú dai micidiali ganci dove lui teneva appeso il suo archivio tutti i vari foglietti e le buste stropicciate. Molte delle cose che trovò non erano affatto conti o ricevute, ma bollettini sul clima, informazioni sparse sull'orto, pensieri che aveva avuto voglia di annotare.

Mangiato prime patate novelle 25 giugno. Un record.

Giorno di Buio del 1780, niente di sovrannaturale. Nuvole di cenere da foreste in fiamme.

16 agosto 1938. Tremendo tempor. verso sera. Fulmine colp. Chiesa presb. di Turberry Twp. Volontà di Dio?

Scottare fragole per eliminare acidità.

Tutte le cose sono vive. Spinoza.


Flo pensò che Spinoza fosse un ortaggio nuovo che il marito voleva coltivare, tipo broccoli o melanzane. Capitava spesso che volesse sperimentare. Mostrò il foglietto a Rose e le chiese se sapeva che cosa era una spinoza? Rose lo sapeva, almeno a grandi linee — al tempo era già ragazza —, ma negò. Aveva raggiunto un'età in cui le sembrava di non voler conoscere meglio né il padre, né Flo; ogni nuova scoperta veniva scartata con imbarazzo e orrore.

C'era una stufa nel capanno e molti scaffali nudi, ingombri di latte di pittura e vernice, gommalacca e trementina, barattoli coi pennelli a bagno e un certo numero di flaconi scuri e appiccicosi di sciroppo per la tosse. Cosa poteva spingere un uomo che tossiva in continuazione, perché si era aspirato una boccata di gas durante la guerra (quella che, nella prima infanzia di Rose, veniva definita non già la Prima Guerra, bensí l'Ultima), a passare le giornate respirando i vapori di vernici e solvente? Allora certe domande si facevano meno di oggi. Sulla panca fuori del negozio di Flo, nella bella stagione, venivano a sedersi parecchi anziani della zona, per chiacchierare o appisolarsi, e anche tra loro c'era qualcuno che tossiva di continuo. Il fatto è che, piano piano e senza troppo scalpore, morivano di quello che allora veniva definito in tono relativamente neutro «mal di fabbrica». Avevano lavorato una vita alla fonderia in paese e ora se ne stavano lí seduti con le loro facce itteriche e sciupate, a tossire e sghignazzare, tra insulse oscenità sulle passanti o sulle ragazze in bicicletta.

Dal capanno non usciva solo il suono della tosse, ma anche una voce, un parlottio continuo ora severo, ora incoraggiante, di solito appena troppo basso per poter distinguere le parole. Piú lento, quando suo padre era concentrato su un lavoro difficile, e piú allegro e spedito quando faceva qualcosa di poco impegnativo, come dipingere o scartavetrare. Ogni tanto qualche parola si liberava e restava cosí, chiara e insulsa, a mezz'aria. Se si rendeva conto che loro erano fuori, lui dava un rapido colpo di tosse di copertura, seguito da un trangugio e da un silenzio vigile, innaturale.

«Maccheroni, salamini, Botticelli, fagiolini...»

Che cosa poteva voler dire? Rose ripeteva spesso quelle cose tra sé e sé. Non ebbe mai il coraggio di chiederglielo. La persona che pronunciava tali parole e quella che si rivolgeva a lei in veste di padre non erano la stessa, anche se apparentemente occupavano il medesimo spazio. Sarebbe stato di pessimo gusto dar retta a qualcuno che non doveva esserci affatto; sarebbe stato imperdonabile. Ciononostante, si tratteneva nei paraggi e ascoltava.

Una volta gli sentí dire: le torri incappucciate di nubi. «Le torri incappucciate di nubi, i palazzi sfarzosi».

Per Rose fu come se qualcuno le assestasse una manata sul petto, non per farle male, ma per strabiliarla, per toglierle il fiato. Dovette proprio mettersi a correre quella volta, fu costretta a scappare. Sapeva di aver già sentito abbastanza, e poi, se l'avesse sorpresa? Sarebbe stato terribile.

Era un po' come con i rumori in bagno. Flo aveva messo da parte dei soldi per far installare il bagno, ma l'unico vano disponibile per costruirlo era un angolo della cucina. La porta non si chiudeva, le pareti erano di truciolato. Perciò perfino strappare un foglio di carta igienica e cambiare appoggio sull'asse produceva rumori che non sfuggivano a chi intanto, in cucina, lavorava, mangiava o chiacchierava. Si conoscevano bene, anche nelle manifestazioni sonore piú private, non solo quelle dei momenti di furia esplosiva, ma anche nei singhiozzi, i gemiti, le suppliche e le dichiarazioni intime. Ed erano tutti quanti gente assai pudica. Perciò fingevano di non sentire, di non prestare ascolto, e nessuno faceva mai commenti. La persona che produceva i rumori nel gabinetto non aveva niente a che fare con quella che ne usciva.

