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| << | < | > | >> |Pagina 11Nei konbini in Giappone risuonano sempre mille rumori. Dal trillo all'ingresso che annuncia l'arrivo dei clienti alla voce cantilenante di una star della TV che pubblicizza nuovi prodotti e si diffonde nel negozio attraverso gli altoparlanti. Dal saluto dei commessi che accolgono i clienti gridando a perdifiato ai bip dello scanner alla cassa. Il tonfo dei prodotti sul fondo del cestino della spesa. Il fruscio dell'involucro di cellophane di dolcetti e focaccine. Il ticchettio dei tacchi sul pavimento. Una miriade di suoni che si fondono tra loro e si insinuano dentro di me senza sosta: è la "musica del konbini".Qualcuno prende una bibita dallo scaffale frigorifero: il rullio sordo e breve della bottiglia che scivola in avanti rimpiazzando la precedente attira la mia attenzione e mi fa sollevare la testa. È una reazione istintiva, il mio corpo si mette in moto da solo e si prepara ad accogliere il cliente con la sua bevanda ghiacciata. Ma la ragazza che stringe in mano la bottiglietta di acqua minerale si ferma davanti allo scaffale dei dessert, senza dirigersi alla cassa. Allora abbasso di nuovo lo sguardo e torno alle mie faccende. Metto in ordine gli onigiri appena consegnati, lasciando che il mio corpo recepisca le informazioni trasmesse dai mille suoni che si rincorrono da una parte all'altra del negozio. A quest'ora del mattino si vendono soprattutto onigiri, tramezzini e insalate. Sugawara, che lavora qui part-time, verifica la merce con un piccolo lettore di codici a barre, mentre io continuo a sistemare con cura gli onigiri di produzione industriale. Due file di quelli nuovi alle uova di merluzzo e formaggio al centro; due file di quelli al tonno e maionese da un lato, che sono di gran lunga i più venduti; una sola fila di quelli alle scaglie di tonnetto essiccato e salsa di soia dall'altro, che riscuotono meno successo. È come una corsa contro il tempo: mi do da fare senza riflettere, lasciando che il mio corpo obbedisca all'abitudine. Un tintinnio metallico richiama di nuovo la mia attenzione. È il rumore di monete raccolte dalla tasca o agitate distrattamente nel palmo della mano, un gesto tipico dei clienti venuti a comprare in tutta fretta un pacchetto di sigarette o un giornale. Non mi sono sbagliata, il mio istinto è infallibile: un tizio avanza dal centro del negozio, una lattina di caffè freddo in una mano, l'altra infilata in tasca. Raddrizzo la schiena e mi precipito alla cassa. Il cliente non deve mai aspettare. «Buongiorno, signore!» lo saluto a voce alta, producendomi in un ossequioso inchino e invitandolo a porgermi la lattina di caffè. «Mi dia anche delle sigarette» mi fa. «Le numero cinque». «Certamente. Come desidera». Prendo un pacchetto di Marlboro Lights al mentolo dall'espositore alle mie spalle e lo passo allo scanner. «La prego, per favore, di voler confermare che è maggiorenne» gli chiedo in tono molto cortese, indicandogli lo schermo accanto alla cassa. Mentre accosta la punta dell'indice al touch screen l'uomo si volta verso la vetrina riscaldata da banco. Mi viene da chiedergli se desidera altro ma ci ripenso e faccio mezzo passo indietro, aspettando in silenzio. Mi comporto così tutte le volte che una persona appare indecisa: è un'altra delle nostre regole, mai pressare il cliente. «Mi dia anche uno di quei corn dog» dice finalmente. «Subito, signore. Grazie!». Mi disinfetto le mani con la soluzione igienizzante prima di aprire la vetrina, afferro con delicatezza un corn dog e lo infilo in un sacchetto di carta. «Vuole che metta la bevanda fredda in una busta a parte?». «No, va bene tutto insieme». Metto la lattina di caffè, le sigarette e il corn dog in un sacchettino di plastica. L'uomo, che fino a qualche istante fa continuava a far tintinnare rumorosamente le monete in tasca, si porta la mano sul petto all'altezza del taschino: vuole usare una carta prepagata. «Pago con Suica». «Va bene, signore. Accosti pure la carta al lettore ottico, per favore». Il mio corpo si muove da solo, stimolato dai gesti