Copertina
Autore Alice Munro
Titolo Troppa felicità
EdizioneEinaudi, Torino, 2011, Supercoralli , pag. 332, cop.ril.sov., dim. 14x22,2x2,4 cm , Isbn 978-88-06-20078-7
OriginaleToo Much Happiness [2009]
TraduttoreSusanna Basso
LettoreAngela Razzini, 2012
Classe narrativa canadese
PrimaPagina


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Indice


  3  Dimensioni

 36  Racconti

 68  Wenlock Edge

100  Buche-profonde

125  Radicali liberi

149  Faccia

177  Certe donne

203  Bambinate

242  Legna

266  Troppa felicità


329  Ringraziamenti


 

 

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Pagina 3

Dimensioni


Doree doveva prendere tre autobus: uno fino a Kincardine, lí aspettava il secondo per London, e lí di nuovo aspettava quello urbano fino alla struttura. Si mise in viaggio alle nove di una domenica mattina. Dati i tempi d'attesa fra un mezzo e l'altro, prima delle due circa non avrebbe percorso le cento e rotte miglia di strada. Stare tanto seduta, sia in pullman, sia nelle stazioni, non le sarebbe dovuto pesare. Il suo lavoro di tutti i giorni non era certo di tipo sedentario.

Faceva la cameriera al Blue Spruce Inn. Lustrava bagni, cambiava lenzuola, passava l'aspirapolvere sui tappeti e puliva specchi. Era soddisfatta di quel lavoro: entro certi limiti le teneva la mente occupata e la stancava tanto da lasciarla dormire, la notte. Di rado le succedeva di dover rimediare a veri e propri disastri, anche se alcune colleghe raccontavano storie da far rizzare i capelli. Erano tutte piú vecchie di lei, e tutte convinte che Doree dovesse cercare di farsi strada. Le dicevano che doveva impratichirsi e puntare a un lavoro dietro una scrivania mentre era ancora giovane e di bell'aspetto. A lei però stava bene quel che faceva. Non le andava di dover conversare.

Nessuna delle persone con cui lavorava era al corrente dell'accaduto. O, se lo erano, facevano finta di nulla. C'era stata la sua foto sul giornale: avevano messo quella con i tre bambini che le aveva scattato lui, il piccolo Dimitri in braccio, e Barbara Ann e Sasha su ciascun lato, con gli occhi fissi all'obiettivo. Doree al tempo aveva i capelli lunghi e mossi, castani e ondulati naturali, come piacevano a lui, e la faccia morbida e schiva, non tanto lo specchio della vera Doree, quanto di quella che lui voleva vedere.

Da allora, si era tagliata i capelli, li aveva decolorati e li portava corti e a ciocche ispide, e aveva anche perso parecchi chili. Si faceva chiamare con il suo secondo nome, adesso: Fleur. Non solo: l'impiego che le avevano trovato era in una cittadina a una discreta distanza da dove viveva allora.

Era la terza volta che faceva quel viaggio. Le prime due, lui si era rifiutato di incontrarla. Se l'avesse fatto di nuovo, avrebbe smesso di provarci. E se anche avesse accettato di vederla, probabilmente non sarebbe tornata per un po'. Non voleva esagerare. A essere sinceri, non sapeva bene cosa avrebbe fatto.

Sul primo autobus non fu particolarmente agitata. Viaggiava e basta, guardando il panorama. Era cresciuta sulla costa, dove esisteva una cosa chiamata primavera mentre da quelle parti l'inverno precipitava quasi senza soluzione di continuità nell'estate. Un mese prima c'era ancora la neve, e ora faceva abbastanza caldo da andare in giro sbracciati. Nei campi restavano abbaglianti pozze d'acqua, e il sole picchiava attraverso i rami spogli.

Sul secondo autobus cominciò a sentirsi nervosa e non poté fare a meno di chiedersi quali delle donne che aveva intorno potessero andare dove andava lei. Erano sole, perlopiú vestite con una certa cura, magari per dare l'impressione di essere dirette in chiesa. Le piú anziane sembravano membri di severe congregazioni all'antica, di quelle che impongono la sottana, le calze e il capo coperto, mentre le piú giovani potevano forse far parte di comunità piú aperte, disposte ad accettare tailleur pantalone, foulard a colori squillanti, orecchini e acconciature vaporose.

Doree non rientrava in nessuna delle due categorie. Per l'intero anno e mezzo da quando era stata assunta non si era comprata niente di nuovo da mettersi addosso. Stava in divisa al lavoro, e in jeans tutto il resto del tempo. Aveva perso l'abitudine di truccarsi perché lui non lo permetteva e, adesso che avrebbe potuto, non lo faceva comunque. Le ciocche ispide color granoturco stonavano con il suo viso ossuto e scialbo, ma non aveva importanza.

Sul terzo autobus si trovò un posto accanto al finestrino e cercò di mantenersi calma leggendo i cartelli - sia pubblicitari, sia stradali. Aveva escogitato un giochetto per tenersi la mente impegnata. Prendeva le lettere di qualunque parola su cui le capitasse di posare lo sguardo e cercava di stabilire quante parole diverse sarebbe riuscita a cavarne. «Gelati», ad esempio, dava «tela», «lega», e poi «lite» e «tale» e «alti» e «lati» e «lieta», mentre «bottega» produceva «botte» e «toga» e «gatto» e «botta» e - aspetta un po' - anche «getto». C'era scorta abbondante di parole in uscita dalla città, fra tabelloni, megastore, parcheggi, perfino palloni aerostatici ormeggiati sui tetti a scopo pubblicitario.


