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| << | < | > | >> |Indice3 In fuga 45 Fatalità 81 Fra poco 117 Silenzio 148 Passione 183 Rimetti a noi i nostri debiti 219 Scherzi del destino 250 Poteri |
| << | < | > | >> |Pagina 3In fugaCarla udí l'automobile prima di vederla spuntare dalla modesta salita che da quelle parti chiamavano colle. È lei, pensò. Mrs Jamieson - Sylvia - di ritorno dalle vacanze in Grecia. Dalla porta della stalla - ma abbastanza indietro da non farsi scorgere facilmente - tenne d'occhio la strada che Mrs Jamieson avrebbe dovuto percorrere, considerato che casa sua era circa mezzo miglio piú in là, sulla stessa via di Clark e Carla. Se fosse stato qualcuno che si preparava a svoltare da loro, a questo punto avrebbe già rallentato. Carla comunque continuava a sperare. Fa' che non sia lei. Era lei. Mrs Jamieson voltò il capo una volta, rapidamente - aveva già il suo daffare a destreggiarsi con l'auto tra i solchi e le pozzanghere lasciati dalla pioggia nella ghiaia -, ma non sollevò la mano dal volante per salutare; non individuò Carla. Carla colse il lampo di un braccio abbronzato, nudo fino alla spalla, una chioma piú chiara del solito, tendente al bianco piuttosto che al biondo platino, ormai, e un'espressione determinata, esasperata e divertita dalla propria esasperazione; esattamente la faccia che Mrs Jamieson poteva fare affrontando una strada del genere. Quando voltò la testa, le balenò in viso una specie di speranza interlocutoria, e Carla istintivamente si tirò indietro. Cosí. Forse Clark non lo sapeva ancora. Se era seduto al computer, avrebbe dato le spalle alla finestra e alla strada. Ma non era escluso che Mrs Jamieson dovesse ripassare di lí. Di ritorno dall'aeroporto, poteva non essersi fermata a fare la spesa - non prima di essere rincasata e aver stabilito che cosa le servisse. Clark avrebbe potuto vederla allora. E, col buio, si sarebbero notate le luci di casa sua. Ma era luglio, e non faceva buio fino a tardi. Magari era cosí stanca che non le avrebbe nemmeno accese e sarebbe andata a dormire presto.
D'altra parte poteva telefonare. In qualsiasi momento.
Quella era un'estate di pioggia e poi ancora pioggia. La sentivi già appena sveglio al mattino picchiare sul tetto della casa mobile. Le piste sterrate erano coperte di fango, l'erba alta, grondante, e le foglie rovesciavano scrosci d'acqua improvvisi dagli alberi anche nei rari momenti in cui non diluviava dal cielo e le nubi sembravano diradarsi. Carla si cacciava in testa un vecchio cappello di feltro australiano a tesa larga ogni volta che usciva, e infilava nella camicia la trecciona lunga. Per le escursioni a cavallo non si presentava nessuno, anche se Clark e Carla avevano affisso avvisi pubblicitari in tutti i campeggi, nei caffè, nella bacheca dell'ufficio turistico e dovunque lo ritenessero utile. Venivano solo pochi allievi a lezione, e per di piú quelli abituali, non le infornate di scolaretti in vacanza, gli interi autobus dei campi estivi, che avevano dato loro lavoro per tutta l'estate scorsa. E perfino i fissi sui quali contavano preferivano prendersi qualche giorno per un viaggetto, o semplicemente annullavano le lezioni per via del clima cosí scoraggiante. Se avvisavano troppo tardi, Clark addebitava comunque i costi. Qualcuno si era lamentato e aveva disdetto definitivamente. | << | < | > | >> |Pagina 48Rocce, alberi, acqua, neve. Questi elementi, disposti in modi sempre nuovi, costituivano lo scenario esterno di un finestrino del treno, una mattina tra Natale e Capodanno. Le rocce erano grandi, talvolta sporgenti, talvolta lisce come massi levigati, grigio scuro o decisamente nere. Gli alberi erano per lo piú sempreverdi: pini, abeti, cedri. Gli abeti - abeti neri - mostravano in cima certe crescite ad alberello, simili a miniature di se stessi. I non sempreverdi apparivano spogli e scheletrici: potevano essere