Autore Alice Munro
Titolo Danza delle ombre felici
EdizioneEinaudi, Torino, 2013, Supercoralli , pag. 272, cop.ril.sov., dim. 14x22x2 cm , Isbn 978-88-06-17594-8
OriginaleDance of the Happy Shades [1968]
TraduttoreSusanna Basso
LettoreAngela Razzini, 2014
Classe narrativa canadese












 

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Indice


       3 Il cowboy della Walker Brothers

      23 Le case bianchissime

      35 Immagini

      51 Grazie del passaggio

      67 Lo studio

      83 Il rimedio

      99 L'ora della morte

     111 Il giorno della farfalla

     123 Maschi e femmine

     143 Cartolina

     165 Vestito rosso - 1946

     181 Domenica pomeriggio

     193 Un viaggetto sulla costa

     211 La pace di Utrecht

     235 Danza delle ombre felici
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Pagina 3

Il cowboy della Walker Brothers



Dopo cena mio padre fa: - Scendiamo a vedere se c'è ancora il lago? - Lasciamo mia madre a cucire sotto la lampada in sala da pranzo; mi fa dei vestiti per l'inizio della scuola. A questo scopo ha disfatto un vecchio completo e un vestito scozzese che erano suoi, e ora le tocca ingegnarsi per tagliare e ricucire oltre a farmi stare in piedi a girare su me stessa per interminabili prove mentre io, ingrata, sudo e mi lamento perché la lana prude e mi viene caldo. Lasciamo mio fratello a letto nel piccolo portico chiuso al fondo della veranda, e certe volte lui si inginocchia sul lettino, preme la faccia contro la zanzariera e frigna: «Portatemi il gelato!», ma io gli rispondo: «Tanto dormirai già», e non giro neanche la testa.

Poi io e mio padre ci avviamo per una lunga strada sconnessa, fiancheggiata da pubblicità dei gelati Silverwoods, sistemate sul marciapiede, davanti a bottegucce illuminate. Siamo a Tuppertown, un paese sul lago Huron, vecchio porto di granaglie. A tratti, la via è ombreggiata da aceri le cui radici hanno sollevato e squarciato il marciapiede per poi crescere come coccodrilli nei cortili vuoti. La gente è seduta fuori, gli uomini in maniche di camicia e canottiera e le donne in grembiule: è gente che non conosciamo, ma se qualcuno decide di fare un cenno e dire «Caldo, eh, stasera?», mio padre di sicuro ricambia il saluto e fa un commento analogo. I bambini stanno ancora giocando. Non conosco neanche loro, perché mia madre tiene me e mio fratello nel nostro cortile sostenendo che lui è troppo piccolo per uscire e io devo stargli dietro. Non mi fa tanta tristezza vederli, perché i giochi della sera sono bruschi, inconcludenti. I bambini si separano spontaneamente, si appartano in isolotti di uno o due sotto i grossi alberi, e si intrattengono con le stesse attività solitarie delle mie giornate, tipo seppellire ciottoli, o scrivere per terra con un bastoncino.

Ci lasciamo subito alle spalle queste case e i cortili; superiamo una fabbrica con le finestre chiuse, un deposito di legname i cui cancelli altissimi sono sprangati per la notte. Dopodiché il paese piano piano cede al degrado di baracche diroccate e piccole discariche, il marciapiede si interrompe e ci ritroviamo a camminare su un sentiero di sabbia costeggiato da lappe, piantaggini e altre umili erbe anonime. Entriamo in un terreno vuoto, una specie di parco, anzi, perché lo tengono sgombro dai rottami e c'è una panchina a cui manca una stecca di schienale ma su cui ci si può sedere a guardare l'acqua. Di sera solitamente è grigia, sotto un cielo un po' coperto, senza tramonti, con l'orizzonte sfumato. Si sente lo sciabordio lievissimo dell'acqua sui ciottoli, a riva. Piú giú, verso il centro abitato, c'è un tratto di spiaggia, uno scivolo, le boe che delimitano la zona balneabile, il trono vacillante del bagnino. C'è anche un lungo edificio verde scuro, tipo veranda con tettoia, chiamato il Padiglione, che la domenica si riempie di contadini e delle loro mogli paludati a festa. Quella era l'unica parte del paese che conoscevamo quando abitavamo ancora a Dungannon e venivamo giú al lago tre o quattro volte nella bella stagione. Quella, e il porto dove andavamo a vedere le barche da carico di granaglie, vecchie, arrugginite, traballanti, che ci lasciavano a chiederci come riuscissero a superare anche solo i frangiflutti, altro che spingersi fino a Fort William.