Doree non aveva detto niente a Mrs Sands dei due tentativi passati, e con ogni probabilità non le avrebbe raccontato nemmeno di quell'ultimo. Mrs Sands, che vedeva tutti i lunedí pomeriggio, parlava del dovere di andare avanti, pur precisando che ci sarebbe voluto del tempo, che non bisognava precipitare le cose. Diceva a Doree che si stava comportando bene, che andava a poco a poco riscoprendo la propria forza.

- Lo so benissimo che sono frasi scontate da morire, - disse, - ma restano comunque vere.

Arrossí nel sentirsi pronunciare quel «da morire», e tuttavia evitò di peggiorare la situazione scusandosi.

All'età di sedici anni - vale a dire sette anni prima -, per qualche tempo Doree era andata tutti i giorni dopo la scuola a trovare sua madre in ospedale. Era in convalescenza dopo un intervento alla schiena definito serio ma non pericoloso. Lloyd lavorava li come inserviente. In comune con la madre di Doree, Lloyd aveva un passato da hippy, pur essendo in effetti piú giovane di qualche anno, perciò tutte le volte che aveva un po' di tempo libero si presentava in camera e si metteva a chiacchierare con lei dei concerti e delle marce di protesta alle quali entrambi avevano partecipato, della gente strepitosa che avevano conosciuto, dei trip piú pazzeschi che si erano fatti con la droga e altre cose del genere.

Lloyd era amato dai pazienti per via delle sue battute scherzose e perché li sapeva prendere con mani forti e sicure. Era largo di spalle, ben piantato e abbastanza autorevole da essere scambiato a volte per un dottore. (Non che la cosa lo lusingasse, peraltro: a suo giudizio, gran parte della scienza medica era una truffa e tantissimi medici, degli emeriti coglioni). Aveva la carnagione rossastra e delicata, i capelli chiari e lo sguardo audace. Baciò Doree in ascensore e la paragonò a un fiore del deserto. Subito dopo rise da solo, commentando: - Come mi sarà uscita, questa?

- Magari sei un poeta, e non lo sai, - ribatté lei, per essere cortese.

Una notte, sua madre mori all'improvviso, per un'embolia. Aveva un mucchio di amiche che sarebbero state disposte a prendersi in casa Doree - e per un certo periodo in effetti si trasferí da una di loro -, ma il nuovo amico, Lloyd, era quello che preferiva. Prima di compiere diciassette anni, Doree si ritrovò incinta, e poi sposata. Lloyd non si era mai sposato prima, pur avendo almeno un paio di figli sparsi chissà dove. A quel punto, comunque, dovevano essere grandi. Invecchiando, la sua filosofia di vita era cambiata: ora credeva nel matrimonio e nella fedeltà, ed era contrario al controllo delle nascite. Inoltre trovava che la Sechelt Peninsula, dove lui e Doree risiedevano, fosse troppo affollata di gente ormai: vecchi amici, vecchie abitudini, vecchi amori. Di lí a poco si trasferirono dall'altra parte dello stato, in una località che avevano scelto dal nome sulla carta geografica: Mildmay. Non abitavano nemmeno in paese; affittarono una casa in aperta campagna. Lloyd trovò lavoro in una fabbrica di gelati. Si fecero un orto. Lloyd sapeva tante cose sulla coltivazione degli ortaggi, nonché sulla carpenteria domestica, sul funzionamento di una stufa a legna e sulla manutenzione di una vecchia auto.

Venne al mondo Sasha.


- Normalissimo, - disse Mrs Sands.

- Ah sí? - disse Doree.

Doree si sedeva sempre sulla sedia a schienale rigido che stava di fronte alla scrivania, anziché sul divano con i cuscini, rivestito di stoffa a fiori. Mrs Sands spostava la propria sedia a fianco della scrivania, di modo che potessero parlarsi senza barriere di sorta.

- In un certo senso mi aspettavo che succedesse, - disse. - Credo che al suo posto avrei potuto fare la stessa cosa.

Mrs Sands non si sarebbe espressa in questi termini all'inizio. Anche solo un anno prima sarebbe stata piú cauta, sapendo che al tempo Doree si sarebbe ribellata al pensiero che chiunque, un'anima viva qualsiasi, potesse presumere di mettersi nei suoi panni. Ormai invece era sicura che avrebbe preso quelle parole come un semplice tentativo, peraltro sommesso, di capire.

Mrs Sands non era come certe altre della categoria. Non era energica, non era magra, non era bella. E nemmeno troppo vecchia. Aveva grossomodo l'età che avrebbe avuto la madre di Doree, anche se non dava l'idea di essere mai stata una hippy. Teneva i capelli grigi tagliati corti e aveva un neo sporgente su uno zigomo. Portava scarpe basse, pantaloni larghi e bluse a fiori. Anche quando erano color lampone o turchese, quelle bluse non comunicavano l'impressione che a Mrs Sands importasse sul serio di quel che metteva addosso; era piú come se qualcuno le avesse detto che doveva curare il suo abbigliamento e lei fosse disciplinatamente andata a comprarsi qualcosa per obbedire al consiglio. La sua sobrietà, generosa, impersonale e garbata com'era, svuotava quegli indumenti di ogni squillante provocazione, di ogni oltraggio.

- Comunque, le prime due volte non l'ho neanche visto, - disse Doree. - Non ha voluto presentarsi.

- E questa volta, sí? E venuto?

- Sí. Ma io per poco non lo riconoscevo.

- Era invecchiato?

- Mi pare di sí. Credo sia un po' dimagrito. E poi, quei vestiti. L'uniforme. Non l'avevo mai visto con roba del genere addosso.

- Le è sembrato una persona diversa?

- No -. Doree si morse il labbro superiore, cercando di capire dove fosse la differenza. Lui era cosí immobile. Non l'aveva mai visto tanto immobile. Sembrava non sapesse nemmeno di doversi sedere di fronte a lei. La prima cosa che gli aveva detto era stata: - Non ti siedi? - E lui aveva risposto: - Si può?

