Autore Haruhi Murakami
Titolo Uomini senza donne
EdizioneEinaudi, Torino, 2015, Supercoralli , pag. 226, cop.rig.sov., dim. 14x22x1,8 cm , Isbn 978-88-06-22587-2
OriginaleOnna no inai otokotachi [2013]
TraduttoreAntonietta Pastore
LettoreAngela Razzini, 2015
Classe narrativa giapponese












 

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Indice


    3   Drive my car

   39   Yesterday

   75   Organo indipendente

  113   Shahrazād

  143   Kino

  181   Samsa innamorato

  207   Uomini senza donne
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Pagina 3

Drive my car


Nella sua vita Kafuku aveva visto molte donne alla guida di un'auto, e grossomodo le divideva in due categorie: quelle un po' troppo aggressive e quelle un po' troppo prudenti. Le seconde erano molto piú numerose delle prime - cosa della quale possiamo solo rallegrarci. In generale, le donne sono piú corrette e caute degli uomini: e di una guida cauta e corretta è ovvio che nessuno si può lamentare. Anche se a volte, però, può essere esasperante per gli automobilisti intorno.

Quanto alle donne appartenenti all'altro gruppo, le «aggressive», di solito si credevano degli assi del volante. Consideravano quelle troppo prudenti delle imbecilli e si vantavano di non essere come loro. Cambiavano corsia all'improvviso, senza rendersi conto che cosí costringevano gli altri automobilisti a frenare sospirando o ricoprendole di improperi.

Naturalmente, c'erano anche donne che non appartenevano né all'una né all'altra categoria. Donne che guidavano in maniera del tutto normale, né troppo aggressiva, né troppo cauta. Fra queste, alcune erano davvero brave. Anche in loro, tuttavia, Kafuku percepiva segni di tensione. In cosa consistessero, questi segni, non sarebbe stato in grado di dirlo, ma seduto al loro fianco intuiva una certa asperità che si trasmetteva fino a lui, mettendolo a disagio. Provava uno sgradevole bisogno di inumidirsi la gola, e per colmare il silenzio si lanciava in discorsi futili e superflui.

È ovvio che anche fra gli uomini c'era chi guidava bene e chi no. Nella maggior parte dei casi, però, gli uomini al volante non gli davano l'impressione di essere tesi. Non che fossero particolarmente rilassati. Magari in realtà erano un fascio di nervi. Però riuscivano in maniera naturale - forse inconscia - a non lasciar trapelare la tensione nei loro gesti. Pur concentrandosi nella guida, conversavano e si muovevano normalmente. Erano due sfere d'azione diverse. Kafuku non si spiegava il perché di questa differenza di comportamento tra uomini e donne.

Nella vita quotidiana, gli capitava raramente di notarne altre. Di percepire, cioè, una qualche differenza tra le capacità di maschi e femmine. Nella sua professione aveva occasione di lavorare sia con gli uni che con le altre, e, a essere sinceri, si sentiva piú a suo agio con le donne. Erano piú attente ai dettagli, e sapevano ascoltare. Ma quando doveva salire su un'automobile, se a stringere il volante, accanto a lui, erano mani femminili, Kafuku per tutto il tempo ne era sgradevolmente consapevole. Però non aveva mai parlato a nessuno di questa sua visione delle cose. Non gli sembrava un argomento di conversazione proponibile.


Quindi non si mostrò particolarmente contento quando il suo meccanico Oba, a cui aveva chiesto di trovargli un autista, gli propose una giovane donna. Vedendolo perplesso, Oba sorrise con l'aria di chi pensa: «La capisco benissimo».

- Guardi che questa ragazza guida davvero bene, sa, signor Kafuku. Glielo garantisco. Perché non la incontra, una volta? Perché non si fa portare un po' in giro?

- Se me la raccomanda lei, non ho nulla da obiettare, - rispose Kafuku. Aveva bisogno di un autista al piú presto, e Oba era un uomo affidabile. Erano ormai quindici anni che lo conosceva. Aveva capelli come fil di ferro e l'aria di un folletto, ma in materia di automobili era praticamente infallibile.