Abitavano in una zona povera del paese. C'erano Hanratty centro e West Hanratty, con il fiume che scorreva in mezzo. Loro stavano a West Hanratty. La piramide sociale di Hanratty centro vedeva al vertice medici, dentisti e avvocati, per scendere fino a manovali, operai della fonderia e birocciai; quella di West Hanratty, invece, partiva dagli operai e dai manovali per arrivare fino a miserabili famiglie numerose di contrabbandieri occasionali, prostitute, e ladri falliti. Rose pensava alla propria famiglia come a una comunità a cavallo del fiume, senza un preciso luogo di appartenenza, ma non era cosí. Stavano a West Hanratty perché lí era il negozio, e pure loro: all'estrema propaggine dello stradone. Di fronte, c'era la bottega di un fabbro con le assi inchiodate ai vetri sin dall'inizio della guerra, e un edificio che a suo tempo aveva ospitato un altro negozio. L'insegna «Salada Tea» non era mai stata tolta dalla vetrina; restava a far bella mostra di sé, sebbene da un pezzo non vendessero piú tè di nessuna marca là dentro. Rimaneva giusto un pezzetto di marciapiedi, troppo inclinato e sconnesso per poterci schettinare sopra, anche se Rose desiderava tanto un paio di pattini a rotelle e spesso immaginava di sfrecciare agile nei paraggi in un'elegante gonnellina scozzese. C'era un unico lampione, un fiore di latta; dopodiché gli arredi urbani finivano e restavano giusto strade sterrate e pantani, discariche nei cortili e case bislacche. A renderle tali erano gli sforzi messi in atto per cercare di prevenirne la rovina completa. Nei casi in cui non si era neanche fatto quel tentativo, gli edifici risultavano grigi, diroccati e sbilenchi, quasi risucchiati dentro un paesaggio di fossi colmi di sterpaglie, stagni abitati da rane, distese di stiance e di ortiche. Ma perlopiú le case mostravano rattoppi di carta catramata, qualche assicella nuova, tubi della stufa spianati col martello, fogli di lamiera, cartone, addirittura. Tutto ciò accadeva, naturalmente, nei giorni prima della guerra, tempi di quella che sarebbe poi diventata una miseria leggendaria, e di cui Rose avrebbe conservato ricordi in gran parte deprimenti: formicai minacciosi, scalini di legno, e il mondo immerso in una luce torbida, difficile e interessante.

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Pagina 34

Piccoli e grandi, maschi e femmine indifferentemente (tranne, s'intende, la maestra che nell'intervallo si chiudeva in classe e rimaneva a scuola, trattenendosi fino al ritorno a casa come Rose e, come lei, rischiando l'incidente e sopportando il supplizio), tutti si radunarono a guardare nell'anticamera del gabinetto dei maschi, quando si sparse la voce che Shortie McGill si stava scopando Franny McGill.

Fratello e sorella.

Parenti che davano spettacolo.

Quella era l'espressione che utilizzava Flo: «dare spettacolo». In campagna, tra le cascine sperdute di collina dove era nata lei, secondo Flo la gente era diventata mezza matta; c'era chi si mangiava il fieno bollito e chi dava spettacolo coi parenti stretti. Prima di avere chiaro che cosa intendesse Flo, Rose immaginava un palcoscenico improvvisato, quattro assi traballanti in un vecchio granaio, sul quale i membri di una famiglia si mettevano a recitare e a cantare canzoncine idiote. «Che spettacolo!», diceva Flo disgustata, soffiando fuori il fumo; non si riferiva a un episodio particolare, ma all'atto in genere, presente passato e futuro, su tutta la faccia della terra. Le distrazioni degli altri, come le loro esibizioni, non smettevano mai di sorprenderla.

Di chi era stata l'idea, nel caso di Franny e Shortie? Probabilmente qualcuno tra i maschi piú grossi aveva scommesso con Shortie, o forse lui si era vantato e allora l'avevano sfidato. Una cosa era certa: l'idea non poteva essere stata di Franny. Dovevano averla incastrata per farglielo fare, averla presa in trappola. In realtà di vera e propria trappola non si poteva parlare, perché lei neanche scappava, non credeva fino in fondo nella fuga. In compenso, non sembrava consenziente; la si doveva trascinare a forza e poi tenerla giù dove si voleva che stesse. Si rendeva conto di cosa le sarebbe toccato? Se non altro, sapeva che niente di quello che gli altri decidevano per lei le sarebbe piaciuto.

Franny McGill era stata scaraventata contro un muro dal padre ubriaco, quando era appena nata. Questa era la versione di Flo. Secondo un'altra, invece, era lei che, ubriaca, era caduta da una slitta per il calcio di un cavallo. In ogni caso, si era distrutta. Il peggio era toccato alla faccia. Aveva il naso storto e questo faceva di ogni suo respiro un lugubre rantolo prolungato. I denti le si erano accalcati tutti insieme, perciò non riusciva a chiudere la bocca né a trattenere l'eccesso di saliva. Era bianca, ossuta, tremebonda e instabile come una vecchia. Abbandonata a se stessa in seconda o terza elementare, sapeva grossomodo leggere e scrivere, ma ben di rado le chiedevano di farlo. Può darsi che non fosse poi cosí stupida come tutti pensavano, ma solo inebetita, confusa dalle continue aggressioni. E nonostante tutto questo, conservava un avanzo di speranza. Si accodava a chiunque non l'aggredisse o insultasse subito, regalava mozziconi di matita e grumi di gomma masticata che staccava da sotto i banchi e le sedie. Bisognava evitarla con determinatezza, squadrarla con cipiglio minaccioso appena il suo sguardo incrociava il tuo.

Vattene, Franny. Vattene se non vuoi un pugno. Giuro che te lo do. Guarda che non scherzo.