- Era come assente, - disse. - Mi sono chiesta se lo tengono sotto farmaci.

- Può darsi che gli diano qualcosa per stabilizzarlo. Ma guardi che non lo so. Vi siete parlati?

Doree si chiese se si potesse dire di sí. Lei gli aveva fatto qualche domanda idiota, banale. Come stava? (Okay). Gli davano abbastanza da mangiare? (Pensava di si). C'era un posto dove poteva passeggiare, volendo? (Si, ma sotto sorveglianza. Lo si poteva chiamare un posto, perché no. Lo si poteva chiamare passeggiare, perché no).

Lei gli aveva detto: - Un po' d'aria ti fa bene.

E lui: - È vero.

Stava quasi per chiedergli se si era trovato degli amici. Come si fa con un figlio che va a scuola. Come si farebbe con i propri figli, se andassero a scuola.

- Certo, certo, - disse Mrs Sands, sospingendo la scatola pronta dei kleenex. Doree non ne aveva bisogno; gli occhi, li aveva asciutti. Il problema arrivava dal fondo dello stomaco. Conati.

Mrs Sands si limitò ad aspettare, sapendo bene di non dover intervenire.

E come se avesse intuito quello che stava per chiedergli, Lloyd l'aveva informata che uno psichiatra veniva a parlargli ogni tanto.

- Io gliel'ho detto che perde solo tempo, - aggiunse. - Ne so quanto lui.

Erano state le uniche parole in cui le era sembrato di riconoscere Lloyd, in qualche misura.

Il cuore non aveva smesso di batterle forte per tutta la visita. Pensava di poter svenire, o morire. Le costava una tale fatica guardarlo, ammetterlo dentro il suo campo visivo nella attuale versione di uomo grigio, sottile, freddo eppure esitante, che si muoveva a scatti meccanici ma scoordinati.

Tutto questo non l'aveva detto a Mrs Sands. Mrs Sands avrebbe potuto chiederle - con delicatezza - di chi avesse avuto paura. Se di se stessa o di lui.

Ma quella non era paura.

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Radicali liberi


In principio la gente telefonava per assicurarsi che Nita non fosse troppo giú, troppo sola, che non mangiasse troppo poco e non bevesse troppo. (Beveva da sempre con tale regolarità che adesso in molti si dimenticavano che l'alcol le era stato proibito del tutto). Lei li teneva a debita distanza senza assumere i toni della nobile disperazione né della forzata euforia, della svagatezza o del disordine mentale. Diceva che non le serviva niente da mangiare, perché stava cercando di dare fondo a quel che aveva in casa. Che con le medicine era a posto e che aveva abbastanza francobolli per i biglietti di ringraziamento.

I suoi amici piú cari probabilmente sospettavano la verità: e cioè che non si desse la pena di nutrirsi molto e che cestinasse ogni eventuale cartoncino di condoglianze. Proprio per scongiurarne l'arrivo aveva evitato di scrivere ai conoscenti lontani. E cosí alla ex moglie di Rich in Arizona, o al fratello con cui Rich aveva quasi interrotto i rapporti, in Nuova Scozia, anche se loro magari avrebbero capito, e forse anche meglio delle persone vicine, come mai Nita avesse optato per nessun rito funebre.

Rich le aveva gridato che andava in paese, dal ferramenta. Potevano essere le dieci; quel mattino si era messo a dipingere la ringhiera della terrazza. O meglio, a raschiarla prima di pitturare, e il vecchio raschietto gli si era rotto in mano.

Nita non aveva fatto in tempo a chiedersi perché tardasse. Rich mori davanti al negozio piegato in due sul cartello che informava di uno sconto sui tosaerba. Non era neppure riuscito a entrare nel negozio. Aveva ottantun anni e stava bene, a eccezione di una parziale sordità all'orecchio destro. L'aveva visto il suo dottore giusto una settimana prima. Nita doveva scoprire che quel tipo di controllo e il conseguente referto di buona salute saltavano fuori in numero sorprendente nelle storie di morti improvvise che ora non mancavano di raccontarle. Veniva quasi da credere che fosse meglio evitarle, certe visite, diceva lei.

Avrebbe dovuto esprimersi in quei termini solo con quelle vecchie malelingue delle sue amiche, Virgie e Carol, donne pressappoco della sua stessa età, vale a dire sessantadue anni. Chi era piú giovane trovava quei discorsi sconvenienti ed evasivi. Da principio furono tutti disposti a stringersi intorno a Nita. Evitarono di introdurre l'argomento elaborazione del dolore, ma lei temeva che potessero cominciare da un momento all'altro.

Appena si diede ai preparativi, naturalmente, sparirono tutti tranne gli amici di comprovata lealtà. La cassa piú economica, subito in terra, nessuna cerimonia di alcun tipo. L'impresario di pompe funebri sostenne che procedere cosí poteva anche essere illegale, ma lei e Rich avevano ben chiara la situazione. Si erano informati già un anno prima, non appena la diagnosi di Nita era stata definitiva.

- Come facevo a sapere che mi avrebbe fregato l'idea?

Non che la gente immaginasse un rito tradizionale, ma si erano aspettati qualcosa di moderno. Un inno alla vita. L'esecuzione del suo brano musicale preferito, con tutti i presenti stretti per mano che raccontavano aneddoti celebrando le virtú di Rich e ricordando di sfuggita e spiritosamente le sue piccole manie e i suoi difetti veniali.

Il genere di cosa che, per dichiarazione dello stesso Rich, lo avrebbe fatto vomitare.