- Per scrupolo, farei una revisione completa. Se per lei va bene, signor Kafuku, gliela consegno rimessa a nuovo dopodomani alle due. Chiederò alla ragazza di cui le ho parlato di venire qui per quell'ora, cosí potrà metterla alla prova, farsi scorrazzare un poco per il quartiere. Cosa ne pensa? Se non la convince, lo dica tranquillamente. Non ha bisogno di fare complimenti, con me.

- Quanti anni ha?

- Credo venticinque o ventisei. Ma non gliel'ho chiesto, - disse Oba. Poi prosegui, l'aria perplessa: - Come le ho detto, al volante è bravissima, però...

- Però?

- Mah, come spiegarle? Ha un lato... diciamo scomodo.

- In che senso?

- Be', ecco, è un po' scontrosa, di poche parole. E fuma ininterrottamente. Quando la vedrà, capirà cosa voglio dire. Non è il tipo della bambolina, insomma. Non sorride mai. A dirla tutta, si potrebbe quasi definire... sí, un po' rozza.

- Non ha importanza. Anzi, meglio se non è una bellezza: non mi sentirei a mio agio, e poi darei adito a pettegolezzi.

- Allora è perfetta per lei.

- In ogni caso, a guidare è brava, no? Me l'assicura?

- Bravissima. E non «bravissima per essere una donna». E davvero in gamba. In assoluto.

- Adesso che lavoro fa?

- Questo con precisione non lo so. Cassiera in un minimarket, consegna pacchi a domicilio... lavoretti saltuari, insomma, giusto per sbarcare il lunario. Impieghi che può lasciare dall'oggi al domani, se le si presenta un'occasione migliore. È stato un mio conoscente a mandarcela, ma anche da noi la crisi si fa sentire, non possiamo permetterci di assumere un'altra impiegata. Tutto quel che possiamo fare è chiamarla quando ne abbiamo bisogno. Ma penso che sia una ragazza a posto, affidabile. Tanto per cominciare, non beve un goccio d'alcol.

A sentir parlare di alcol, Kafuku si adombrò. Senza rendersene conto, portò la mano destra alla bocca.

- Allora la vedrò dopodomani alle due, — disse. Quella ragazza scontrosa e taciturna, poco affabile, lo interessava.

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Yesterday


Per quel che ne so io, la sola persona che abbia mai provato a tradurre Yesterday dei Beatles in giapponese — anzi, nel dialetto del Kansai — è stato un ragazzo chiamato Kitaru. La cantava spesso nel bagno di casa sua.

    Ieri è l'altro ieri di domani
    il domani dell'altro ieri...

Ricordo che l'incipit era qualcosa del genere, ma è passato tanto di quel tempo che non sono sicurissimo che facesse proprio cosí. In ogni caso erano parole sconclusionate, dall'inizio alla fine. Erano... come dire... una roba davvero assurda che faceva il verso al testo originale senza assomigliarci neanche un po'. La familiare melodia originale, cosí bella e malinconica, associata alla cadenza un po' indolente — priva di pathos, si potrebbe dire — del dialetto del Kansai, formavano un abbinamento strano, un'accoppiata talmente priva di senso da risultare quasi ardita. Perlomeno, alle mie orecchie produceva quest'effetto. Mi faceva ridere, la trovavo sciocca, ma al tempo stesso vi percepivo un messaggio segreto. In ogni caso mi limitavo ad ascoltarla sconcertato.


Kitaru, pur essendo nato e cresciuto nel quartiere di Dennenchōfu a Ōta, nella cintura di Tōkyō, parlava il dialetto del Kansai in modo praticamente perfetto. Io invece, che ero nato e cresciuto nel Kansai, mi esprimevo in un giapponese standard quasi impeccabile — quello che si parla a Tōkyō, insomma. Ora che ci penso, eravamo un'accoppiata davvero singolare.

L'avevo conosciuto quando lavoravo part-time in un caffè vicino all'ingresso principale del campus di Waseda. Io stavo in cucina, Kitaru serviva ai tavoli. Nei momenti di calma chiacchieravamo volentieri. Entrambi ventenni, eravamo nati a una settimana di distanza l'uno dall'altro.