pioppi, larici oppure ontani. Alcuni avevano il tronco chiazzato. La neve alta incappucciava la sommità dei massi e foderava il lato degli alberi esposto al vento. Formava una bella coltre liscia sullo specchio di numerosi laghi gelati, di varie dimensioni. L'acqua era sgombra dal ghiaccio solo qua e là, nei torrenti stretti, scuri e impetuosi.Juliet reggeva in grembo un libro aperto, ma non stava leggendo. Non staccava gli occhi da ciò che scorreva all'esterno. Occupava da sola un sedile doppio di fronte a uno analogo, vuoto. Si trovava nel posto che di notte diventava il suo letto. Al momento l'inserviente delle ferrovie era impegnato in quel vagone, a sistemare le carrozze per il giorno. In certi punti i teli verde scuro dotati di cerniera pendevano ancora sul pavimento. C'era nell'aria l'odore di quella stoffa, tipo tela da campeggio, mescolato forse agli odori della notte e dei servizi igienici. Una raffica di fresca aria invernale spazzava la carrozza ogni volta che qualcuno ne apriva le porte alle due estremità. Gli ultimi passeggeri andavano a fare colazione, e qualcuno già ritornava. C'erano delle impronte sulla neve. Piccole orme di animali. Collane di segni a forma di goccia che disegnavano cerchi, sparivano. Juliet aveva ventun anni ed era già in possesso di una laurea in Lettere Classiche. Attualmente lavorava alla tesi di dottorato, ma si era presa una pausa per insegnare latino in un liceo privato femminile, a Vancouver. Non aveva seguito corsi di didattica, ma l'improvvisa malattia di una docente a metà semestre aveva convinto la direzione ad assumerla. Probabilmente nessun altro aveva risposto all'annuncio. Lo stipendio era inferiore a quello che un insegnante abilitato sarebbe stato disposto ad accettare. Juliet però si accontentava di guadagnare qualsiasi cifra, dopo anni di misere borse di studio. Era una ragazza alta, ben fatta e di carnagione bionda, dai capelli castano chiaro che nessun espediente riusciva a far apparire voluminosi. Aveva l'aria sveglia, da scolaretta. Testa alta, un bel mento rotondo, bocca grande dalle labbra sottili, naso in su, occhi luminosi e fronte spesso arrossata dallo sforzo o dall'entusiasmo. I professori l'adoravano - di questi tempi erano grati a chiunque scegliesse di studiare lingue classiche, specie poi se cosí dotato, ma si preoccupavano, anche. Il fatto è che Juliet era una femmina. Se si fosse sposata, eventualità possibile, considerando che non era brutta, per essere una borsista, nient'affatto brutta, avrebbe sprecato tutta la sua fatica e la loro, mentre in caso contrario era probabilmente destinata a diventare depressa e introversa, vedendosi passare avanti i maschi (che avevano piú bisogno di fare carriera, dovendo mantenere una famiglia). E non avrebbe allora saputo difendere la stravaganza di quella scelta per le Lettere Classiche - né accettare il fatto che la gente la considerasse un'assurdità, uno sbaglio infelice - scrollandosela di dosso come avrebbe fatto un uomo. Le scelte stravaganti erano semplicemente piú facili per i maschi, la maggior parte dei quali avrebbe comunque trovato una donna disposta a sposarli. Non altrettanto avvenniva nel caso inverso. Quando si presentò l'occasione di insegnare, tutti la incoraggiarono a non perderla. Tanto di guadagnato. Entra nel mondo reale per un po'. Fatti un'idea della vita. Juliet era abituata a quel genere di consigli, sebbene delusa di sentirli arrivare da quegli stessi uomini che non davano l'impressione di aver poi bazzicato tanto volentieri nel mondo reale. Nella piccola città dove era cresciuta il suo tipo di intelligenza veniva spesso inserito nello stesso ordine di una zoppia o di un sesto dito, e la gente non ci aveva messo tanto a sottolineare in lei i prevedibili inconvenienti collegati alla sua originalità: l'incapacità di utilizzare una macchina da cucire o di confezionare un bel pacco regalo, o di accorgersi che