Al porto girano i barboni; ogni tanto, in sere come questa, risalgono la lingua di spiaggia provvisoria, si arrampicano reggendosi ai cespugli secchi su per il sentiero scivoloso tracciato dai ragazzi e dicono a mio padre delle cose che la paura mi impedisce di capire. Mio padre risponde che è piuttosto al verde anche lui. — Posso rollarle una sigaretta, se le va, — dice, e scuote con precisione un po' di tabacco nelle cartine sottili come ali di farfalla, ci passa su la lingua, la chiude con le dita e consegna la sigaretta al vagabondo che prende e se ne va. Mio padre se ne prepara un'altra, accende e fuma.

Mi racconta come si formarono i Grandi Laghi. Dove oggi c'è il lago Huron, dice, una volta era tutto piatto, una grande pianura. Poi arrivò il ghiaccio che avanzava dal Nord e si depositava premendo sulle zone piú basse. Cosí, e mi fa vedere, con la mano aperta che schiaccia sulla terra dura come roccia dove siamo seduti. Le dita non lasciano quasi il segno, e lui commenta: — Devi sapere che la calotta glaciale aveva tanta piú forza di questa mano —. Poi il ghiaccio indietreggiò ritirandosi verso il Polo Nord da cui era venuto, e lasciò le sue dita di ghiaccio nelle fenditure che aveva scavato, e il ghiaccio si trasformò in quei laghi che erano ancora li al giorno d'oggi. Erano giovani, per come va il tempo. Io mi sforzo di vedere la pianura davanti a me, con i dinosauri che ci camminano sopra, ma non sono nemmeno in grado di immaginare la riva del lago quando c'erano gli indiani, prima di Tuppertown. La minuscola frazione di tempo di cui disponiamo mi spaventa, anche se mio padre pare tranquillo al riguardo. Perfino lui, che certe volte mi sembra esserci da che mondo è mondo, in realtà è vissuto su questa terra poco piú a lungo di me, rispetto a tutto il tempo che c'è stato da vivere. Anche lui, come me, non ha conosciuto un tempo in cui perlomeno non esistessero le automobili e la luce elettrica. Non era vivo quando è iniziato questo secolo. Lo sarò a malapena io, ma vecchissima, quando finirà. Non mi piace pensarci. Vorrei che il lago rimanesse lago per sempre, con le boe a delimitare la zona balneabile, con i frangiflutti e le luci di Tuppertown.

Mio padre ha un lavoro, fa il rappresentante per la Walker Brothers. La sua ditta vende praticamente solo nelle campagne dell'interno. Sunshine, Boylesbridge, Turnaround, sono tutte zone sue. Non Dungannon, dove abitavamo prima, e mia madre è contenta, perché Dungannon è troppo vicina al paese. Vende sciroppi per la tosse, ferro ricostituente, cerotti per calli, lassativi, analgesici per i dolori femminili, collutori, shampoo, pomate, impacchi, concentrati di arancia, limone e lampone per fare bibite dissetanti, vaniglia, coloranti alimentari, tè verde e nero, zenzero, chiodi di garofano e altre spezie, veleno per topi. Si è inventato una canzone di due versi, che fa cosí:

    Ho pillole, pomate e impacchi
    per tosse, calli, vesciche e pateracchi...