Perciò si risolse tutto in fretta, e il trambusto e l'affettuoso calore intorno a Nita si dissolsero, anche se alcuni, immaginava, avevano continuato a ripetere di essere in pensiero per lei. Non certo Virgie e Carol. Loro le dissero che se pensava di crepare subito, prima del dovuto, era solo una gran troia egoista. Dissero che sarebbero andate a trovarla ogni tanto, assicurandosi di tirarla su con un goccio di Grey Goose.

Nita rispose che non era sua intenzione, anche se riconosceva una certa logica nel discorso.

Il suo tumore era attualmente in fase di remissione - chissà poi cosa voleva dire. Di sicuro non che stava battendo in ritirata. Non per sempre, quantomeno. Era il fegato la zona piú compromessa dal male e, a patto che continuasse a mangiare come un uccellino, non le dava noie. Dover ricordare alle amiche che non poteva toccare né vino né vodka, sarebbe solo servito a deprimerle.

La radioterapia della primavera scorsa a qualcosa era servita, in effetti. Eccoci in piena estate. Le sembra di vedersi meno gialla in faccia, ma potrebbe anche essere che ormai si è abituata.

Si alza presto la mattina, si lava e si veste come capita. Ma si veste e si lava, anche i denti, e si pettina i capelli che le sono abbastanza ricresciuti, grigi intorno alle tempie e scuri dietro, come prima. Si mette il rossetto, si scurisce le sopracciglia, molto rade adesso, e, in memoria di un'esistenza passata a coltivare il traguardo di vita sottile e fianchi snelli, controlla i risultati raggiunti su quel fronte, pur sapendo che l'aggettivo adatto a descrivere qualsivoglia parte di lei a questo punto sarebbe «scheletrico».

Si siede come sempre nella sua grande poltrona, circondata da pile di libri e di riviste mai aperte. Sorseggia adagio la tisana insipida che ha preso il posto del caffè. C'è stato un momento in cui ha creduto che non ce l'avrebbe fatta a tirare avanti senza caffè, ma poi ha scoperto che quello di cui non può fare a meno è stringere in mano il tazzone caldo, che è quella sensazione a favorirle i pensieri, o qualunque altra pratica svolga nel corso delle ore, o delle giornate.

La casa era di Rich. L'aveva comprata quando stava con la moglie Bett. Doveva essere solo una casa di villeggiatura, da tenere chiusa d'inverno. Due stanzette minuscole e una cucina col soffitto spiovente a mezzo miglio dal paese. Poi però si era messo a fare dei lavori, a studiare manuali di carpenteria per costruire altre due camere con bagno, poi uno studio per sé, fino a trasformare i locali di partenza in un unico grande soggiorno/cucina/sala da pranzo. Bett cominciò a interessarsi - in principio sosteneva di non aver capito che cosa avesse spinto Rich a comprare quella bicocca, ma le migliorie tangibili l'avevano sempre appassionata, perciò affrontò la spesa di due grembiuli gemelli da falegnameria. Avendo concluso la stesura del libro di cucina che l'aveva impegnata per anni e che era ormai stato dato alle stampe, aveva bisogno di dedicarsi a qualcosa. Lei e Rich non avevano figli.

E nello stesso periodo in cui Bett raccontava a tutti di aver scoperto il proprio ruolo nella vita come aiuto falegname, e aggiungeva come quell'attività avesse reso piú che mai saldo il legame tra lei e il marito, Rich si innamorava di Nita. Nita lavorava alla segreteria dell'ateneo presso il quale lui insegnava Storia medievale. La prima volta avevano fatto l'amore in mezzo ai trucioli e alla segatura di quello che sarebbe diventato il cuore della casa, il salone con soffitto a volta. Nita dimenticò gli occhiali da sole; non lo fece apposta, ma Bett, che non scordava mai niente, non riuscí a crederlo. Ne venne fuori la solita cagnara, dolorosa e trita, che si concluse con Bett che partiva per la California prima e l'Arizona poi, Nita che si licenziava su suggerimento del capo, e Rich che si perdeva l'occasione di diventare preside della facoltà di Arte. Andò in prepensionamento, vendette la casa di città. Nita non ereditò il grembiule piccolo da falegname, ma leggeva allegramente i suoi libri in mezzo al caos, cucinava piatti spartani sulla piastra, si concedeva lunghe passeggiate esplorative dalle quali rientrava con fantasiosi bouquet di gigli tigrati e carote selvatiche che ficcava dentro vecchie latte di vernice. Piú tardi, quando lei e Rich si erano ormai sistemati, le capitò di vergognarsi al ricordo della disinvoltura con la quale aveva assunto il ruolo dell'amante giovane, della spensierata rovinafamiglie, della spigliata, insidiosa, oca giuliva. Di fatto era una donna - non certo una ragazzina - piuttosto seria, fisicamente impacciata, insicura, in grado di recitare l'elenco di tutte le regine, non soltanto dei re, ma delle regine d'Inghilterra, o di raccontare la guerra dei Trent'anni per dritto e per rovescio, ma che non se la sentiva di ballare in pubblico e che non avrebbe mai imparato a salire su una scala a pioli, come faceva Bett.

La casa è costeggiata da un filare di cedri su un lato e dalla ferrovia sull'altro. Il traffico ferroviario non è mai stato molto intenso, e ormai deve essersi ridotto a un paio di treni al mese. L'erba cresceva alta fra le rotaie. Una volta, ai tempi in cui stava per entrare in menopausa, Nita aveva convinto Rich a far l'amore lí, non sulle traversine, è ovvio, ma sulla striscia d'erba accanto, dalla quale si erano poi allontanati immensamente soddisfatti dell'impresa.