le spuntava la sottoveste dalla gonna. La domanda era: che ne sarebbe stato di lei? Se la facevano anche i suoi genitori, che pure di lei erano fieri. La madre la voleva ben voluta, e a tale scopo la avviò al pattinaggio e allo studio del pianoforte. Juliet praticò entrambi senza entusiasmo, e senza risultati. Il padre invece voleva solo vederla inserita. Devi inserirti, le diceva, altrimenti la gente ti renderà la vita un inferno (il che non teneva conto del fatto che lui stesso, e in particolare la madre di Juliet, pur non essendo molto ben inseriti, non erano poi cosí infelici. Forse dubitava che a Juliet potesse toccare la stessa fortuna). Io sono inserita, diceva Juliet una volta approdata al college. Sono inserita nella Facoltà di Lettere Classiche. Ci sto benissimo. Ma anche lí le giunse il solito messaggio, da parte degli insegnanti che si erano mostrati tanto soddisfatti di lei e consapevoli del suo valore. La loro giovialità non bastava a mascherare l'ansia. Entra nel mondo reale, le avevano detto. Come se il posto dove era stata fino a quel momento non lo fosse. Ciononostante, su quel treno, era felice. | << | < | > | >> |Pagina 110Preparò tè a sufficienza per tutti e tre, e in uno stipetto trovò qualche biscotto integrale, oltre al vassoio in ottone che Sara utilizzava di solito nelle occasioni eleganti.Don prese una tazza di tè, e bevve a lunghi sorsi l'acqua che Juliet si era ricordata di portargli, ma scosse la testa all'offerta dei biscotti. - Non per me, grazie. Sembrò sottolinearlo con enfasi particolare. Come se glielo impedisse il mandato divino. Domandò a Juliet dove abitava, che tipo di clima ci fosse sulla costa occidentale, che lavoro facesse il marito. - Fa il pescatore di gamberi, ma in realtà non è mio marito, - disse Juliet garbatamente. Don annui. Ah, ecco. - Com'è il mare, difficile, da quelle parti? - Dipende. - Whale Bay. Mai sentita, ma adesso me ne ricorderò. E che chiesa frequentate a Whale Bay? - Nessuna. Non andiamo in chiesa. - Non c'è nei paraggi una chiesa della vostra confessione? Sorridendo, Juliet scosse il capo. - Non esiste una chiesa della nostra confessione. Noi non crediamo. La tazza di Don tintinnò leggermente sul piattino. Disse che gli dispiaceva di apprenderlo. - Mi spiace davvero. E da quanto tempo la pensate cosí? - Non saprei. Dalla prima volta che ci ho riflettuto seriamente. - E sua madre mi ha detto che avete un figlio. Una bambina, anzi, dico bene? Sí, disse Juliet, infatti. - E non l'avete mai battezzata? Intendete crescerla da pagana? Juliet disse che secondo lei Penelope avrebbe deciso da sé, un giorno o l'altro. - Comunque intendiamo crescerla senza una religione. Sí. - Che tristezza, - disse Don sottovoce. - Dico per voi. Lei e il suo - non so come lo chiama - avete scelto di rifiutare la grazia di Dio. Benissimo. Siete adulti. Ma rifiutarla a nome di una creatura è come privarla del nutrimento. Juliet senti sgretolarsi la propria compostezza. - Ma noi non crediamo, - disse. - Non crediamo alla grazia di Dio. Non è come privarla del nutrimento, è rifiutarsi di crescerla nella menzogna. - Menzogna. Quello in cui credono milioni di persone in tutto il mondo, lei lo chiama menzogna? Non crede di essere un po' presuntuosa a definire Dio una menzogna? - Milioni di persone non ci credono, vanno soltanto in chiesa, - disse Juliet, accalorandosi. - È che non pensano. Se un Dio esiste, allora Dio mi ha dato un cervello ma non voleva che lo utilizzassi? - E poi, aggiunse, cercando di contenersi, - E poi, milioni di persone credono in cose diverse. Credono a Buddha, per esempio. Dunque il fatto che milioni di persone credano in qualcosa, rende quella cosa necessariamente vera? - Cristo è vivo, - disse Don prontamente. - Buddha no. - Tutte chiacchiere. Che cosa vuol dire? Non vedo prove che sia vivo nessuno dei due, onestamente. - Lei no, magari. Ma altri sí. Lei lo sa che Henry Ford - dico Henry Ford, un uomo che ha tutto ciò che si possa desiderare - si mette comunque in ginocchio e prega Dio ogni sera della sua vita? La discussione stava prendendo la piega inevitabile delle discussioni del genere. La voce del ministro - all'inizio piú affranta che astiosa - pur segnalando da sempre convinzioni irremovibili stava assumendo un tono piú acuto e carico di rimprovero, mentre Juliet, che aveva iniziato, a proprio giudizio, con l'intenzione di opporre una resistenza razionale, pacata, lucida, magari educata ai limiti dell'irritante, era ormai in preda a una rabbia fredda e pungente. Entrambi andavano a caccia di tesi e argomentazioni piú offensive che utili. | << | < | > | >> |Pagina 190Ogni singola via offriva motivo di curiosità: la villa vittoriana (attualmente adibita a casa di riposo), la ciminiera in mattoni che era quanto restava di una fabbrica di scope, il cimitero con lapidi che risalivano al 1842. E per un paio di giorni ci fu anche la Fiera d'Autunno.Osservarono i camion arrancare uno dopo l'altro nel fango, trainando una piattaforma carica di blocchi di cemento che, scivolando in avanti, facevano sbandare gli automezzi di cui, una volta fermi, si misurava la distanza percorsa. Harry e Lauren si scelsero un camion ciascuno per il quale fare il tifo. Ormai a Lauren sembrava di scorgere un brillio fasullo intorno a tutto quel primo periodo, una specie di sconsiderato e sciocco entusiasmo che non faceva i conti con il peso della quotidianità, della vita vera, quella che le toccò affrontare quando ebbe inizio la scuola e incominciò a uscire il giornale e a cambiare il clima. Orsi e alci erano in realtà animali selvatici alle prese coi loro bisogni primari, e non una specie di effetto speciale. E lei adesso non si sarebbe piú data a salti di gioia né a urla, come aveva fatto alla fiera, tifando per il suo camion. Un compagno di scuola avrebbe potuto vederla e pensare che fosse un tipo bislacco. Il che era comunque quello che già piú o meno credevano. Il suo isolamento a scuola si fondava su conoscenze ed esperienze che a occhi estranei, come già in parte aveva capito, potevano passare per candida superbia. Cose che per gli altri rappresentavano misteri peccaminosi, per lei non lo erano affatto, e Lauren non sapeva fingere al riguardo. Era questo a fare di lei una persona a sé, non meno che sapere come si pronunciava correttamente L'Anse aux Meadows e aver letto Il Signore degli Anelli. A cinque anni aveva bevuto mezza bottiglia di birra, a sei aveva tirato da uno spinello, anche se non aveva gradito nessuno dei due esperimenti. Qualche volta a cena beveva un po' di vino, e quello non le dispiaceva. Sapeva cos'era il sesso orale, ed era al corrente di tutti i metodi contraccettivi e di quello che facevano gli omosessuali. Harry e Eileen li aveva visti nudi da sempre, e una volta le era capitato anche con un intero gruppo di loro amici intorno a un fuoco nei boschi. Nel corso di quella stessa vacanza era sgattaiolata fuori insieme ad altri bambini per vedere certi padri intrufolarsi, in base a segreti accordi, in tende di madri che non erano le loro mogli. Uno dei ragazzi le aveva proposto di fare sesso, ma poi non era riuscito ad andare molto oltre, perciò se l'erano giurata e da allora non lo poteva vedere.
Tutto questo era diventato un peso per lei, qui; la metteva in imbarazzo e
la faceva sentire stranamente infelice, quasi svantaggiata rispetto agli altri.
E non c'era molto che potesse fare, a parte ricordarsi, quando era a scuola, di
chiamare Harry ed Eileen mamma e papà. Cosa che li faceva sembrare piú grandi,
ma meno nitidi. I loro contorni precisi tendevano a sfocarsi quando li si
definiva in quel modo, le personalità risultavano leggermente in ombra. Se si
trovava a tu per tu con loro, non aveva strumenti per ottenere lo stesso
effetto. Non riusciva neanche a riconoscere che tutto sommato era meglio cosí.