L'uso che Shortie, come gli altri, faceva di lei sarebbe proseguito. Sarebbe rimasta incinta, l'avrebbero portata via, poi riportata indietro solo per restare incinta, lasciarsi portare via, tornare a casa, rimanere incinta e lasciarsi portare via di nuovo. Si sarebbe parlato di farla sterilizzare, chiedendo al Lions Club di accollarsi le spese; si sarebbe parlato di farla internare, ma lei risolse il problema morendo di polmonite all'improvviso. In seguito, Rose avrebbe pensato a Franny quando in un libro o in un film le capitava di imbattersi nel personaggio di una prostituta santa e idiota. Gli uomini che producevano libri e film sembravano amare molto quella figura, anche se poi Rose si era accorta che tendevano a ripulirla. Imbrogliavano, secondo lei, perché tacevano la parte del rantolo, della bava e dei denti; si rifiutavano di considerare l'effetto afrodisiaco della ripugnanza, nell'ansia di soddisfare se stessi con l'idea di una vacuità rassicurante, di un'accoglienza senza l'ombra di riserve.

L'accoglienza che Franny riservò a Shortie non fu poi cosí beata, invece. Emetteva ululati che la sua difficoltà respiratoria rendeva incerti e catarrosi. Continuava a irrigidire una gamba. I casi erano due: o le si era sfilata la scarpa, o non le aveva mai avute. La sua gamba era lí, bianca, con il piede nudo, le dita sporche di fango: uno spettacolo troppo energico, normale e dignitoso per far capo a Franny McGill. Fu tutto ciò che di lei Rose riuscí a vedere. Era bassa e la folla l'aveva risospinta indietro. Intorno ai due stavano i ragazzi grandi che urlavano, incitando; e dietro le ragazze, a ridacchiare. Rose era curiosa, ma non scandalizzata. Dare spettacolo con Franny non aveva alcun significato universale, non somigliava a quel che sarebbe potuto succedere alle altre. Era soltanto l'ennesimo abuso.

Negli anni a venire, quando Rose raccontava alla gente queste cose suscitava immancabilmente molto scalpore. Doveva giurare che era vero, che non stava esagerando. Era tutto vero infatti, solo che l'effetto era distorto. I suoi giorni di scuola parevano tremendi: chissà quanto era stata infelice. E invece no. Le avevano insegnato molto. Come affrontare le grandi lotte che due o tre volte l'anno sconvolgevano la scuola. Per indole, tendeva alla neutralità, ed era un brutto errore, perché rischiavi di ritrovarti contro entrambe le fazioni. La cosa migliore era allearsi con chi abitava nella tua zona, in modo da evitare eccessivi pericoli tornando a casa. Rose non sapeva mai bene quale fosse l'oggetto del contendere e le difettava l'istinto della lotta di cui non capiva fino in fondo la necessità. Si faceva sempre cogliere alla sprovvista da una palla di neve, un sasso, un colpo battuto su un asse di legno alle sue spalle. Sapeva che nel mondo della scuola, non avrebbe fatto mai progressi, che non si sarebbe mai guadagnata una posizione inattaccabile — ammesso che esistesse. Ma non era infelice, se si esclude il problema di non poter andare in bagno. Imparare a sopravvivere, non importa a costo di quante precauzioni e vigliaccherie, di quali paure e brutti presentimenti, non è la stessa cosa che essere infelici. Θ troppo interessante.

Imparò a schivare Franny. Imparò a non avvicinarsi mai al seminterrato della scuola, quello che aveva tutte le vetrate rotte ed era buio e umido come una grotta; a evitare l'andito scuro sotto le scale e i passaggi tra le cataste di legna; a non attirare in nessun modo l'attenzione dei ragazzi grandi che a lei sembravano cani randagi, altrettanto svelti e scattanti, imprevedibili e smaniosi di attaccare.

Un errore che commise in principio e non avrebbe piú commesso dopo fu di dire a Flo la verità anziché inventarsi una bugia quando un ragazzo grande, uno dei fratelli Morey, le fece lo sgambetto sulle scale antincendio e l'afferrò strappandole la manica dell'impermeabile al giro della spalla. Flo si presentò a scuola per scatenare un putiferio (sua intenzione dichiarata), ma ci furono testimoni disposti a giurare che Rose si era impigliata in un chiodo. L'insegnante si mostrò ostile, rifiutò di prendere posizione e fece capire che la visita di Flo non era gradita. Gli adulti non venivano a scuola, a West Hanratty. Le madri erano immancabilmente molto di parte, nelle liti; si sporgevano dai cancelli strepitando; alcune scendevano perfino in strada a prendersi per i capelli e a lanciarsi ciottoli. Dicevano ogni male della maestra alle sue spalle e spedivano le figlie a scuola dicendo loro di non lasciarsi insultare da quella. Ma non si sarebbero mai comportate come Flo, mai avrebbero messo piede nei confini dell'istituto, né portato una protesta a simili livelli.

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Pagina 59

Rose portava a casa una pila di libri ogni sera. Latino, algebra, storia antica e medievale, francese, geografia. Il mercante di Venezia, Racconto di due città, Liriche brevi, Macbeth. Flo riservava loro l'ostilità che nutriva per tutti i libri. Un astio che sembrava aumentare con il peso e il volume del testo, il tetro grigiore della rilegatura e la lunghezza e difficoltà delle parole che componevano il titolo. Liriche brevi la indignò perché lo apri a caso e trovò una poesia lunga cinque pagine.