Ogni mattina, appena si accomodava in poltrona, Nita passava in rassegna tutti i posti in cui Rich non era. Non era nel bagnetto piccolo dove restava il suo occorrente per la barba, nonché i medicinali per tutti i suoi disturbi di poco conto, pillole varie che si rifiutava di buttare via. Non era nella camera da letto dalla quale era appena uscita, dopo aver messo in ordine. E nemmeno nel bagno grande, dove peraltro Rich entrava solo se decideva di usare la vasca. O nella cucina che negli ultimi anni era diventata il suo regno pressoché incontrastato. Ovviamente non era fuori sulla terrazza di legno già raschiata a metà, pronto a sbirciare per scherzo dalla finestra, davanti alla quale, ai bei tempi, lei magari accennava la parodia di uno spogliarello.

O nello studio. Di tutti i posti, era dallo studio che Nita doveva sancire in modo piú definitivo la sua assenza. In principio aveva provato il bisogno di andare alla porta, aprirla e stare li sulla soglia a contemplare i mucchi di scartoffie, il computer moribondo, i dossier traboccanti, i libri aperti a faccia in su o in giú o ammassati sugli scaffali. Adesso invece le bastava immaginarsele, le cose.

Un giorno o l'altro sarebbe dovuta entrare. La pensava come un'invasione. Avrebbe dovuto invadere la mente del marito morto. Era un'eventualità che non aveva mai considerato. Rich le era sempre apparso un tale colosso di praticità e di competenza, una creatura talmente salda e vigorosa da garantirle l'assoluta, quanto irragionevole, convinzione che le sarebbe sopravvissuto. Poi, nel corso dell'ultimo anno, quell'idea era diventata tutt'altro che assurda e, a suo giudizio per entrambi, si era trasformata in una certezza.

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Pagina 149

Faccia


Sono convinto che mio padre mi abbia guardato, fissato, che mi abbia visto una volta soltanto. In seguito, poté farne a meno, già sapendo com'ero.

Al tempo, i padri non avevano accesso alla luminosa sala in cui i bambini venivano al mondo, e nemmeno a quella dove le partorienti soffocavano le proprie grida o urlavano di dolore. I padri posavano gli occhi sulle madri solo dopo che queste erano tornate in sé e si era provveduto a pulirle e rincalzarle sotto coperte in tinte pastello, e a riportarle in reparto o nella loro stanza, singola o doppia che fosse. Mia madre stava in una singola, in ossequio alla sua posizione in paese e, col senno di poi, meglio cosí, in effetti.

Non so se fu prima o dopo aver rivisto mia madre che mio padre venne davanti alla vetrata del nido per dare un'occhiata anche a me. Tendo a credere che sia successo dopo, e che quando mia madre udí i suoi passi fuori dalla porta e nella stanza, avvertí in essi tutta la sua collera senza sapere ancora quale ne fosse la causa. Dopotutto, gli aveva partorito un maschio, che in teoria era ciò che gli uomini vogliono.

So cosa disse, però. O almeno cosa disse stando a ciò che lei mi riferí.

Disse: - Sembra un fegato fatto a pezzi.

E aggiunse: - Togliti pure dalla testa l'idea di portarlo a casa.

Una metà della mia faccia era - è - normale. E normale era pure tutto il corpo, dalle spalle alla punta dei piedi. Misuravo cinquantatre centimetri di lunghezza, per un peso di tre chili e quasi ottocento grammi. Un bambinone robusto, di carnagione chiara, benché probabilmente ancora arrossata dal mio recente itinerario secondo copione.

La mia voglia era viola, non rossa. Un viola carico per tutti gli anni dell'infanzia; un po' piú tenue man mano che crescevo, senza tuttavia mai sbiadire fino a perdere di impatto, senza mai smettere, insomma, di essere la primissima cosa che nota di me chi mi vede di fronte, o il dato sconvolgente che scopre chi mi avvicina da sinistra, dal lato pulito, per cosí dire. Sembra che qualcuno mi abbia rovesciato addosso del succo d'uva, o vernice fresca, una gran chiazza vistosa che non accenna a scolare in gocce finché non mi arriva sul collo. Sebbene riesca a schivare di misura il naso, dopo avermi inondato una palpebra.

«Il bianco di quell'occhietto risalta di piú cosí; è piú bello»: ecco una delle perdonabili idiozie che mi ripeteva mia madre, nella speranza di farmi apprezzare me stesso. E accadde una cosa strana. Dalla campana di vetro sotto cui vivevo, finii quasi per crederle.

Naturalmente mio padre non poté fare nulla per impedire che entrassi in casa. E naturalmente la mia presenza, la mia esistenza, spalancò un abisso tra lui e mia madre. Anche se mi è sempre stato difficile credere che un'incrinatura non ci fosse da sempre, o quantomeno un'incomprensione, un'amara freddezza.

Mio padre era il figlio di un uomo senza istruzione che aveva posseduto prima una conceria, poi una fabbrica di guanti. Con l'avanzare del ventesimo secolo la prosperità venne meno, ma rimaneva comunque la casa padronale, con tanto di cuoca e giardiniere. Mio padre frequentò il college, entrò in una fratellanza universitaria, se la spassò, come si è soliti dire, e dopo il fallimento del guantificio, si diede alla carriera assicurativa. In paese era una celebrità, come ai tempi del college. Ottimo giocatore di golf, eccellente velista. (Non mi pare di aver fatto presente che abitavamo sulle scogliere del lago Huron, nella villa vittoriana affacciata sul tramonto costruita da mio nonno).