- È un nome insolito, Kitaru, - gli dissi.

- Sí, è vero. Non ce ne sono molti, - fece lui, col suo forte accento del Kansai.

- C'era un lanciatore dei Lotte che si chiamava cosí.

- Sí, ma non c'entra niente con la mia famiglia. Anche se una qualche relazione probabilmente ci sarà, visto che è un nome piuttosto raro.

All'epoca frequentavo il secondo anno di Lettere dell'Università di Waseda. Lui era rōnin e seguiva un corso preparatorio all'esame di ammissione, per il secondo anno di fila, ma non dava certo l'impressione di impegnarsi sul serio. Nel tempo libero leggeva cose che non avevano il minimo rapporto con lo studio. La biografia di Jimi Hendrix, manuali di shōgi, Origine del cosmo... roba del genere. Mi disse che veniva ogni giorno al lavoro da casa dei suoi a Ōta.

- Casa dei tuoi? - chiesi. - E io che ero sicuro che fossi del Kansai!

- Figurati! Sono nato e cresciuto a Dennenchōfu.

A quelle parole rimasi disorientato.

- Scusa, ma allora perché parli nel dialetto del Kansai?

- Be', mi sono messo d'impegno e l'ho imparato. Ce l'ho messa davvero tutta.

- Ti sei messo d'impegno?

- Sí, davvero, l'ho studiato seriamente. I verbi, i sostantivi... insomma, è come studiare l'inglese o il francese. Sono anche andato a far pratica sul luogo.

Impressionante. Era la prima volta che sentivo di qualcuno che «si metteva d'impegno» per imparare il dialetto del Kansai, come fosse una lingua straniera. A Tōkyō c'era veramente di tutto, mi dissi. Mi sentivo come Sanshirō, l'ingenuo protagonista dell'omonimo romanzo di Sōseki che dalla provincia va a studiare nella capitale.

- Sono sempre stato un tifoso degli Hanshin Tigers, fin da bambino. Non mi sono mai perso una loro partita, quando giocavano a Tōkyō. Mettevo l'uniforme bianca a righe nere e andavo a piazzarmi nella sezione dello stadio riservata ai tifosi ospiti. Ma non c'era niente da fare, col mio accento di Tōkyō, appena aprivo bocca nessuno mi degnava piú di uno sguardo. Non c'era verso di farsi accettare nella comunità. Devo imparare il dialetto del Kansai, ho pensato a quel punto. Mi sono rimboccato le maniche e ho studiato tanto da sudare sangue.

- E l'hai imparato cosí bene solo a questo scopo? - chiesi stupefatto.

- Certo. Gli Hanshin Tigers per me erano tutto. Da allora ho sempre parlato nel dialetto del Kansai, sia a casa che a scuola. Persino quando parlo nel sonno, parlo nel dialetto del Kansai, - disse Kitaru. - Come lo trovi il mio accento, non è perfetto?

- Assolutamente. Sembri proprio uno del Kansai, - gli risposi. - Solo che non è veramente l'accento dell'area Hanshin, ma piuttosto quello di Ōsaka. La parlata dell'entroterra, insomma.

- Questo lo so. Quando ero al liceo, durante le vacanze estive ho fatto una vacanza studio a Ōsaka, nel quartiere di Tennōji. Mi sono divertito un casino. Ho persino fatto un giro allo zoo.

- Una vacanza studio? - domandai. Da non crederci!

- Già, se mettessi nella preparazione del concorso lo stesso ardore che ho messo nello studio del dialetto del Kansai, adesso non sarei rōnin per il secondo anno consecutivo... - fece Kitaru.

Proprio cosí, pensai. Anche il vizio di fare un'idiozia e poi darsi del cretino era tipico del Kansai.

- E tu? Di dove sei?

- Della zona di Kōbe.

- Dove, di preciso?

- Ashiya.

- Accidenti! I quartieri alti! Avresti dovuto dirlo subito, invece di girarci intorno.