Non molto divertente, secondo mia madre. Una filastrocca da venditore ambulante, ed è questo infatti mio padre: un venditore ambulante che bussa alla porta di cucina in aperta campagna. Fino all'inverno scorso avevamo una ditta nostra, un allevamento di volpi. Mio padre allevava volpi argentate e vendeva le pelli a gente che ne ricavava stole, manicotti, pellicce. Poi i prezzi sono crollati, mio padre ha tenuto duro sperando che le cose migliorassero l'anno dopo, e invece sono crollati di nuovo, e lui ha resistito ancora un anno, e poi ancora uno, ma alla fine non è stato piú possibile reggere; eravamo pieni di debiti con la ditta che ci forniva i mangimi. Ho sentito mia madre spiegare tutto questo piú di una volta a Mrs Oliphant, l'unica vicina di casa con cui parla. (Anche Mrs Oliphant non ha avuto granché dalla vita, visto che è una maestra e ha sposato il bidello). Ci siamo venduti tutto, dice mia madre, e non abbiamo ricavato un soldo. Molti potrebbero dire lo stesso, al giorno d'oggi, ma mia madre non ha tempo da perdere con la calamità nazionale, solo con la nostra. Il destino ci ha scaraventati a vivere in un quartiere da poveri (il fatto che lo fossimo anche prima non ha importanza, era una povertà diversa, quella), e l'unico modo per reagire alla disgrazia, a suo parere, è con amarezza, con dignità e senza rassegnazione. Nessun bagno con vasca a piedini e water con sciacquone la può consolare, e nemmeno l'acqua corrente e il marciapiede davanti a casa, e il latte in bottiglia, nemmeno i due cinematografi e il ristorante Venus, e i grandi magazzini Woolworths, che sono una tale meraviglia da avere uccelli vivi che cantano nelle gabbie rinfrescate dai ventilatori e pesciolini grandi come un'unghia e luminosi come lune che guizzano nelle vasche verdi. A mia madre non importa niente.

Di pomeriggio va spesso a piedi all'alimentari di Simon e mi ci porta perché l'aiuti con le borse. Si mette il vestito buono, quello blu marina a fiorellini, liscio, sopra una sottoveste dello stesso blu. Si mette anche un cappellino estivo di paglia bianca, calzato sulle ventitre, e le scarpe bianche che io le ho lucidato sopra un foglio di giornale sui gradini dietro casa. Mi ha appena pettinata a lunghi boccoli molli - che per fortuna l'aria calda e secca disferà subito - e mi ha piazzato sulla testa un gran fiocco di stoffa. Tutto ciò è completamente diverso dalle uscite con mio padre dopo cena. Non abbiamo ancora passato due case e già ho la sensazione che siamo diventate per tutti oggetto di ridicolo. Perfino le parolacce scritte col gesso sul marciapiede ridono di noi. Mia madre sembra non farci caso. Incede imperturbabile come chiunque vada a fare la spesa, anzi no, come una signora che vada a fare la spesa, passando davanti alle massaie del paese nei loro vestitoni larghi e scuciti sotto le ascelle. Con me, la sua creazione, accanto, con questi riccioli atroci e il fioccone tra i capelli, le ginocchia strofinate e i calzini bianchi: tutto quello che non voglio essere, insomma. Detesto anche il mio nome quando mi chiama in pubblico, con la sua voce alta, fiera e squillante, volutamente diversa da quella di tutte le altre madri nella via.

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Pagina 67

Lo studio


La soluzione alla mia vita mi venne in mente una sera mentre stiravo una camicia. Era semplice ma audace. Mi presentai in soggiorno dove mio marito stava guardando la televisione e dissi: - Ho pensato che dovrei avere uno studio.

Sembrava un'idea stravagante perfino a me. Che cosa me ne faccio di uno studio? Ho una casa: è bella, spaziosa e ha la vista sul mare; offre vani adatti a mangiare e dormire, farsi un bagno e chiacchierare con gli amici. Ho anche un giardino; lo spazio non manca.

No. Ma a questo punto arriva la rivelazione non facile: sono una scrittrice. Detto cosí non suona bene. Troppo presuntuoso; fasullo, o quantomeno poco convincente. Riproviamoci. Scrivo. Va meglio? Cerco di scrivere. Cosí è anche peggio. Falsa modestia. Dunque?