In casa, il tratto piú saliente di mio padre era la capacità di mostrare odio e disprezzo. In effetti, le due cose andavano spesso di pari passo. Odiava e disprezzava determinati cibi, marche di automobili, musica, modi di esprimersi e di vestire, comici radiofonici e, piú tardi, personaggi televisivi, come pure il consueto assortimento di razze e classi sociali che era prassi comune odiare e disprezzare ai suoi tempi (sebbene forse non in maniera altrettanto perentoria). Dirò di piú: gran parte delle sue idee non rischiavano di suscitare un contraddittorio fuori delle pareti di casa, in paese, tra i compagni di barca a vela, o i membri della sua fratellanza universitaria. Credo fosse quella veemenza a generare una soggezione che poteva quasi tradursi in stima. Sa dire pane al pane e vino al vino. Ecco che cosa la gente diceva di lui.

Va da sé che un prodotto come il sottoscritto rappresentava un oltraggio che mio padre era costretto ad affrontare ogniqualvolta apriva la porta della sua stanza. Faceva colazione da solo e non rientrava per pranzo. Mia madre consumava quei due pasti con me e anche una parte della cena, che poi completava con lui. In seguito penso ci sia stato un litigio tra loro in proposito e da allora prese a farmi compagnia per tutto il pasto, ma a mangiare dopo, con lui.

Come si può capire, non ero in grado di contribuire alla costruzione di un matrimonio sereno.

Ma come erano potuti finire insieme? Lei non aveva frequentato il college, aveva dovuto farsi prestare il denaro per pagarsi il corso di abilitazione all'insegnamento. In barca a vela aveva paura, sul campo da golf era maldestra e, ammesso che fosse una bella donna, come mi è stato detto da alcuni (è difficile esprimere un giudizio personale sulla propria madre), non disponeva certo del tipo di bellezza che mio padre avrebbe ammirato. Lui definiva certe donne uno schianto o, piú avanti negli anni, una bambola. Mia madre non usava il rossetto, portava reggiseni modesti, si puntava i capelli in una stretta crocchia di trecce che sottolineavano l'ampiezza della sua fronte bianca. Il suo guardaroba era sempre in ritardo sui dettami della moda, con articoli informi e regali al tempo stesso: era il genere di donna che uno immagina con un filo di perle, anche se non credo ne abbia mai avuto uno.

Quello che sto cercando di dire, a quanto pare, è che potrei essere stato un pretesto, una benedizione addirittura, nel senso che fornivo loro una lite bell'e pronta, un problema insolubile che li rimandava alle loro naturali differenze, in seno alle quali non è escluso che potessero trovarsi piú a proprio agio. In tutti gli anni passati in paese, non ho mai incontrato nessuno che avesse divorziato, perciò si può dare per certo che dovessero esserci altre coppie di separati in casa, altri uomini e donne che avevano accettato l'impossibilità di sanare le rispettive idiosincrasie, o l'esistenza di una parola o un gesto per sempre imperdonabile, di una barriera ineliminabile.

Il risultato, poco sorprendente in una storia come questa, fu che mio padre fumasse e bevesse troppo, sebbene lo facessero anche quasi tutti i suoi amici, indipendentemente dalle loro situazioni. Ebbe un ictus prima dei sessant'anni, e morí dopo svariati mesi a letto. Né sorprende del resto che mia madre lo abbia curato per tutto quel tempo e che se lo sia tenuto in casa dove lui, anziché sciogliersi in manifestazioni di affettuosa riconoscenza, la insultava con epiteti impastati dalla disgrazia ma pur sempre decifrabili alle orecchie di lei e piuttosto gratificanti, si sarebbe detto, a quelle di lui.

Al funerale una donna mi disse: - Tua madre è una santa -. Ho chiara in mente l'immagine della donna, sebbene non il suo nome: ricciolini bianchi, guance incipriate, lineamenti fini. Un sussurro piagnucoloso. Suscitò la mia immediata antipatia. Mi accigliai. All'epoca frequentavo il secondo anno di college. Non mi ero iscritto alla fratellanza universitaria di mio padre, nella quale peraltro nesuno mi aveva invitato. Mi accompagnavo con aspiranti scrittori e commedianti che per il momento erano giusto ingegni arguti, perdigiorno professionisti, feroci censori del sistema, atei dell'ultim'ora. Non avevo alcun rispetto per chi si comportava come un santo. E, a essere sinceri, mia madre non mirava a niente del genere. Era tanto lontana da ogni forma di santità, che neanche una sola volta quando tornavo a casa, mi aveva chiesto di entrare nella stanza di mio padre cercando di strappargli un cenno di riconciliazione. E io non lo avevo mai fatto. Non esisteva alcuna prospettiva di un accomodamento, nessuna benedizione. Mia madre era tutt'altro che una sciocca.

Si era consacrata a me - nessuno di noi due avrebbe mai utilizzato il termine, ma credo sia quello corretto - per i miei primi nove anni. Mi insegnò lei a leggere e scrivere. E poi mi spedí in collegio. Lo so, suona come la ricetta di un disastro. Il cocco di mamma, dalla faccia viola, scaraventato all'improvviso agli assalti e allo scherno di una banda di piccoli selvaggi. E invece non me la passai affatto male e ancora oggi non so spiegarmi come mai. Ero alto e robusto per la mia età, il che può aver contribuito. Penso, tuttavia, che l'atmosfera di casa nostra, quel clima fatto di crudeltà, disprezzo e malumore - benché prodotto da un padre spesso invisibile -, possa aver fatto apparire ragionevole, se non addirittura accogliente, qualunque posto, per quanto negativo. Non era infatti che le persone si sforzassero di mostrarsi gentili con me. Mi trovarono un nome: Prugnasecca. Del resto quasi tutti avevano un soprannome dispregiativo. Un bambino dai piedi particolarmente odorosi che nessuna doccia giornaliera sembrava capace di rendere innocui aveva accettato di buongrado di farsi chiamare Tanfo. Imparai a cavarmela. Scrivevo a mia madre lettere divertenti alle quali lei rispondeva assumendo a sua volta un tono di vago sarcasmo riguardo ai fatti avvenuti in paese e in chiesa - ricordo per esempio la cronaca di un'accesa discussione sul corretto formato dei tramezzini da servire a un tè fra signore - e riuscendo perfino a mantenersi spiritosa ma non amara a proposito di mio padre, ribattezzato Sua Grazia.