Cercai di spiegargli. Quando mi chiedevano da dove venivo, se rispondevo «da Ashiya» la gente pensava subito che la mia famiglia fosse ricca. Ma ad Ashiya c'erano famiglie di ogni classe sociale. I miei non erano ricchi. Mio padre era impiegato in una ditta farmaceutica, mia madre segretaria in una biblioteca. Abitavamo in una casa piuttosto piccola, la nostra macchina era una Toyota Corolla beige. Quindi, se qualcuno mi chiedeva da dove venivo, per evitare che si facesse idee sbagliate, avevo deciso di rispondere sempre «dalla zona di Kōbe».

- Be', per me è uguale! - disse Kitaru. - Abito a Dennenchōfu, ma nella parte piú squallida del quartiere, se devo essere sincero. Vieni a vedere, una volta. Non ci crederai. «Come è possibile? Questo sarebbe Dennenchōfu?» Ma perché preoccuparsi di certe cazzate? È solo un indirizzo. Al contrario di te, io gliela sparo in faccia: «Allora? Sono nato e cresciuto a Dennenchōfu, io!»

Lo ammirai. E diventammo amici.

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Pagina 113

Shahrazād


Ogni volta che facevano sesso, la donna gli narrava una storia bellissima, appassionante. Come la Shahrazād delle Mille e una notte. È ovvio che Habara, contrariamente al sultano della leggenda, non aveva alcuna intenzione di tagliarle la testa al sorgere del sole (tanto per cominciare, lei non era mai rimasta fino al mattino). La donna semplicemente amava raccontare. O forse desiderava anche portare qualche conforto a lui, obbligato a stare tutto il tempo solo e chiuso in casa. Ma non doveva essere l'unico motivo, supponeva Habara, probabilmente apprezzava il piacere di parlare con un uomo, accanto a lui nel letto, nel languore e nell'intimità che seguono a un rapporto sessuale.

Habara la chiamava Shahrazād. Era il nome che segnava nella sua agenda nei giorni in cui la donna veniva da lui. Poi riassumeva brevemente la trama dell'ultima storia, ma in modo che nessuno, leggendo quelle note, ci capisse qualcosa.

Habara non sapeva nemmeno se le storie che lei raccontava fossero realmente accadute o frutto della sua fantasia, se fossero in parte o del tutto inventate. Verità e immaginazione, osservazione e sogno erano confusi in modo inestricabile, e orientarsi in questo groviglio non gli era possibile. Di conseguenza si limitava ad ascoltare senza porsi domande. Tanto per lui, nelle sue condizioni, che le storie fossero vere o no, che fossero complicati mosaici di realtà e fantasia, che importanza poteva avere?

In ogni caso, Shahrazād aveva la capacità di catturare la sua attenzione. Di qualunque genere di vicenda si trattasse, raccontata da lei diventava qualcosa di straordinario. Il tono, il modo di ritmare le pause, di procedere nella narrazione, tutto era perfetto. Shahrazād sapeva suscitare l'interesse di una persona, tenerla perfidamente sulla corda, farla riflettere e ipotizzare, e alla fine darle esattamente quello che cercava. La sua abilità, tanto perfetta da essere addirittura detestabile, faceva scordare all'ascoltatore la realtà, anche solo per un'ora. Come uno straccio umido passato su una lavagna, faceva scomparire ricordi sgradevoli che non se ne volevano andare, preoccupazioni cui si preferiva non pensare. E tanto bastava, si diceva Habara. Anzi, dimenticare, in quel momento, era la sua aspirazione piú grande, quello che desiderava piú di ogni altra cosa.

Shahrazād aveva trentacinque anni — quattro piú di Habara —, essenzialmente era una casalinga (benché avesse il diploma d'infermiera e ogni tanto, all'occorrenza, venisse chiamata per qualche lavoro), aveva due figli in età scolare e un marito impiegato in una ditta. Abitava a una ventina di minuti in macchina da Habara, e questo era piú o meno tutto quello che gli aveva detto di se stessa. Naturalmente lui non aveva modo di controllare se fosse vero o falso. Né vedeva qualche ragione particolare per metterlo in dubbio. Il suo nome non gliel'aveva detto. «Che bisogno hai di saperlo?», gli aveva chiesto. E aveva perfettamente ragione. Per lui era soltanto Shahrazād, e per il momento era sufficiente. Nemmeno lei lo chiamava mai «Habara»; evitava con prudenti giri di frasi di dire il suo nome — che doveva per forza conoscere —, quasi che pronunciarlo fosse qualcosa di infausto o disdicevole.