I titoli, li faceva a pezzi. Secondo Rose lo faceva apposta a storpiarli. Il Carme diventava Carne e trasformava le sibilanti del nome di Ulisse in fricative come se l'eroe fosse ubriaco.

Il padre di Rose doveva scendere per andare in bagno. Si teneva forte al mancorrente e veniva giú piano piano, ma senza fermarsi. Indossava una vestaglia di lana marrone con la cintura a nappe. Rose evitava di guardarlo in faccia. Non tanto per gli eventuali cambiamenti prodotti dalla malattia, ma per paura di leggergli negli occhi un commento severo su di lei. Era per lui che portava quei libri, per farsi bella. E lui li osservava in effetti, non c'era libro al mondo cui potesse passare accanto senza prenderlo in mano e leggerne il titolo. Poi però si limitava a sentenziare:

«Sta' attenta. Guarda che diventare troppo intelligenti può fare male».

Rose era convinta che lo dicesse per compiacere Flo, in caso li stesse ascoltando. In quel momento lei era in negozio. Ma Rose pensava che non importasse, tanto avrebbe comunque parlato come se lei fosse in ascolto. Ci teneva moltissimo a compiacerla, ad anticiparne le obiezioni. Aveva fatto la sua scelta, evidentemente. Flo rappresentava la sicurezza.

Rose non replicava mai. Quando il padre parlava, automaticamente abbassava la testa e stringeva le labbra in un'espressione indecifrabile, seppure attenta a non apparire irrispettosa. Si muoveva con circospezione. Eppure non riusciva a nascondergli il proprio bisogno di gloria, le proprie grandi speranze, le sfacciate ambizioni. Lui le conosceva benissimo e Rose si vergognava anche solo di trovarsi in una stanza in sua presenza. Aveva la sensazione di disonorarlo, di averlo in qualche modo disonorato sin dal giorno della sua nascita, e di avere in serbo per lui solo peggiori infamie in futuro. Ciononostante, non si pentiva. Consapevole della propria ostinazione, non intendeva cambiare.

Per suo padre Flo incarnava l'ideale di donna. Rose lo sapeva anche perché lui non mancava di ripeterlo. La donna doveva essere energica, efficiente, in gamba a fare e a risparmiare; doveva essere furba, abile nel contrattare, imperiosa e capace di smascherare le altrui falsità. Al tempo stesso, doveva mostrarsi intellettualmente ingenua, puerile, nemica di carte geografiche, paroloni difficili e di tutto quello che c'è nei libri, piena di belle idee confuse, superstizioni, credenze popolari.

— Le donne hanno la testa fatta diversa, — disse a Rose in un periodo calmo, quasi disteso, quando lei era un po' piú giovane. Forse scordava che anche Rose era, o sarebbe stata, una donna. — Loro credono quel che hanno voglia di credere. Non ci si può stare dietro —. Si riferiva alla convinzione di Flo in base alla quale tenere le galosce in casa, a lungo andare, portava alla cecità. — In compenso sanno come trattare la vita in un modo o nell'altro; è proprio un talento, non c'entra la testa, son meglio degli uomini in quello.

Perciò una parte della vergogna di Rose dipendeva dall'essere femmina ma per sbaglio, dal non essere destinata a diventare una donna come si deve. Ma c'era dell'altro. Il vero problema era avere in sé e assecondare tutte le caratteristiche di suo padre da lui giudicate peggiori. Tutto ciò che lui era riuscito a mortificare e a sopire in se stesso, riaffiorava in lei che non manifestava invece alcuna volontà di combatterlo. Rose sognava a occhi aperti, fantasticava, era frivola e smaniosa di apparire; viveva di soli pensieri. Non aveva invece ereditato la virtú della quale andava fiero e sulla quale faceva affidamento: la manualità, la precisione e l'accuratezza che metteva in qualsiasi lavoro; lei, al contrario, era tremendamente maldestra, precipitosa, pronta a tirar via. Vederla schizzare ovunque con le mani nell'acqua dei piatti e la testa a mille chilometri di distanza, con quel sederone già piú grosso di quello di Flo e i capelli incolti come un cespuglio; constatare l'esistenza della sua massa fisica pigra e svagata pareva riempirlo di irritazione e tristezza, se non di repulsione.

Tutte cose che Rose sapeva. Restava immobile ad aspettare che suo padre finisse di attraversare la stanza, guardando se stessa con gli occhi di lui. Poteva odiare anche lei lo spazio che stava occupando. Ma l'attimo in cui lui spariva, si riprendeva. Tornava a vagare nei propri pensieri o allo specchio davanti al quale sostava a lungo negli ultimi tempi, per ammucchiarsi i capelli a nuvola sulla testa, o voltarsi di tre quarti per controllare la linea del busto, o tirarsi la pelle per vedere come sarebbe stata con gli occhi appena un po', maliziosamente, a mandorla.

Del resto sapeva bene che il padre nutriva anche tutta un'altra serie di sentimenti per lei. Era fiero non meno di quanto provasse quell'ansia irritata pressoché incontrollabile nei suoi riguardi; la verità, l'unica verità, era che non l'avrebbe voluta diversa, che la desiderava proprio cosí. Una parte di lui perlomeno. Ovviamente doveva continuare a negarlo. Per modestia, doveva, e per aberrazione. Per aberrante modestia. E doveva anche mostrarsi discretamente d'accordo con Flo.