Fino a questo punto, ho dipinto mio padre come un orco e mia madre come un riparo salvifico, e credo che fosse proprio cosí. La mia storia tuttavia prevede altre persone e l'atmosfera domestica non era la sola che conoscessi. (Mi riferisco ora al periodo precedente persino alla mia età scolare). Ciò che ho finito per considerare il dramma con la D maiuscola della mia vita si era già verificato fuori da quella casa.

Dramma. Mi vergogno un po' di avere usato questa parola. Mi domando se non suoni miseramente comica o scontata. Poi però mi dico, Ma non è del tutto naturale che io veda la mia esistenza in questi termini e che ne parli in questi termini, visto e considerato come mi sono guadagnato da vivere?

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I bambini attribuiscono al verbo «odiare» significati diversi. Può voler dire che hanno paura. Non che si sentano in pericolo di un'eventuale aggressione - come mi succedeva, ad esempio, con certi bambini grandi e grossi che, in bicicletta, si divertivano a tagliarmi la strada strillando come indemoniati, mentre passeggiavo sul marciapiede. Non è una minaccia fisica che si teme - o che io temevo nel caso di Verna - quanto piuttosto un sortilegio, una malevolenza. È una sensazione che, da molto piccoli, si può provare anche riguardo alle facciate di certi edifici, o a dei tronchi d'albero e, spessissimo, a cantine umide o armadi a muro profondi.

Verna era ben piú alta di me e non so quanto piú grande - due anni, tre? Era pelle e ossa, anzi talmente sottile e con la testa cosí piccina da ricordarmi una serpe. I capelli neri e finissimi le stavano piatti sul capo, piovendole sulla fronte. Di carnagione mi sembrava smorta, come il lembo di tela della nostra vecchia tenda, e le sue gote si dilatavano proprio come faceva la tenda gonfiata dal vento. Guardava sempre strizzando gli occhi.

Credo tuttavia che non ci fosse nulla di particolarmente sgradevole nel suo aspetto fisico, per come la vedevano gli altri. Anzi, mia madre la definiva carina, o quasi (in frasi tipo, peccato però, potrebbe perfino essere carina). E, sempre stando a mia madre, non c'era niente che non andasse neanche nel suo comportamento. È un po' piccola per gli anni che ha. Un modo impreciso e tortuoso per dire che Verna non sapeva leggere né scrivere né giocare a palla e che, dalla sua voce rauca e non modulata, uscivano parole alla rinfusa, come grumi di discorso che le fossero rimasti impigliati in gola.

Il suo modo di intromettersi nei miei giochi solitari, rovinandoli, era quello di una bambina piú grande, non piú piccola. Ma di una piú grande senza alcun titolo né attitudine, nulla, a parte una instancabile determinazione e l'incapacità di comprendere che non era desiderata.

I bambini, si sa, sono mostruosamente convenzionali, subito pronti a respingere ciò che è sbilenco, mal funzionante, ingestibile. Io poi, essendo figlia unica, ero stata parecchio viziata (oltre che rimproverata). Ero goffa, precoce, timida, dominata dai miei rituali segreti e dalle mie avversioni. Odiavo perfino il fermaglio di plastica che scivolava continuamente dai capelli di Verna, e le mentine a strisce rosse o verdi che si ostinava a offrirmi. In realtà non si limitava a offrirmele, cercava di acchiapparmi e di infilarmi in bocca una di quelle caramelle, senza mai smettere di sghignazzare nel suo modo sconnesso. Ancora oggi detesto il sapore della menta piperita. E il nome Verna, detesto pure quello. Non mi ricorda affatto la primavera, né l'erba verde o ghirlande di fiori o bambine vestite di tulle. Mi fa pensare piuttosto a una scia di bava verde e collosa al gusto di menta piperita.

Ero convinta che neanche a mia madre Verna piacesse davvero. Ma a causa di una certa ipocrisia caratteriale, a mio giudizio, per presa di posizione, quasi per farmi dispetto, fingeva di provare compassione per lei. Mi diceva di essere gentile. Da principio, diceva che Verna non si sarebbe trattenuta a lungo perché, a vacanze estive concluse, sarebbe tornata dove stava prima. Poi, quando fu chiaro che non c'era nessun posto al quale Verna dovesse fare ritorno, il messaggio rassicurante divenne che presto ci saremmo trasferiti noi. Bastava che fossi gentile ancora per un po'. (La verità è che sarebbe passato un altro anno, prima del nostro trasloco). Alla fine, quando perse la pazienza, mi disse che le avevo dato una delusione e che non avrebbe mai immaginato che fossi di indole tanto cattiva.

- Come fai a prendertela con qualcuno perché è nato cosí? Non è certo colpa sua, no?

Non mi capacitavo. Se solo fossi stata piú abile ad argomentare, le avrei detto che non ce l'avevo con Verna; semplicemente, non volevo che mi stesse attorno. Ma la verità è che ce l'avevo con lei, eccome. Ero certa che in qualche modo fosse proprio colpa sua. In questo senso, nonostante tutto quello che poteva dire mia madre, interpretavo almeno in parte il tacito verdetto del tempo e del luogo in cui ero cresciuta. Perfino gli adulti abbozzavano sorrisi particolari; c'era un irreprimibile compiacimento, uno scontato senso di superiorità che ai miei occhi risultava palese, nel modo in cui si parlava delle persone «semplici», quelle «un po' dure di comprendonio». E a mio parere, sotto sotto la pensava cosí anche mia madre.