Non fa niente. Comunque la metta, le mie parole producono una pausa di silenzio, quel momento delicato in cui ci si espone. Gli altri sono gentili però, il silenzio viene presto assorbito dallo zelo di voci cordiali che in vari modi esclamano, che meraviglia, buon per te, ma che cosa interessante. E cosa scrivi, chiedono entusiasticamente. Narrativa, rispondo, sopportando ormai la mortificazione con disinvoltura, perfino con un velo di insolenza, che non è sempre stata una mia prerogativa, e ancora, immancabilmente, i cerchi di palpabile sgomento vengono spianati con prontezza da quelle voci piene di tatto, che tuttavia hanno dato fondo alla riserva di frasi consolatorie, e riescono soltanto a dire: «Ah!»

Dunque è per questo che voglio uno studio (dissi a mio marito): per scrivere. Mi resi conto subito che era una bella pretesa, un esempio di raro egoismo. Per scrivere, lo sanno tutti, bastano una macchina da scrivere, o almeno carta e penna, un tavolo e una sedia; io tutte queste cose le ho in un angolo di camera mia. Ma adesso voglio anche uno studio.

E non ero neanche sicura che l'avrei usato per scrivere, a dirla tutta. Magari me ne sarei stata lí seduta a fissare la parete; ma perfino questa prospettiva non mi era sgradevole. Era proprio il suono della parola studio a piacermi, a sembrarmi dignitoso e sereno. Carico di solennità e intraprendenza. Ma non volevo parlarne a mio marito, perciò mi lanciai in una elaborata spiegazione che, a quanto ricordo, suonava cosí:

Un uomo può benissimo lavorare in casa. Ci porta il suo lavoro, e gli si fa spazio; la casa si risistema come può intorno a lui. Sono tutti pronti a riconoscere che il suo lavoro esiste. Non ci si aspetta che risponda al telefono, che cerchi le cose che qualcuno non trova, che vada a vedere come mai i bambini piangono o che dia da mangiare al gatto. Un uomo può chiudere la porta. Te la immagini (gli dissi) una madre che chiude la porta con i figli che sanno che lei c'è? Il solo pensiero è scandaloso ai loro occhi. Una donna seduta a fissare il vuoto, a contemplare uno scenario che non sia quello di marito e figli è ugualmente considerata un'offesa alla natura. Perciò per una donna la casa non funziona nello stesso modo. Una donna non può entrarci, fare quello che deve fare, e poi uscire. Una donna è la casa: separare i due concetti è impensabile.

(E tutto questo è vero, anche se come sempre quando lotto per qualcosa che temo di non meritare, ci metto troppa enfasi, troppe parole forti. Certe volte, magari a primavera quando le sere si allungano ma sono ancora tristi e piovose, coi primi bulbi in fiore e la luce sul mare troppo fioca per promettere bene, ho aperto le finestre e ho sentito la casa ritornare legno, intonaco e gli altri modesti materiali di cui è costruita, e la vita dentro ritirarsi, lasciando me inerme, a mani vuote, ma percorsa da un fremito violento e sfrenato di libertà, di una solitudine troppo perfetta e dura perché io la possa tollerare. In quelle occasioni scopro che tutto il resto del tempo sono protetta e imbozzolata, e che vincoli tiepidi mi trattengono con insistenza).

«D'accordo, se ne trovi uno che costa poco» fu tutto quello che mio marito aveva da dire in proposito. Lui è diverso da me, non sa che farsene delle spiegazioni. Il fatto che il cuore di un altro sia un libro chiuso è uno dei suoi motivi ricorrenti, che ripete senza rincrescimento.