Rose non pensava compiutamente queste cose, né avrebbe voluto. Il modo in cui le loro corde profonde vibravano insieme metteva a disagio lei quanto lui.

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Pagina 85

La Mendicante


Patrick Blatchford si era innamorato di Rose. Per lui era diventata un'idea fissa, quasi un'ossessione. Per lei, una sorpresa continua. Voleva sposarla. La aspettava alla fine delle lezioni e le si affiancava, cosí chiunque stesse parlando con lei era costretto a prendere atto della sua presenza. Quando Rose era attorniata da amiche e compagne di classe, lui non parlava, ma cercava di attirare il suo sguardo per comunicarle con un'espressione di fredda incredulità quel che pensava dei loro discorsi. Rose, seppure lusingata, si innervosiva. A una ragazza di nome Nancy Falls, sua amica, capitò di sbagliare la pronuncia di Metternich di fronte a Patrick. Piú tardi lui le disse: — Ma come fai a essere amica di gente del genere?

Nancy e Rose erano andate insieme a vendere il sangue al Victoria Hospital. Avevano ricavato quindici dollari a testa. Se li spesero quasi tutti in un paio di scarpe da sera: dei sandali d'argento molto pacchiani. Poi, sicure che il prelievo di sangue le avesse fatte calare di peso, si concessero un affogato al caramello da Boomers. Perché allora Rose non era in grado di difendere Nancy con Patrick?

Patrick era un dottorando ventiquattrenne, destinato a diventare insegnante di storia. Era alto, biondo, sottile e bello, nonostante il lungo angioma rosso pallido che gli colava come una lacrima dalla tempia alla guancia. Se ne scusava, dichiarando che col tempo comunque era già sbiadito. A quarant'anni sarebbe stato solo un ricordo. Ma non era l'angioma a eclissare la sua bellezza fisica, secondo Rose. (Qualcosa in effetti la eclissava, o almeno la intaccava ai suoi occhi; doveva fare mente locale di continuo per ricordarsela). C'era in lui qualcosa di inafferrabile, sconcertante, nervoso. Sotto stress, gli andava in falsetto la voce — con lei, poi, sembrava perennemente sotto stress —, rovesciava tazze e piatti dai tavoli, versava bibite e ciotole di noccioline, come un attore comico. Ma non lo era, niente poteva essere piú lontano dalle sue intenzioni. Veniva dal British Columbia. I suoi erano ricchi.

Quando andavano al cinema, si presentava a prendere Rose con largo anticipo. Non bussava mai, sapeva che era presto: si sedeva sul gradino di casa Henshawe e aspettava. Succedeva d'inverno, fuori era buio, ma c'era una lanterna accanto alla porta.

«Oh, Rose! Vieni a vedere!», esclamava divertita la professoressa Henshawe con la sua voce sottile, e insieme guardavano dalla finestra buia dello studio. «Povero giovane», commentava affettuosamente. La Henshawe aveva piú di settant'anni. Era una ex docente di letteratura, vivace e meticolosa. Camminava zoppicando, ma aveva ancora un portamento giovanile, con la bella testa piegata di lato e le trecce bianche raccolte a incorniciarla.

Definiva «povero» Patrick in quanto innamorato e forse anche in quanto maschio, condannato a provarci e insistere. Perfino di lassú dava l'idea di essere testardo e patetico, deciso e succube, seduto cosí, fuori al freddo.

«Fa la guardia alla porta, — diceva la Henshawe. — Oh, Rose!»

E in un'altra occasione se ne usci con l'infelice battuta: — Oh, povero, ho paura che abbia perso la testa per la donna sbagliata.

A Rose la cosa non piacque. Non gradiva sentirla ridere di Patrick. Non gradiva nemmeno Patrick seduto in quel modo sui gradini di casa, del resto. Se lo andava proprio a cercare, lo scherno. Era la persona piú vulnerabile che Rose avesse mai conosciuto, e si riduceva cosí con le sue mani, non aveva la minima idea di come difendersi. In compenso, era pieno di pregiudizi crudeli, carico di disprezzo.


«Rose, tu che sei un'intellettuale, — le diceva la Henshawe. — Senti, questo dovrebbe interessarti». E le leggeva qualche riga di un giornale o, piú spesso, da pubblicazioni tipo il «Canadian Forum» o 1'«Atlantic Monthly». La professoressa Henshawe era stata a capo del comitato scolastico comunale, nonché socia fondatrice del partito socialista canadese. Partecipava tuttora alle riunioni, scriveva lettere al giornale, recensiva libri. I suoi genitori erano stati medici missionari e lei era nata in Cina. Casa sua era piccola e impeccabile. Pavimenti lustri, tappeti immacolati, vasi cinesi, ciotole e paesaggi, paraventi neri intarsiati. Tutte cose che al tempo Rose non sapeva ancora apprezzare. Non avrebbe saputo distinguere gli animaletti di giada sulla mensola della Henshawe dai soprammobili esposti nella vetrina del gioielliere di Hanratty, benché già vedesse la differenza tra questi e gli oggetti che Flo comprava al bazar.