Anche a essere molto generosi, non si poteva paragonare Shahrazād a una delle incantevoli principesse che comparivano nelle Mille e una notte. Era una casalinga di provincia che aveva iniziato a metter su grasso superfluo in varie parti del corpo e si avviava seriamente a entrare nel territorio della mezza età. Il mento le si era ispessito, agli angoli degli occhi le si erano formate piccole rughe. Anche nel taglio dei capelli, nel modo di vestirsi e di truccarsi, benché non fosse trascurata, non la si poteva certo definire elegante. Il suo viso non era affatto brutto, ma era insignificante e passava inosservato. Incrociandola per la strada, salendo con lei nello stesso ascensore, la maggior parte della gente non l'avrebbe degnata di un'occhiata. Forse una decina di anni prima era stata anche lei una ragazza carina e piena di vita, e piú di un uomo si era voltato a guardarla. Ma anche ammettendo che fosse cosí, su quei giorni a un certo punto era calato il sipario. E per il momento nulla lasciava pensare che si sarebbe alzato di nuovo.

Shahrazād veniva alla «house» due volte alla settimana. Non a giorni fissi, però non capitava mai che si presentasse nel weekend. Probabilmente il sabato e la domenica li trascorreva con la famiglia. Circa un'ora prima di arrivare, telefonava. Strada facendo passava da un supermercato a comprare dei prodotti alimentari e li caricava in macchina — una Mazda azzurra di piccola cilindrata, un vecchio modello con un'appariscente ammaccatura sul paraurti posteriore e i cerchioni delle ruote neri di sporcizia. Parcheggiava nello spazio riservato alla «house», sollevava il portellone, prendeva la busta della spesa, e tenendola con tutte e due le braccia suonava il campanello della porta d'ingresso. Habara, dopo aver controllato dallo spioncino che fosse Shahrazād, girava la chiave, toglieva la catena e apriva. Lei andava direttamente in cucina, suddivideva le vettovaglie acquistate e le metteva nel frigo. Poi faceva la lista delle cose da portare la volta dopo. Doveva essere una padrona di casa efficiente, perché lavorava con gesti esperti, senza spreco di energia. Mentre sbrigava le sue faccende, non parlava quasi. Conservava per tutto il tempo un'espressione seria e concentrata.

Una volta terminata quell'operazione, i due, senza che l'iniziativa venisse dall'uno o dall'altra, si spostavano con naturalezza verso la camera da letto, come portati da una corrente invisibile. Lí si toglievano in fretta e in silenzio i vestiti, e si infilavano tra le lenzuola. Si abbracciavano quasi senza scambiarsi una parola e facevano sesso attenendosi grossomodo alle fasi usuali, quasi unissero le forze per assolvere insieme un compito. Quando lei aveva le mestruazioni, per ottenere lo scopo usava le mani. Il suo tocco esperto e professionale ricordava sempre a Habara che era un'infermiera diplomata.

Terminato il rapporto sessuale, restavano distesi uno accanto all'altra a parlare. Cioè era lei che parlava, lui si limitava a fare ogni tanto un cenno, o una breve domanda. E quando le lancette dell'orologio segnavano le quattro e mezza, Shahrazād si interrompeva, anche se era nel bel mezzo della storia (stranamente, succedeva sempre sul piú bello), usciva dal letto, raccoglieva gli indumenti che erano rimasti sparsi sul pavimento, si rivestiva e si preparava ad andarsene. Perché doveva andare a cucinare la cena, diceva.