e dagli sguardi del cliente che i miei occhi e le mie orecchie captano e decifrano come fossero dei sensori ad alta efficienza. Reagisco con molta cautela, evitando di metterlo a disagio con occhiate troppo insistenti. «Ecco la sua ricevuta, prego». Mormora un "grazie" appena udibile, infila lo scontrino in tasca e si dirige verso l'uscita. «Buongiorno, signora! Mi scusi per l'attesa» dico alla cliente successiva, sorridendo e inchinandomi come sempre. La mattinata procede senza intoppi dentro questa piccola scatola luminosa a forma di rettangolo. Sagome umane passano in fretta al di là delle porte a vetri perfettamente pulite. È l'inizio della giornata, l'ora in cui il mondo si sveglia e i suoi ingranaggi si rimettono in moto. Io stessa non sono altro che un minuscolo componente di quel meccanismo che gira senza mai fermarsi, in quell'intervallo di tempo che chiamiamo "mattina". Izumi, una mia coetanea responsabile dei commessi part-time, mi si avvicina mentre mi accingo a tornare ai miei onigiri. «Furukura» mi fa, «quante banconote da cinquemila yen abbiamo in cassa?». «Solo due...». «Ah, che guaio! Oggi si presentano tutti con i diecimila, non si saranno messi mica d'accordo? Siamo a corto di cinquemila, neanche di là in cassaforte ne sono rimasti molti. Mi sa che più tardi dovrò fare un salto in banca, magari aspetterò le ultime consegne, quando ci saranno meno clienti». «Ah, sì, grazie!». In quest'ultimo periodo la carenza di personale disposto a coprire il turno di notte costringe il gestore del konbini a lavorare dalla sera all'alba successiva. Di conseguenza io e Izumi, che ci occupiamo del negozio durante il giorno, dobbiamo svolgere diverse mansioni che spetterebbero a impiegati con contratto a tempo indeterminato. «Ci andrò verso lo dieci, va bene? Ah, non dimenticare che oggi dovrebbe farsi vivo quel cliente che ha ordinato gli inarizushi. Occupatene tu, mi raccomando». «Sì, d'accordo!».
L'orologio indica già le nove e mezza. A breve l'affluenza dei clienti
diminuirà e si dovrà mettere a posto il resto della merce il più in fretta
possibile in previsione della ressa di mezzogiorno. Mi stiracchio un po' la
schiena e riprendo a sistemare gli
onigiri
nel loro scaffale.
Ho solo un ricordo sbiadito del periodo precedente alla mia "rinascita" come commessa del konbini. Sono nata e cresciuta in un quartiere di periferia, in una famiglia come tante, ricevendo una dose di affetto nella media. Eppure ero una ragazzina un po' strana. Ecco un esempio che risale a quando andavo all'asilo. Un giorno al parco trovammo un uccellino morto. Un bel passerotto blu, forse scappato da una gabbia, che giaceva inerte al suolo con la testa piegata da un lato e gli occhi chiusi. I bambini radunati intorno erano tristi, piangevano. «Che cosa facciamo?» chiese una bimba, tra un singhiozzo e l'altro. Allora mi chinai, presi senza indugio il passerotto e lo portai alle mamme sedute a chiacchierare sulle panchine lì vicino. «Che succede, Keiko? Che cos'hai in mano? Ah, un uccellino! Chissà da dove veniva, poverino. Vuoi che lo seppelliamo?» mi chiese con voce dolce mia madre, accarezzandomi la testa. «Potremmo mangiarlo!» le risposi io decisa, dopo averci pensato un attimo. «Eh? Cosa?». «Papà adora gli yakitori, no? Potremmo farlo arrosto e mangiarlo stasera» precisai scandendo ogni singola parola, convinta che mia madre non avesse capito la mia risposta. La signora seduta al suo fianco mi fissò a bocca aperta, gli occhi e le narici spalancati, con un'espressione così strampalata che per poco non scoppiai a ridere. Starà forse pensando che un uccellino non basterà a sfamare tre o quattro persone?, mi chiesi, visto che continuava a fissarmi le mani. «Provo a catturarne altri?» mi venne spontaneo domandare, voltandomi verso due o tre passerotti che saltellavano là intorno. «Keiko, sei impazzita?» gridò mia madre, in tono di rimprovero. «È nostro dovere seppellire questo uccellino. Guarda, le tue amichette stanno piangendo. È una cosa triste quando muore qualcuno, questo povero passerotto non ti fa pena?». «Mica tanto... Ormai è