Alcune compagne di classe di Lauren, trovando la vicinanza della caffetteria irresistibile ma non avendo abbastanza fegato per entrarci, si limitavano a fare il proprio ingresso nell'atrio dell'albergo per poi dirigersi ai servizi femminili. Lí passavano dei quarti d'ora, se non di piú, ad acconciarsi reciprocamente i capelli in vari modi, a imbellettarsi di rossetti rubati magari da Stedmans, e ad annusarsi le pieghe del collo e dei polsi sulle quali avevano spruzzato ogni profumo offerto in prova al supermercato. Quando la invitarono ad andare con loro, Lauren sospettò una specie di scherzo, ma acconsenti comunque, in parte perché in quei pomeriggi sempre piú corti detestava tornarsene tutta sola nella casa ai margini della foresta. Non appena furono nell'atrio, un paio di quelle ragazze la prese e la spinse fino al bancone dietro il quale sedeva, su uno sgabello alto, l'inserviente del ristorante, intenta a battere delle cifre su una calcolatrice. La donna - Lauren già lo sapeva da Harry - si chiamava Delphine. Aveva capelli lunghi e fini che potevano essere tanto biondo platino come bianchi, perché giovane non era. Spesso doveva scostarseli dal viso, proprio come stava facendo in quel momento. Dietro gli occhiali dalla montatura scura, palpebre viola le incappucciavano gli occhi. Aveva la faccia larga, come pure il corpo, pallida e liscia. Ma non dava un'impressione di indolenza. Gli occhi, ora sollevati, erano di un azzurro slavato e si spostavano da una ragazza all'altra come se nessun comportamento riprovevole da parte loro potesse sorprenderla. | << | < | > | >> |Pagina 230[...] Nel paese dove abitava le ragazze si legavano seriamente a qualcuno entro la fine del liceo; alcune neppure finivano la scuola, per sposarsi. Quelle di buona famiglia, ovviamente - le poche i cui genitori potessero permettersi le rette di un college - erano incoraggiate a prendere le distanze dal fidanzatino di turno a scuola prima di trasferirsi e mettersi in cerca di partiti migliori. I giovanotti scaricati trovavano subito qualcuna pronta ad approfittarne, e alle ragazze che non si erano mosse con sufficiente tempestività restava presto ben poca scelta. Oltre una certa età, quasi tutti i nuovi arrivati tendevano a presentarsi con tanto di moglie al seguito.Ma a Robin l'occasione non era mancata. Aveva lasciato il paese per il tirocinio da infermiera, e questo avrebbe dovuto garantirle una partenza diversa. Le aspiranti infermiere avevano lo sbocco dei dottori. Anche su quel fronte, però, aveva fallito. Non se ne rese neanche conto, al tempo. Era troppo seria, forse questo era il problema. Prendeva troppo sul serio cose come il Re Lear e non abbastanza altre, come l'uso che si può fare di una serata danzante o di una partita a tennis. E un certo genere di serietà in una ragazza rischia di offuscarne le grazie. Era comunque difficile farsi venire in mente anche un solo caso in cui Robin invidiasse a qualcuna l'uomo che aveva accanto. Anzi, non riusciva proprio a fare il nome di un ragazzo che le dispiacesse di non aver sposato. Non che fosse contraria al matrimonio per principio. Semplicemente era in attesa, come una quindicenne, e solo di quando in quando le capitava di venir messa di fronte alla sua reale condizione. Ogni tanto una collega le organizzava un incontro galante, in seguito al quale Robin non riusciva a capacitarsi che il soggetto in questione fosse stato ritenuto adatto. E adesso ci si era messo anche Willard a spaventarla, dicendo per scherzo che un giorno o l'altro si sarebbe dovuto trasferire da loro, per darle una mano a badare a Joanne.
Non mancava chi avesse già cominciato a giustificare Robin, a lodarla
perfino, dando per scontato che avesse deciso sin dal principio di dedicare
l'esistenza alla sorella.
Dopo mangiato, lui le chiese se le andava di fare una passeggiata lungo il fiume prima di prendere il treno. Aggiungendo, al suo assenso, che non potevano tuttavia farlo se prima non gli avesse detto come si chiamava. - Può capitare che voglia presentarla a qualcuno - osservò. Lei glielo disse. - Robin? - Sí, Robin come Robin Hood, - rispose lei soprappensiero, ripetendo ciò che spesso le era capitato di dire. Adesso tuttavia provò un tale imbarazzo da non poter far altro che riprendere a parlare precipitosamente. - Ora però tocca a lei dirmi il suo nome. Si chiamava Daniel. - Danilo. Ma qui sono Daniel. - Allora, qui vuoi dire qui, - riprese lei, senza abbandonare quel tono impertinente che era frutto del disagio prodotto dall'uscita su Robin Hood. - Ma che cosa si intende per là, invece? Dove abitava in Montenegro, in città o in campagna? - Stavo sulle montagne. Seduti in quel soggiorno sopra il negozio