Habara la riaccompagnava fino all'ingresso, richiudeva la porta con tanto di catena, e da uno spiraglio nelle tende guardava la malconcia automobile azzurra allontanarsi. Verso le sei si preparava una semplice cena con gli ingredienti che trovava nel frigo, e mangiava da solo. Per un certo periodo era stato cuoco, quindi cucinare per lui non era un problema. Durante i pasti beveva acqua minerale (non toccava alcol), poi si faceva un caffè, guardava dei film in dvd, oppure leggeva (poteva leggere per ore, di preferenza libri che meritavano piú di una lettura). Cosí passava le sue giornate. Non aveva nessuno con cui parlare. Nessuno cui telefonare. Privo anche di un computer, non poteva accedere a internet. Non riceveva i giornali, né guardava la televisione (c'era un valido motivo). E naturalmente non poteva uscire. Se per qualche ragione Shahrazād non si fosse piú fatta vedere, avrebbe perso ogni contatto col mondo esterno e sarebbe rimasto solo come un naufrago su un'isola deserta, letteralmente.

Questa possibilità però non lo metteva in ansia. Habara sapeva di essere in una situazione che doveva sistemare con le sue forze. Una situazione difficile, dalla quale tuttavia sarebbe venuto fuori. Non si trovava su un'isola deserta, lui «era» un'isola deserta, si diceva. Alla solitudine era abituato e non lasciava che agisse sui suoi nervi. Quello che lo preoccupava, piuttosto, era il fatto che se fosse rimasto del tutto solo, non avrebbe piú potuto parlare con Shahrazād nel letto. O, piú esattamente, non avrebbe potuto sentire il seguito della storia che lei gli stava raccontando.

Poco dopo essersi assuefatto alla «house», Habara iniziò a farsi crescere la barba, che aveva piuttosto folta. Naturalmente voleva cambiare l'aspetto del suo viso, ma non era l'unica ragione. Il motivo principale era l'ozio forzato. Con la barba lunga, tutti i momenti poteva portare la mano al mento, alle basette, ai baffi e godere di quella sensazione. Poteva passare parecchio tempo a modellarne la forma con forbici e rasoio. Fino ad allora non ci aveva mai fatto caso, ma farsi crescere la barba era un ottimo antidoto alla noia.

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Uomini senza donne


Poco dopo l'una, venni svegliato dal suono del telefono. Un suono che in piena notte ha sempre qualcosa di aggressivo. Come se qualcuno cercasse di lacerare il mondo servendosi di un'arma brutale. In quanto membro del genere umano, dovevo farlo smettere. Quindi mi alzai, andai in soggiorno e sollevai la cornetta.

Un uomo dalla voce bassa mi diede una notizia: una donna aveva lasciato per sempre questo mondo. La voce era quella del marito. Perlomeno, cosí si presentò lui. Mi disse che la moglie, il mercoledí della settimana precedente, si era suicidata. E che comunque stessero le cose, riteneva doveroso farmelo sapere. Comunque stessero le cose. Da quello che potevo giudicare, nel suo tono non c'era la minima traccia di emozione. Come se dettasse il testo di un telegramma. Nessuna pausa fra una parola e l'altra. Una notizia asettica. Un evento privo di circostanze accessorie. Punto.

Come risposi a quell'annuncio? Probabilmente alcune parole le dissi, ma non ricordo piú quali. In ogni caso, seguí un lungo silenzio. Un silenzio che faceva pensare a una profonda buca apertasi improvvisamente nel bel mezzo della strada, e due persone ferme sui due lati a guardarci dentro. Poi l'uomo, senza aggiungere nulla, riagganciò. Cautamente, come quando si posa per terra un fragile oggetto d'arte. Io rimasi in piedi dov'ero, il ricevitore insulsamente in mano. Avevo addosso una maglietta bianca e dei boxer azzurri.

Quello che non capivo era come facesse lui a sapere di me. La donna gli aveva fatto il mio nome dicendogli che ero un suo ex fidanzato? A che scopo? E come mai lui conosceva il mio numero di telefono, visto che non ero sull'elenco? Ma soprattutto, perché quell'uomo si era sentito in obbligo di chiamare me per annunciarmi che la moglie era morta? Non riuscivo a credere che lei, nelle sue ultime volontà, avesse lasciato scritto di farlo. Eravamo stati insieme molti anni addietro. E dopo esserci lasciati, non ci eravamo piú rivisti. Nemmeno parlati al telefono.