morto, no?». Quella risposta lasciò mia madre senza parole. In quel momento pensavo che mangiare quell'uccellino fosse la cosa più normale del mondo, ero certa che la mia famiglia ne sarebbe stata più che felice. Dopotutto mio padre andava matto per gli yakitori, e io e la mia sorellina festeggiavamo ogni volta che in tavola c'era il pollo fritto. Senza contare che il parco era pieno di passerotti. Che cosa sarebbe cambiato se ne avessimo preso qualcuno? Perché bisognava darsi pena di seppellire quell'uccellino anziché mangiarlo? Non riuscivo a capire, mi pareva tutto così assurdo. | << | < | > | >> |Pagina 29Di tanto in tanto uso la calcolatrice per verificare il tempo esatto che è trascorso da quel giorno. Le luci dello SmileMart vicino alla stazione di Nisshokuchō sono rimaste sempre accese, la sua porta sempre aperta: il negozio ha celebrato di recente i suoi diciotto anni di vita, il primo maggio. Sono passate esattamente 157.800 ore dall'apertura. E a trentasei anni anch'io ho celebrato il mio diciottesimo anniversario come commessa di quel konbini. Nessuno dei miei colleghi dell'epoca del training lavora ancora con me. Nel frattempo si sono avvicendati ben otto responsabili. I prodotti negli scaffali sono completamente diversi rispetto a diciotto anni fa. Ma io continuo a stare nello stesso posto senza mai cambiare, come prima, come sempre.I miei genitori furono molto contenti quando iniziai a fare questo lavoro. E quando mi laureai e dissi loro che avrei continuato non smisero di sostenermi, felici di constatare quanto fossi cambiata grazie al mio lavoretto. Almeno avevo stabilito un primo flebile contatto con il mondo. All'inizio, ai tempi del primo anno di università, lavoravo al konbini quattro giorni a settimana, inclusi sabato e domenica. Poi sono passata ai classici cinque giorni. Quando torno nel mio piccolo monolocale di sei tatami e mezzo mi abbandono seduta stante sul futon, steso giorno e notte sul pavimento. Ho cominciato a vivere da sola subito dopo essere entrata all'università: trovai un alloggio molto economico e lasciai casa dei miei senza pensarci due volte. Loro iniziarono a preoccuparsi sul serio solo quando videro che mi ostinavo a lavorare al konbini senza cercarmi un impiego degno di questo nome, ma ormai era già troppo tardi, avevo fatto la mia scelta. Perché avrei dovuto lasciare il part-time da SmileMart e procurarmi un lavoro "normale"? Non riuscivo a capire. D'altra parte ero una commessa perfetta perché applicavo alla lettera le istruzioni di un manuale, ma non avevo la più pallida idea di cosa significasse essere una "persona normale" al di fuori del mio konbini, senza niente e nessuno che mi dicesse cosa fare. I miei genitori si sforzavano di essere comprensivi e mi lasciavano fare, anche se il mio mondo restava ancorato al piccolo negozio di Nisshokuchō. Sentendomi in colpa, dopo la laurea e negli anni immediatamente successivi provai a sostenere dei colloqui di lavoro in alcune aziende, ma il più delle volte il mio CV, che nello spazio riservato alle esperienze lavorative non includeva altro che il part-time da SmileMart, veniva cestinato nel giro di un paio di secondi. Nelle rare occasioni in cui mi ritrovavo faccia a faccia con un impiegato di questa o quell'altra azienda, finivo col fare quasi scena muta ed ero incapace di spiegare perché non mi fossi mai spinta oltre un semplice part-time a tempo determinato. Spesso, forse perché ci passo gran parte delle mie giornate, mi capita di sognare di essere al negozio, alla cassa. Apro gli occhi e penso: "Caspita, non hanno ancora messo il prezzo sulle nuove buste di patatine!". Oppure: "Ehi, abbiamo venduto tè caldo in bottiglia a bizzeffe, bisogna sbrigarsi con il riassortimento!". A volte mi succede addirittura di svegliarmi in piena notte al suono della mia stessa voce: Irasshaimase! Irasshaimase! Nelle notti in cui non riesco a prendere sonno i miei pensieri corrono verso quella scatola di vetro trasparente, dove la vita non si ferma neanche per un istante, le luci sempre sparati a mille. All'interno di quella specie di acquario freddo e asettico tutto va avanti come un congegno perfetto. E finalmente provo un certo sollievo e mi addormento, rasserenata da quelle scene familiari e dalla musica del konbini. Il mattino dopo, come sempre, rivesto í miei panni di commessa e ritrovo in un attimo il mio posto tra gli ingranaggi del mondo. Solo in quel caso, e in nessun altro, posso dire di funzionare come una persona "normale". | << | < | > | >> |Pagina 45«Keiko, posso farti una domanda un po' indiscreta? Ti sei mai innamorata?» mi chiede all'improvviso Satsuki, in tono scherzoso.