Non riusciva a capire se abitare dalla professoressa Henshawe le piacesse o no. A volte la avviliva, starsene seduta a tavola in sala da pranzo, con un tovagliolo di lino sulle ginocchia, a mangiare da piatti di porcellana bianca su tovagliette azzurre. Prima di tutto, non c'era mai abbastanza da mangiare, tanto che aveva preso l'abitudine di comperarsi ciambelle e tavolette di cioccolata da nascondere in camera sua. Il canarino si dondolava sul piccolo trespolo appeso alla finestra della sala, mentre la Henshawe pilotava i discorsi. Parlava di politica, di scrittori. Nominava Frank Scott, Dorothy Livesay. Suggeriva a Rose di leggerli. Devi leggere questo, devi leggere quello. Con il risultato che Rose decise tacitamente di non farlo mai. In quel periodo, leggeva Thomas Mann, Tolstoj.

Prima di trasferirsi in casa Henshawe, Rose non aveva mai sentito parlare della classe operaia. Si portò a casa la nuova espressione.

— Questa deve essere stata l'ultima zona del paese dove hanno messo le fognature, — disse Flo.

— Per forza, — ribatté Rose, disinvolta. — Qui, ci abita la classe operaia.

— E me la chiami operaia? — disse Flo. — Ma se appena possono, questi non fanno niente.

Vivere dalla Henshawe in realtà aveva sortito un effetto: quello di demolire l'ovvia naturalezza di casa sua. Tornarci ora significava letteralmente fare un bagno di luce cruda. Flo aveva fatto installare in negozio e in cucina le luci al fluoro. In un angolo della cucina c'era anche una lampada a stelo che Flo aveva vinto alla tombola, con il paralume eternamente fasciato in larghi nastri di cellophane. Secondo Rose quelle due case avevano il dono di screditarsi a vicenda. Nelle belle stanze della Henshawe aleggiava sempre, per Rose, la dolorosa consapevolezza di casa, una specie di groppo in gola indigesto; e a casa, ormai, il senso di armonia e ordine sviluppato altrove metteva in risalto la malinconia di una miseria imbarazzante, in mezzo a persone che peraltro non si erano mai considerate povere. La miseria, sembrava pensare la professoressa, non si riduceva a una serie di privazioni e bisogni. Significava anche farsi mettere in casa quei brutti tubi al neon, e per giunta vantarsene. Significava parlare perennemente di soldi e sparlare degli acquisti altrui sospettando che non fossero stati regolarmente pagati. Significava infiammarsi in un moto di geloso orgoglio per una qualsiasi novità, tipo le tende di plastica traforate imitazione pizzo che Flo aveva preso per la finestra del soggiorno. Come pure appendere gli abiti ai chiodi dietro le porte, e riuscire a distinguere ogni rumore proveniente dal bagno. Miseria significava tempestare le pareti di motti, salmi, battute e volgarità.

    IL SIGNORE Ι IL MIO PASTORE

    CHI CREDE NEL SIGNORE GESΩ CRISTO SARΐ SALVATO

Come mai una come Flo, senza neanche essere religiosa, si metteva quella roba in casa? Perché si usava cosí, era normale, come appendere un calendario.

    NELLA MIA CUCINA COMANDO IO

    CORICARSI IN PIΩ DI DUE NELLO STESSO LETTO Ι PERICOLOSO E PURE ILLEGALE

L'ultima gliel'aveva regalata Billy Pope. Che ne avrebbe detto Patrick? Che cosa poteva pensare delle battute di Billy Pope uno che si indignava con chi non sapeva la pronuncia esatta di Metternich?

Billy Pope lavorava nella macelleria di Tyde. Il suo argomento preferito di recente era il profugo belga assunto in negozio: gli dava sui nervi per l'impudenza con cui cantava in francese e per il candore della sua speranza di farsi strada nel nuovo paese e riuscire a comprarsi una macelleria tutta sua.

«Non credere di poter venire qui a metterti delle idee in testa, — gli diceva Billy. — Siete voialtri che lavorate per noi, non il contrario, sia chiaro». Cosí lo zittiva, diceva.

Di tanto in tanto Patrick ripeteva a Rose che siccome casa sua distava solo una settantina di chilometri sarebbe dovuto andare a conoscere i suoi.

— C'è solo la mia matrigna.

— Peccato che non ho avuto occasione di conoscere tuo padre.

Glielo aveva frettolosamente presentato come un lettore di storia, uno studioso dilettante. Non era una bugia vera e propria, ma nemmeno rendeva giustizia alle circostanze reali.

— La matrigna è la tua tutrice?

Rose dovette ammettere che non lo sapeva.

— Beh, tuo padre ha per forza indicato un tutore nel testamento. Chi amministra le tue proprietà?

Le sue proprietà. A Rose il termine «proprietà» faceva pensare a dei fondi terrieri, tipo vecchia Inghilterra.

Patrick trovò quella sua visione piuttosto affascinante.

— No, intendevo soldi, titoli. Quel che ha lasciato.

— Credo che non abbia lasciato niente.

— Non dire sciocchezze, — sentenziò lui.