Nemmeno allora, comunque, pensai che il progetto fosse realizzabile. Forse in fondo mi pareva un desiderio troppo sconveniente per potermelo concedere. Quasi quasi sarebbe stato piú facile desiderare una pelliccia di visone, o un collier di diamanti; queste sono cose che una donna riesce a ottenere. I figli, scoprendo i miei progetti, accolsero la faccenda con il piú vivace scetticismo e con indifferenza. Ad ogni buon conto, io andai al centro commerciale che sta a due isolati da dove abito; avevo notato già da parecchi mesi, e senza immaginare che un giorno o l'altro mi potessero riguardare, un paio di cartelli AFFITTASI esposti ai vetri del primo piano di un edificio che ospita un drugstore e un salone di bellezza. Mentre salivo le scale, avevo una netta sensazione di impossibilità; di sicuro affittare un ufficio era una procedura complicata; non è che uno bussi alla porta di locali sfitti e si aspetti di poterci entrare; occorrevano senz'altro altri passaggi. Senza contare che avrebbero voluto troppi soldi.

In realtà, non dovetti neanche bussare. Da uno degli studi vuoti usci una donna che trascinava un aspirapolvere e lo spingeva con il piede verso la porta aperta al fondo dell'ingresso, che doveva condurre a un alloggio nel retro dell'edificio. Nell'appartamento abitavano lei e suo marito; di nome facevano Malley; in effetti erano loro due i proprietari che affittavano i locali uso ufficio. Le stanze che aveva appena finito di pulire, mi disse, avevano ospitato un ambulatorio dentistico, perciò non facevano al caso mio, ma voleva farmi vedere l'altro alloggio. Mi fece accomodare nel suo appartamento mentre ritirava l'aspirapolvere e prendeva la chiave. Suo marito, disse con un sospiro che non fui in grado di interpretare, era fuori.

Mrs Malley, bruna e minuta, doveva avere poco piú di quarant'anni; era trascurata, ma ancora bella in qualche misura, con certi tocchi di incoerente femminilità come la linea sottile di rossetto vistoso e le pantofole in piuma di cigno rosa ai piedi molto delicati e gonfi. Aveva quella passività incerta, quell'aria di infinita stanchezza e di silenziosa apprensione che raccontano una vita passata a occuparsi di un uomo via via energico, iracondo, dipendente. Come è ovvio, non posso sapere quanto di tutto ciò abbia visto sin dal principio, e quanto ricostruito in seguito. So però di aver pensato che non doveva avere figli; la fatica della sua esistenza, qualunque ne fosse la natura, non glielo avrebbe permesso, e su questo non mi sbagliavo.

La stanza in cui restai ad attendere era chiaramente un misto tra soggiorno e ufficio. La prima cosa che notai furono dei modellini di navi - galeoni, clipper, varie Queen Mary - allineati su tavoli, davanzali, televisore. Dove non c'erano navi spuntavano vasi di piante e un ammasso di soprammobili che si possono definire di gusto maschile: teste di cervo in ceramica, cavalli di bronzo, enormi posacenere in pietra lucida, venata. Alle pareti, foto incorniciate e probabili diplomi. Una foto mostrava un barboncino e un bulldog, rispettivamente in abiti femminili e maschili, immortalati in una posa affettuosa che causava loro un patetico imbarazzo. Sull'immagine correva la scritta: «Vecchi amici». Ma a dominare la stanza era un ritratto dentro una cornice dorata con illuminazione apposita, raffigurante un bell'uomo biondo di mezz'età seduto a una scrivania, in completo scuro e dall'aria prospera, rosea e cordiale. Anche in questo caso è probabile che sia il senno di poi a farmi ritenere che dal ritratto trasparisse un disagio, una specie di sfiducia riguardo al proprio ruolo, la tendenza a proporsi con quell'eccesso di generosità e insistenza che, come tutti sanno, può condurre alla catastrofe.

Ma lasciamo perdere i Malley. Mi bastò vedere l'ufficio per decidere che lo volevo. Era piú grande di quanto mi occorresse, diviso in modo da adattarsi alle esigenze di un ambulatorio medico. (Abbiamo avuto un chiropratico qui, ma se n'è andato, dichiarò Mrs Malley nel suo tono risentito ma non pettegolo). Le pareti erano fredde e spoglie, bianche con un tocco di grigio, per evitare di dar fastidio agli occhi. Non essendoci dottori in vista ormai da un pezzo, come Mrs Malley si senti in dovere di dirmi, feci la mia offerta di venticinque dollari al mese. Disse che doveva parlarne con il marito.