Cominciai la scuola. La cominciò anche Verna. Fu sistemata in una classe differenziale, dentro uno speciale edificio su un angolo del cortile. In realtà quella era stata la prima scuola del paese, ma allora nessuno aveva tempo da perdere con la storia locale, e qualche anno dopo, si decise di demolire la costruzione. In cortile c'era una zona cintata nella quale i bambini ospitati nella scuola trascorrevano la ricreazione. Entravano in classe mezz'ora dopo di noi, la mattina, e uscivano mezz'ora prima, il pomeriggio. In teoria, nessuno avrebbe dovuto tormentarli nell'intervallo, ma dato che stavano sempre appesi alla staccionata a guardare cosa succedeva nel cortile della scuola normale, capitavano dei tumulti improvvisi, a base di urla e bastoni branditi per spaventarli. Io non mi avvicinavo mai a quell'angolo, vedevo Verna molto di rado. Era a casa che mi toccava comunque fare i conti con la sua presenza.

In principio, se ne stava in piedi all'angolo della casa gialla, a fissarmi, e io facevo finta di non sapere che c'era. Poi si spostava nel cortile antistante l'edificio e si piazzava sui gradini d'ingresso della metà di casa dove abitavo io. Se volevo entrare per andare in bagno o perché avevo freddo, ero costretta a passarle talmente vicino da sfiorarla o da correre il rischio che fosse lei a toccarmi.

Era capace di rimanere ferma in un posto piú a lungo di qualsiasi persona avessi mai conosciuto; ferma a fissare la stessa cosa. Di solito, me.

Avevo un'altalena appesa a un acero, e potevo scegliere se sedermi faccia alla casa o faccia alla strada. In altre parole, potevo rivolgermi verso di lei o sapere che lei era lí, a fissarmi la schiena, e che poteva avvicinarsi per darmi una spinta. Dopo un poco, in effetti, si decideva a farlo. Mi spingeva sempre sbilenca, ma il peggio non era quello. Il peggio era sentire le sue dita premute contro la schiena. Le sentivo attraverso il cappotto e tutti gli altri vestiti, come tanti grugni gelati. Un'altra delle mie attività era costruirmi una casa di foglie. Le rastrellavo e le portavo a bracciate da sotto l'acero che reggeva l'altalena, poi le scaricavo, disponendole secondo un progetto di casa. Di qua il soggiorno, di là la cucina, qui un gran mucchio soffice per fare il letto, e cosí via. Non l'avevo inventato io quel gioco: case di foglie ben piú spaziose e perfino in un certo senso arredate, venivano allestite dalle bambine nel cortile della scuola ogni giorno, durante la ricreazione, finché la bidella non si decideva a rastrellare tutto il fogliame e a dargli fuoco.

Dapprima Verna si limitò a osservare quel che facevo, guardandomi di traverso con un'espressione che mi pareva di sbigottita superiorità (come osava ritenersi superiore?) Ma poi venne la volta in cui si avvicinò e prese una bracciata di foglie che le cadevano da tutte le parti, perché era goffa nei movimenti, indecisa. Oltretutto, le foglie non erano del mucchio di quelle avanzate, bensí proprio quelle del muro della casa. Verna le raccolse, le trasportò poco piú in là e le lasciò cadere - rovesciandole - nel bel mezzo di una delle mie linde stanze.

Le urlai di smetterla, ma lei si chinò a riprendere il suo carico disperso e, non riuscendo a tenerlo insieme, lo sparpagliò ovunque, dopodiché, quando ebbe tutte le foglie per terra, si mise a prenderle a calci qua e là senza motivo. Io continuavo a gridarle di smetterla, ma non serviva a niente, anzi sembrava che scambiasse le mie urla per incoraggiamento. A quel punto, le corsi incontro a testa bassa e la incornai nella pancia. Ero a capo scoperto, perciò con i capelli entrai in contatto con il cappotto o la giacca di lana che aveva addosso ed ebbi la sensazione di aver proprio sfiorato le setole di un ributtante pancione duro. Corsi su per le scale strepitando la mia protesta e, quando mia madre senti la storia, mi fece infuriare ancora di piú dicendo: - Vuole solo giocare. Non è capace a giocare.

L'autunno successivo abitavamo già in una villetta nuova e non dovevo piú passare davanti alla casa gialla che mi ricordava moltissimo Verna, come se avesse direttamente assorbito la sua ottusa malizia, il suo cipiglio ostile. Il giallo stesso dell'intonaco sembrava contenere il senso di un'offesa, mentre la porta d'ingresso, essendo scentrata, aggiungeva un tocco di deformità.

La villetta era a tre soli isolati da quella casa, vicino alla scuola. Ma avevo ancora un'idea riguardo alle dimensioni e alla struttura del paese che mi permetteva di sentirmi completamente al riparo da Verna. Mi resi conto che le cose non stavano cosí, o almeno non del tutto, il giorno in cui, con una compagna di scuola, mi imbattei faccia a faccia con lei, sulla via centrale. Una delle nostre madri doveva averci mandate a fare una commissione. Io non alzai neanche gli occhi, ma credetti di aver sentito un verso di saluto o di riconoscimento, mentre passavamo.

L'altra bambina mi disse una cosa terrificante.

Disse: - Una volta pensavo che fosse tua sorella.

- Cosa?

- Be', sapevo che stavate nella stessa casa, perciò pensavo che foste parenti. Tipo cugine, almeno. Invece no? Non siete cugine?

- No.

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