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La fortuna di Simon


Rose si sente sola nei posti nuovi; vorrebbe che qualcuno la invitasse. Esce, passeggia per le strade e sbircia dentro le finestre illuminate dalle feste tra amici il sabato sera, o dalle cene in famiglia la domenica. Non le serve ripetersi che, se si trovasse là dentro, a chiacchierare e ubriacarsi o a servirsi di salsa fatta in casa, non durerebbe a lungo prima di avere voglia di tornare in strada a passeggiare. Pensa che potrebbe accettare l'ospitalità di chiunque. Che potrebbe partecipare a feste in stanze arredate con poster alle pareti e lampade dai paralumi con la scritta Coca-Cola, stanze dove ogni cosa è precaria e sbilenca; oppure in locali accoglienti e seriosi, con tanti libri, incisioni, magari perfino un paio di teschi; o addirittura in sale di ricreazione di cui riesce a vedere solo la parte alta attraverso le vetrate dei seminterrati: collezioni di bicchieri da birra, fucili, corni da caccia e corna cave trasformate in boccali. Potrebbe sedersi su divani in lurex piazzati sotto arazzi di velluto nero decorati con galeoni, montagne e orsi polari ricamati in lana. Le piacerebbe tantissimo servirsi di un costoso cabinet de diplomate da una gran coppa in cristallo di boemia, in una sala da pranzo sfarzosa, con una panciuta credenza lucida alle spalle e un dipinto cupo di cavalli al pascolo, mucche al pascolo e pecore al pascolo su un brutto prato di erba violacea. Ma si troverebbe altrettanto bene a mangiare un semplice clafoutis nel tinello di una villetta prefabbricata nei pressi della fermata dell'autobus, con pere e pesche di gesso appese alle pareti e tralci di edera che fuoriescono da vasetti d'ottone. Rose è un'attrice; si può adattare ovunque.

In effetti la invitano spesso. Un paio di anni fa si trovava a una festa in un grattacielo di Kingston. Le finestre davano sul lago Ontario e su Wolfe Island. Rose non abitava a Kingston. Stava su in campagna; da due anni insegnava recitazione in un college di provincia. Certi si stupivano, scoprendolo. Non avevano idea di quanto poco possa guadagnare un'attrice; pensavano che essere famosi significasse automaticamente essere anche ricchi.

Era scesa a Kingston in macchina solo per la festa, e se ne vergognava un po'. La padrona di casa, non l'aveva mai conosciuta. Il padrone di casa invece sí: l'aveva incontrato un anno prima, quando insegnava anche lui al college e conviveva con un'altra.

La donna, una certa Shelley, accompagnò Rose in camera da letto dove le fece lasciare il cappotto. Shelley era una giovane magra dall'aria solenne, una bionda naturale con le sopracciglia quasi bianche e i capelli lunghi, folti e diritti, come scolpiti in un blocco di legno. Sembrava prendere molto sul serio il suo stile da orfanella. Aveva una voce bassa e dolente al cui confronto Rose giudicò la propria, quella del saluto di poco prima, decisamente troppo squillante.

In una cesta ai piedi del letto, una gatta maculata stava allattando quattro minuscoli gattini ciechi.

— Si chiama Tasha, — disse la padrona. — I gattini si possono guardare, ma non toccare, altrimenti poi lei smette di nutrirli.

Si inginocchiò accanto alla cesta canticchiando e parlando alla gatta con una tenerezza intensa che Rose giudicò affettata. Portava uno scialle nero, con frange in perline di jais. Certe si erano rovinate, certe mancavano. Lo scialle antico era autentico, non un'imitazione. Come pure il vestito cascante, un po' ingiallito e ricamato a mano, anche se in origine doveva essere stata una sottoveste. Capi del genere erano frutto di una paziente ricerca.

All'estremità opposta del letto a colonnine stava appeso, a un'altezza e a un'angolatura sospette, un grosso specchio. Rose cercò di darsi un'occhiata, mentre la ragazza era china sulla cesta. Θ difficilissimo guardarsi allo specchio quando nella stanza c'è un'altra donna, peggio ancora se piú giovane. Rose indossava un vestito a fiori in cotone, lungo, tagliato in vita e con le maniche a palloncino; ma il corpetto era troppo corto e stretto di seno per starle comodo. Aveva qualcosa di esageratamente giovanile e vistoso: forse lei non era abbastanza magra per quello stile. La tinta dei capelli, castano rossiccia, se l'era fatta in casa. Rughe sottili le disegnavano il contorno degli occhi, in un reticolo di piccoli rombi di pelle piú scura.

Ormai Rose sapeva benissimo che quando trovava qualcuno affettato, come nel caso di quella ragazza, o troppo leziosa una stanza, o irritante un modo di vivere (quello specchio, la trapunta patchwork, le stampe erotiche giapponesi sopra il letto, la musica africana proveniente dalla sala accanto), di solito era perché lei, Rose, non aveva ricevuto o temeva di non ricevere l'attenzione sperata, perché non era riuscita a inserirsi nell'ambiente e si sentiva condannata a vagare ai margini della festa, formulando giudizi.

Si trovò meglio in soggiorno, dove c'erano alcune persone che conosceva, e qualche faccia della sua età. Si affrettò a bere, e in breve stava già usando i gattini appena nati come pretesto per raccontare la sua storia. Disse che proprio quel giorno era successa una cosa tremenda al suo gatto.

— E il peggio, — disse, — è che non mi è mai piaciuto tanto, il mio gatto. L'idea di prenderlo non è stata mia, ma sua. Un giorno mi ha seguita e mi si è insediato in casa. Era una specie di grosso residuato senza arte né parte, un sornione deciso a convincermi che toccava a me mantenerlo. Comunque, ha sempre avuto un debole per l'asciugatrice. Gli piaceva saltarci dentro quando era tiepida, subito dopo che avevo tirato fuori i vestiti asciutti. Di solito faccio un carico solo, ma oggi ne avevo due, e quando ho infilato dentro la mano per tirar fuori il secondo, mi è sembrato di sentire qualcosa. Mi sono detta, che cosa ho di peloso?