Al mio ritorno, la volta successiva, la proposta fu accettata, e conobbi Mr Malley in persona. Come già avevo fatto con la moglie, spiegai che non intendevo servirmi dello studio nel normale orario di ufficio, bensí durante i fine settimana e qualche volta la sera. Mi domandò quale uso ne avrei fatto e glielo dissi, non senza essermi chiesta se non fosse preferibile raccontare che ero una stenografa.

Accolse la notizia di buongrado. - Ah, fa la scrittrice.

- Beh, sí. Scrivo.

- In tal caso faremo del nostro meglio perché si trovi bene, - disse gioviale. - Sono anch'io un grande sostenitore degli hobby. Vede tutti quei modellini? Li faccio nel tempo libero; sono l'ideale per i nervi. La gente ha bisogno di un'occupazione per calmarsi. Deve essere cosí anche per lei, o sbaglio?

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Pagina 123

Maschi e femmine


Mio padre era un allevatore di volpi. Cioè, allevava volpi argentate in appositi recinti e in autunno e all'inizio dell'inverno, quando la loro pelliccia era al massimo splendore, le uccideva, le scuoiava e vendeva le pelli alla Hudson's Bay Company o alla Montreal Fur Traders. Le aziende ci fornivano favolosi calendari che appendevamo su entrambi i lati della porta di cucina. Sullo sfondo di un gelido cielo azzurro, foreste di pini neri e insidiosi fiumi settentrionali, avventurieri impennacchiati piantavano le bandiere di Francia o Inghilterra, mentre formidabili selvaggi chinavano la schiena sotto il gravoso carico.

Per svariate settimane prima di Natale mio padre lavorava dopo cena nella cantina di casa. La cantina era intonacata a calce e illuminata da una lampadina nuda da cento watt appesa sul tavolaccio. Mio fratello Laird e io lo guardavamo seduti sul gradino in cima alla scala. Mio padre sfilava la pelle rivoltandola dal corpo delle volpi che, deprivate del loro superbo involucro di pelliccia, apparivano sorprendentemente piccole e misere, simili a ratti. I viscidi corpi nudi venivano raccolti in un sacco e sepolti in discarica. Una volta il lavorante Henry Bailey aveva tentato di colpirmi con quel sacco esclamando «Regalo di Natale!» Mia madre non lo aveva trovato divertente. In effetti mia madre non gradiva niente del processo di conciatura — vale a dire dell'uccisione, scuoiatura e preparazione delle pelli —, e avrebbe voluto che non avesse luogo in casa. C'era l'odore. Dopo che la pelle era stata tesa al rovescio su un'asse di legno, mio padre la raschiava con delicatezza per eliminare i piccoli coaguli di vasi sanguigni e le bolle di grasso; l'odore di sangue e di grasso animale, unito all'afrore selvatico della volpe stessa, penetrava ogni angolo della casa. Personalmente lo trovavo rassicurante, un aroma stagionale come quello delle arance e degli aghi di pino.

Henry Bailey soffriva di problemi bronchiali. Tossiva tanto che la faccia stretta gli diventava rosso vivo e gli occhi beffardi azzurro chiari gli si riempivano di lacrime; poi sollevava il coperchio della stufa e, da una buona distanza, sparava un grosso grumo di catarro — shhh! — dritto al cuore delle fiamme. Noi lo ammiravamo per quella prestazione, come pure per la sua capacità di farsi brontolare la pancia a comando, e per la sua risata carica di alti sibili e gorgoglii che metteva in moto l'intero rottame del suo petto. A volte era difficile stabilire di che cosa ridesse, e sempre possibile che ridesse di noi.