si erano sempre mantenuti a una certa distanza l'uno dall'altra, e Robin non aveva mai temuto - né sperato, del resto - che tale distanza venisse ridotta da un improvviso movimento, goffo o scaltro che fosse, da parte di lui. Nelle rare occasioni in cui questo si era verificato con altri, Robin si era vergognata per loro. Ora, giocoforza, lei e quest'uomo camminavano abbastanza vicini da sfiorarsi con le braccia se incontravano qualcuno. Oppure lui si spostava appena di lato per non intralciare il passaggio e per un istante le toccava la schiena con un braccio, con il petto. Questi episodi, uniti alla consapevolezza che le persone incontrate dovevano considerarli una coppia, produssero una sorta di ronzio, una tensione a livello di spalle che le percorreva tutto il braccio coinvolto. Lui le chiese di Antonio e Cleopatra, se le era piaciuto (sí) e quale parte l'avesse emozionata di piú. Il pensiero di Robin corse alle varie scene d'amore audaci e convincenti, ma si impedí di ammetterlo. - La parte finale, - disse, - quando lei sta per mettersi l'aspide addosso - stava per dire sul seno, ma cambiò idea, anche se addosso non suonava molto meglio - e il vecchio entra con il canestro di fichi che contiene l'aspide e si mettono quasi a scherzare. Credo che mi sia piaciuto perché non te lo aspetti, in quel momento. Insomma, mi sono piaciuti anche altri passaggi, mi è piaciuta tutta, ma quella parte è diversa. - Sí, - replicò lui. - Piace anche a me. - L'ha vista? - No. Sto mettendo da parte dei soldi, adesso. Ma in passato ho letto tanto Shakespeare, da studente. Dovevamo, per imparare l'inglese. Di giorno imparavo come funziona un orologio, e la notte imparavo l'inglese. E lei, cos'ha studiato? - Non granché, - disse Robin. - Non a scuola, almeno. Poi ho imparato quello che serve per fare l'infermiera. - C'è molto da imparare, per fare l'infermiera. Secondo me. Poi parlarono del fresco della sera, di come fosse gradevole e di come le giornate fossero già piú corte, anche se doveva ancora passare tutto agosto. E di Giunone, che avrebbe avuto voglia di andare con loro, ma si era subito messa tranquilla quando lui le aveva ricordato che doveva restare a guardia del negozio. E il discorso assumeva sempre di piú le sembianze di un espediente concordato, una specie di formale paravento di ciò che si faceva ormai ineluttabile, sempre piú necessario, tra loro. Ma la luce della stazione cancellò all'istante ogni alone di promessa, o di mistero. C'era una fila di persone allo sportello, e lui si accodò agli altri, aspettando il proprio turno, e le comprò il biglietto. Si avviarono al binario, dove c'erano altri passeggeri in attesa. - Se mi scrive su un foglio il suo nome e l'indirizzo completo, - disse lei, le mandero subito i soldi. Ecco, succederà adesso, pensava Robin. Che cosa? Niente. Ora non succederà niente. Arrivederci. Grazie. Le spedisco i soldi. Non c'è fretta. Grazie. Nessun disturbo. Grazie lo stesso. Arrivederci. - Andiamo un po' piú in là, - disse lui, e costeggiarono il binario, allontanandosi dalla luce. - Meglio che lasci perdere i soldi. Sono una somma ridicola e potrebbero comunque non arrivarmi in tempo, perché partirò tra poco. La posta a volte è lenta. - Oh, ma io devo rimborsarla. - Glielo dico io come fa a rimborsarmi. Mi sta a sentire? - Sí. - L'estate prossima sarò di nuovo esattamente qui. Stesso negozio. Sarò qui al piú tardi entro giugno. L'estate prossima. Allora lei sceglierà lo spettacolo e verrà in treno e si presenterà al negozio. - E le darò i soldi allora? - Oh, certo. E io le farò da mangiare, e berremo vino e le racconterò cosa mi è successo durante l'anno e lei farà lo stesso. Ah, e voglio anche un'altra cosa. - Cosa? - Che si metta lo stesso vestito. Questo vestito verde. E che si pettini cosí. Robin scoppiò a ridere. - Per essere sicuro di riconoscermi? - Esatto. Erano in fondo alla pensilina, e lui disse: - Attenta - e poi: - Ti va? - mentre scendevano il gradino sulla ghiaia. - Mi va, - disse Robin con un trasalimento nella voce, vuoi per la superficie improvvisamente irregolare della ghiaia sotto i piedi, vuoi perché a quel punto lui l'aveva presa per le spalle, e le faceva scorrere le mani lungo le braccia nude. - È importante che ci siamo incontrati, - disse. - Secondo me. Secondo te? - Sí, - disse lei. - Sí. Sí. La prese sotto le braccia e se la strinse piú vicina, tenendola in vita, e presero a baciarsi, baciarsi.
La conversazione dei baci. Sommessa, eccitante, sfrontata, rivoluzionaria.
Quando smisero, tremavano entrambi, e fu con fatica che lui recuperò il
controllo della voce, sforzandosi di assumere un tono pratico.
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