Qualcuno tra i presenti gemette, qualcuno rise, manifestando una solidarietà orripilata. Rose li guardava con aria complice. Stava molto meglio. Il soggiorno con vista sul lago e arredi studiati (un juke-box, uno specchio da barbiere, qualche manifesto pubblicitario di fine Ottocento — «Fuma, fa bene alla gola» —, paralumi di seta antica, ceramiche e brocche in stile rustico, maschere e sculture primitive) le pareva già meno ostile. Bevve un altro sorso di gin, ben sapendo che per un limitato futuro si sarebbe sentita leggera e bene accolta come un colibrí, e convinta che quella stanza ospitasse gente spiritosa o benevola, se non addirittura entrambe le cose.

— Oh, no, ho pensato. E invece, sí. Era successo. Morte nell'asciugatrice.

— Un monito per chiunque se la vuole godere, — commentò un ometto dal viso affilato seduto vicino a lei, uno che conosceva di vista da anni. Insegnava alla facoltà di inglese dove attualmente lavorava il padrone di casa e dove stava per laurearsi la compagna di lui.

— Ma è atroce, — disse lei, con quella espressione fredda e lo sguardo fisso da persona sensibile. Chi aveva riso sembrò leggermente mortificato, come temesse di essere apparso senza cuore. — Il tuo gatto. Θ atroce. Come hai potuto venire lo stesso stasera?

In realtà l'incidente non era affatto capitato quel giorno, bensí una settimana prima. Rose si chiese se la ragazza avesse avuto l'intenzione di metterla in cattiva luce. Disse sinceramente dispiaciuta che non aveva mai voluto molto bene al gatto e che questo aveva reso l'episodio anche piú triste, in un certo senso. Ecco che cosa stava cercando di spiegare, aggiunse.

— Mi sono sentita come se fosse un po' colpa mia. Forse se gli avessi voluto piú bene, non sarebbe successo.

— Certo che no, — commentò l'uomo accanto a lei. — Era calore quello che cercava nell'asciugatrice. Amore. Ah, Rose!

— E cosí adesso non puoi piú menare il gatto per l'aia, — disse un giovane alto che Rose non aveva notato fino a quel momento. Pareva essere sbucato all'improvviso, lí, davanti a lei. — Meni il cane per l'aia, meni il gatto per l'aia, te la meni, Rose.

Stava cercando di farsi venire in mente come si chiamava. Lo aveva riconosciuto come un suo studente, o ex studente.

— David, — esclamò. — Ciao, David —. Era cosí contenta di essersi ricordata il nome che ci mise un po' a registrare quel che aveva detto.

— Meni il cane, meni il gatto, te la meni, — ripeté il ragazzo dondolandosi sopra di lei.

— Come, prego? — disse Rose, assumendo un'espressione perplessa, benevola e simpatica. Gli astanti faticavano ad accettare quelle parole non meno di lei. L'atmosfera socievole, cordiale e ben disposta tendeva a resistere; perdurava a dispetto dei segnali che ne rivelavano l'incapacità di assorbire molte delle cose che si stavano verificando. Sorridevano ancora quasi tutti, come se il giovane avesse raccontato un aneddoto o recitato una parte di cui si sarebbe presto chiarito l'intento. La padrona di casa abbassò lo sguardo e filò via.

— Prego un cazzo, — disse il giovane in tono molto sgradevole. — Vaffanculo, Rose —. Era pallido e delicato, ubriaco fradicio. Con ogni probabilità doveva essere cresciuto in una casa beneducata, dove si usavano espressioni tipo «rispondere al richiamo della natura» e ci si diceva «salute» a ogni starnuto.

Un tizio basso e robusto dai capelli ricci e neri prese il ragazzo per un braccio, appena sotto l'ascella.

— Fatti un giro, — gli disse, con fare quasi materno. Parlava con un confuso accento europeo, probabilmente francese, pensò Rose, anche se non era granché a distinguere le cadenze. Si ostinava a credere, pur sapendo di sbagliare, che accenti simili dipendessero da forme di virilità piú articolate e complesse di quelle riscontrabili nel maschio nordamericano originario di luoghi come Hanratty, dove era cresciuta lei. Quello in particolare prometteva una virilità venata di sofferenza, tenerezza, perspicacia.

Comparve il padrone di casa, in completo di velluto, e lo prese sotto l'altro braccio, piú o meno simbolicamente, baciando al tempo stesso Rose su una guancia, perché non l'aveva vista, al suo arrivo. - Ti devo parlare, - mormorò, come a dire che ne avrebbe fatto volentieri a meno, perché il terreno era pieno di insidie; la ragazza con cui aveva vissuto l'anno prima, per dirne una, nonché la notte che aveva passato con Rose verso fine semestre, una notte trascorsa a bere, chiacchierare, lamentarsi di infedeltà varie, ma anche una notte di sesso stranamente piacevole, benché irrispettoso. Aveva un'aria curatissima, sembrava piú sottile eppure piú morbido: capelli lunghi e completo in velluto verde bottiglia. Soltanto tre anni meno di Rose, ma guarda che tipo. Aveva messo da parte una moglie, una famiglia, una casa e un futuro deprimente per ripresentarsi con vestiti nuovi, mobili nuovi e una sfilza di amanti-studentesse. Agli uomini è concesso.

- Mio Dio, - disse Rose appoggiandosi al muro. - Ma con chi ce l'ha?

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