«Innamorata? Che vuol dire?». «Se sei mai stata con qualcuno... Sai com'è, non ce ne hai mai parlato...». «Ah, okay. No, credo di non essermi mai innamorata di nessuno». La mia risposta rapida e sincera genera un silenzio tombale. Ammutolite, le mie amiche si scambiano dei lunghi sguardi imbarazzati. Ho sbagliato? Forse avrei fatto meglio a mentire e a inventarmi una risposta più ambigua, del tipo: "Ho avuto delle storie ma niente di che, credo di non avere ancora trovato l'uomo giusto". In questo modo avrebbero finito col pensare che non ho avuto relazioni stabili ma che almeno sono andata a letto con qualcuno. Non so, qualcosa di complicato, una tresca con un uomo sposato, per esempio. Ci avrei fatto una figura migliore, stando al loro punto di vista di donne "normali". Che stupida, eppure mia sorella è sempre stata molto chiara: «Per quanto riguarda le questioni private cerca di tenerti il più possibile sul vago. Così il tuo interlocutore interpreterà le tue risposte come gli pare. È un metodo infallibile, credimi». Come ho fatto a dimenticarmene? Mi sono fregata con le mie stesse mani. «Io ho molti amici omosessuali, su questo non ho alcun tipo di problema» afferma Miho rompendo il silenzio, come per tastare il terreno. «Per me non c'è nessuna differenza, se un'amicizia è sincera... E poi oggi si sente parlare sempre più spesso anche di asessualità, no?». «Sì, è vero, pare che i giovani disinteressati al sesso siano in forte aumento. Chissà come mai, eh?». «In TV ne parlano tanto, e comunque pare sia molto difficile fare coming-out...». Non ho esperienza in materia, non ho una coscienza ben definita della mia sessualità. Non mi sono mai interessata più di tanto all'argomento e, a essere sincera, non l'ho mai vissuto come un problema. Miho e le altre la vedono in modo diverso, lo so, e immaginano che per me sia un dramma. "Poverina, deve essere terribile, chissà che angoscia", staranno pensando in questo preciso istante. Ma si sbagliano di grosso, io sto bene così, e in ogni caso non è così semplice. Né loro né gli altri ci arrivano, è fuori dal loro modo di concepire le cose. In fondo preferiscono riempirsi il cervello con mille supposizioni superficiali e frettolose e schierarsi indebitamente dalla parte del giusto. Quella volta alle elementari, quando presi a palate il mio compagno di classe, gli adulti decretarono in quattro e quattr'otto che ero una "ragazzina problematica" e che avevo agito in quel modo a causa di chissà quali "problemi familiari", facendo ricadere la colpa sui miei genitori. Come al solito a loro conveniva liquidare la questione senza approfondirla, prendendo la strada più facile: "Ragazzina problematica a causa di probabili maltrattamenti in famiglia", come un'etichetta appiccicata su un prodotto qualsiasi, un timbro apposto in tutta fretta su un pacco. A loro interessava una sola cosa: avere ragione a tutti i costi e archiviare il caso, in base ai loro parametri e alle loro regole. È assurdo, perché la gente ha sempre bisogno di sentirsi rassicurata? Perché gli altri vogliono decidere tutto? Ecco perché alla fine, ogni volta che la storia si ripete, ricorro alla solita scusa di mia sorella: "Sì, certo, però ti ricordo che sono cagionevole di salute...". «Sì, certo, però vi ricordo che fisicamente non sto molto bene» dico guardando a turno Miho e le altre. E loro, le mie presunte amiche, mi guardano con compassione e replicano una dopo l'altra, a raffica: «Ah, è vero, quando si è malati tutto diventa più difficile, eh?», «Però è un bel po' che hai