Anche dopo che ci avevano spediti a letto continuavamo a sentire l'odore delle volpi e le risate di Henry, ma quelle testimonianze del tiepido mondo tranquillo e ben illuminato del piano di sotto diventavano piú remote e tenui, aleggiando appena nell'aria fredda e viziata delle stanze di sopra. D'inverno avevamo paura, la notte. Non paura del fuori benché fosse il periodo dell'anno in cui i cumuli di neve si acciambellavano intorno a casa come balene addormentate e il vento ci tormentava alzandosi dai campi sepolti e dalla palude ghiacciata con il suo vecchio coro di lugubri minacce da orco delle fiabe. Avevamo paura del dentro, della camera nella quale dormivamo. Al tempo, il piano di sopra non era finito. Contro una parete c'era un camino di mattoni. Al centro della stanza si apriva un buco quadrato con una ringhiera di legno intorno: era l'accesso alla scala. Al di là della tromba della scala stavano ammucchiate tutte le cose di cui nessuno sapeva piú cosa fare: un marziale rotolo di linoleum ritto in piedi, una carrozzina di vimini, un cesto di felci, bricchi di ceramica e bacinelle crepate, un quadro della battaglia di Balaklava, molto triste da vedere. Appena era stato abbastanza grande da capire, avevo detto a Laird che lassú abitavano scheletri e pipistrelli; ogni volta che un galeotto evadeva dal carcere della contea a venti miglia di distanza, immaginavo che fosse riuscito chissà come a entrare dalla finestra e che stesse nascosto dietro il linoleum. Comunque, disponevamo di regole che ci garantivano protezione. Se la luce era accesa eravamo al sicuro a patto di non oltrepassare il quadrato di moquette logora che delimitava la nostra camera; se la luce era spenta, gli unici posti sicuri erano i nostri letti. Toccava a me spegnere la luce, in ginocchio ai piedi del letto sporgendomi al massimo per raggiungere la cordicella.

Al buio, ce ne stavamo sdraiati nelle nostre anguste zattere di salvataggio con gli occhi fissi sulla luce fioca che saliva dalle scale, a cantarci delle canzoni. Laird cantava Jingle Bells e la cantava sempre, che fosse Natale o no, e io invece, Danny Boy. Trovavo bellissimo il suono sommesso e supplichevole della mia voce nel buio. Riuscivamo a intravedere i contorni delle finestre alte e cupe, candite di ghiaccio. Quando arrivavamo al punto in cui fa «E quando sarò morto, ormai morto e sepolto...» il brivido non tanto delle lenzuola gelide quanto del piacere quasi mi ammutoliva. «In ginocchio reciterai un'Ave per me». Chissà cos'era un'Ave. Giorno dopo giorno mi scordavo di chiedere.

Laird passava direttamente dal canto al sonno. Sentivo il suo respiro diventare lento, placido, gorgogliante. Allora, per il tempo che mi rimaneva, il momento assolutamente piú intimo e forse migliore di tutta la giornata, mi sistemavo comoda sotto le coperte e proseguivo una delle storie che mi raccontavo sera dopo sera. Erano storie che parlavano di me, un po' piú grande; si svolgevano in un mondo che era palesemente il mio, ma che, a differenza del mio, offriva occasione di mostrare coraggio, audacia e spirito di sacrificio. Salvavo persone da un edificio bombardato (mi rincresceva che la guerra vera avesse avuto luogo cosí lontano da Jubilee). Sparavo a due lupi rabbiosi che minacciavano il cortile della scuola (con le maestre che si nascondevano terrorizzate alle mie spalle). Percorrevo baldanzosa a cavallo la via centrale di Jubilee, riscuotendo la riconoscenza dei concittadini per qualche impresa ancora da realizzare (nessuno andava mai a cavallo, nella zona, tranne il re Guglielmo, alias King Billy, nell'annuale parata degli orangisti). Le storie erano sempre piene di cavalcate e sparatorie, sebbene fossi montata su un cavallo solo due volte in vita mia — a pelo, perché non disponevamo di una sella — e la seconda volta fossi pure scivolata direttamente dall'altra parte finendo per terra tra le zampe del cavallo che mi aveva scavalcata come se niente fosse. Quanto a sparare, stavo imparando davvero, ma non centravo ancora niente, nemmeno lattine o paletti della staccionata.

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