Comunque, tutto questo non aveva importanza. Il problema era che lui non mi aveva dato uno straccio di spiegazione. Sentendo il dovere di informarmi del suicidio della moglie, si era procurato in qualche modo il mio numero. Ma non aveva ritenuto necessario darmi notizie piú dettagliate. Sembrava che il suo scopo fosse stato di piazzarmi in un punto intermedio tra la conoscenza e l'ignoranza. Ma perché? Voleva insegnarmi qualcosa?

Cosa, ad esempio?

Non ci capivo niente. Andavo moltiplicando i punti interrogativi. Come un bambino che continui a stampare a caso sul quaderno, uno dopo l'altro, timbri di gomma.

Di conseguenza ancora adesso non so perché lei si sia suicidata, né quale modo abbia scelto di togliersi la vita. Anche avessi voluto indagare, non ne avevo i mezzi. Ignoravo dove abitasse, e tanto per cominciare non avevo mai saputo che si fosse sposata. Né conoscevo, ovviamente, il suo nuovo cognome (al telefono il marito non si era presentato). A quando risaliva il matrimonio? Aveva dei figli? Eppure presi per buono tutto quello che il marito mi disse al telefono, non dubitai mai che non mi avesse detto la verità. Dopo essersi separata da me, lei aveva continuato a esistere in questo mondo, si era (probabilmente) innamorata di un uomo, l'aveva sposato, e poi il mercoledí della settimana precedente, per qualche ragione, con qualche mezzo, si era tolta la vita. «Comunque stessero le cose». Nella voce di lui c'era in effetti qualcosa di profondamente legato al mondo della donna morta. Nel silenzio della notte, percepii quel legame. Vidi lo sfolgorio di un filo teso fino allo spasimo. In questo senso - a prescindere dal fatto che fosse intenzionale o meno - telefonarmi all'una del mattino, da parte di lui, era stata una scelta giusta. Se mi avesse chiamato all'una del pomeriggio, forse non avrebbe ottenuto lo stesso risultato.

Alla fine posai il ricevitore e tornai a letto. Anche mia moglie si era svegliata.

- Chi era? E morto qualcuno? - mi chiese.

- No, nessuno. Hanno sbagliato numero, - dissi. Con voce assonnata, strascicando le parole.

Naturalmente lei non ci credette. Perché nel mio tono si era insinuata l'ombra della suicida. Il turbamento che crea la morte di una persona ha una fortissima capacità infettiva. Si manifesta in un lieve tremore che si propaga attraverso i fili del telefono, e diventa una vibrazione nella voce che fa oscillare il mondo. Mia moglie però non fece commenti. Distesi uno accanto all'altra nel buio, seguimmo ognuno i propri pensieri, tendendo l'orecchio al silenzio.


Era la terza, fra le donne con cui avevo avuto una relazione, che sceglieva di darsi la morte. A pensarci bene, anzi, senza bisogno di pensarci piú di tanto, era un tasso di mortalità altissimo. Stentavo a crederci. Perché non è che fossi stato con tante donne... Per quale motivo si erano tolte la vita una dopo l'altra, ancora giovani? Cosa le aveva obbligate a farlo? Non lo capivo. Purché non fosse colpa mia, mi dissi. Purché io non c'entrassi nulla. Purché non avessero pensato a me come a un testimone oculare, o a qualcuno che registrasse l'evento. Lo speravo sinceramente. Inoltre... come dire? Comunque la si rigiri, lei, la terza donna (per comodità qui la chiamerò Emu), non era il genere di persona che si suicida. Perché Emu avrebbe sempre dovuto essere vegliata e protetta dai robusti marinai del mondo intero!

Non posso raccontare che tipo di donna fosse Emu, dove e quando ci siamo conosciuti, quali cose abbiamo fatto insieme. Chiedo scusa, ma se entrassi nei dettagli creerei dei problemi reali. Probabilmente metterei in imbarazzo diverse persone che sono ancora in vita. Di conseguenza tutto quello che posso scrivere, da parte mia, è che molto tempo fa, per un certo periodo, ho avuto con lei un legame assai intimo, e che a un certo punto sono sorti dei motivi per cui ci siamo lasciati.

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