questo problema, sei sicura che vada tutto bene?», «Scusa, scusa, me n'ero proprio dimenticata...». Come vorrei poter spiccare il volo e tornare immediatamente nel mio konbini. Lì tutto è più semplice, l'unica cosa che conta è essere un membro della stessa squadra. Poco importa il genere sessuale, l'età e il luogo di nascita: siamo tutti uguali, indossiamo la stessa divisa. Do un'occhiata all'orologio: sono le tre del pomeriggio. A quest'ora si preleva il contante dalle casse per portarlo in banca, dove si cambiano anche le banconote di grosso taglio. Subito dopo arriva il camion con i dolcetti, le focaccine e i bentō e bisogna sistemare tutto sugli scaffali. Anche se sono distante fisicamente, resto in contatto perenne con il konbini. Anche se sono lontana, non smetto mai di pensare allo SmileMart di Nisshokuchō e ai mille piccoli avvenimenti che animano quel mondo luminoso, e intanto mi accarezzo piano le ginocchia con le mani, le unghie tagliate corte per poter gestire al meglio le operazioni alla cassa. | << | < | > | >> |Pagina 97Shiraha mi guarda allibito. Approfitto del suo silenzio per illustrargli meglio la mia idea.«Come hai ripetuto più volte tu stesso, forse il mondo è ancora fermo al periodo Jōmon. Gli individui considerati inutili per la comunità sono perseguitati e banditi. In altre parole funziona più meno come in un konbini: i commessi inefficienti vengono cacciati e sostituiti. Non ci avevi mai pensato?». «E ora cosa c'entrano i konbini?». «In un konbini bisogna impegnarsi e conservare il proprio posto di commesso il più a lungo possibile. Non c'è niente di più semplice: è sufficiente indossare la divisa e attenersi alle regole del manuale. È come nel periodo Jōmon, no? Basta assumere le sembianze di una persona "normale" e applicare le regole, così che la comunità non ci tratti da intrusi e ci lasci in pace». «Stai dando i numeri? Non capisco niente di quello che stai dicendo». «Ascoltami bene, Shiraha, cerca di concentrarti. In parole povere, occorre interpretare il ruolo di un essere fittizio, una "persona normale" uguale a tutte le altre. Bisogna recitare e starsene buoni. Al konbini facciamo più o meno tutti la stessa cosa: recitiamo la parte di un personaggio immaginario, quella del "commesso" uguale a mille altri». «No, è assurdo, non mi sottoporrò mai a una tortura del genere!». «Shiraha, cerca di ragionare, per favore. Sei stato tu a dire che bisogna adeguarsi alle regole della società o sbaglio? Che fai, ti fermi davanti al primo ostacolo? Tocca affrontare il mondo di petto e sacrificarsi, perché solo così è possibile conquistare una libertà almeno parziale. Più che rodersi il fegato e prendersela con tutto e tutti, conviene combattere le difficoltà senza scappare. Partecipare alla comunità per essere liberi dentro: capisci cosa intendo?». Shiraha si limita a fissare il suo caffè scadente senza pronunciare una parola. «Se proprio non ce la fai, se per te è troppo dura» vado avanti, «allora è meglio lasciar perdere. Diversamente da te, io me ne infischio di tutto e di tutti. Non ho ideali particolari, non ne ho mai avuti. E non sono mai stata orgogliosa, mi va più che bene seguire le regole della comunità e restare entro i confini del "villaggio"». Cerco di cancellare dalla mia vita tutto ciò per cui gli altri mi ritengono strana. A poco a poco mi sforzo di diventare "normale". È un modo per curarmi e sperare di guarire? Sì, può darsi. Nelle ultime due settimane mi hanno chiesto ben quattordici volte: «Perché sei ancora single?». E dodici volte: «Come mai continui a lavorare in quel konbini?». A questo punto mi conviene fare il possibile per togliere di mezzo almeno la prima domanda, quella più frequente. Così la mia distanza dalla cosiddetta normalità si dimezzerà abbondantemente.
Ho bisogno di un cambiamento. Nel bene o nel male,
sarà sempre meglio dell'impasse in cui mi trovo. Taciturno più che mai, Shiraha
continua a fissare la superficie del suo caffè, lo sguardo serio, come se in
quel liquido nero si fosse aperta una voragine profonda.
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