Copertina
Autore Tarcisio Muratore
Titolo Misteri e leggende dal Tigullio a Spezia
SottotitoloLa costa e le valli interne
EdizioneMuzzio, Roma, 2004, Archivio del racconto , pag. 272, cop.fle., dim. 130x220x23 mm , Isbn 978-88-7413-117-4
CuratoreTarcisio Muratore
LettoreCorrado Leonardo, 2005
Classe leggende , favole , ragazzi
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Indice

INTRODUZIONE, 11

DIAVOLI, STREGHE E ALTRI PORTENTI

Il ballo delle streghe, 31
Cataenin e il fegatello, 33
Il lago del diavolo, 35
Giuliano, 40
Il discorso dei buoi, 42
La cava di Santa Giulia, 44
Uno a te, uno a me, 46
La grotta della Bartura, 48
L'anello della Dragönn-a, 49
Lo zampino del gatto, 51
Le dodici parole, 52
La zampa del diavolo, 64
La Compagnia dei Bianchi, 66

AMORI FANTASTICI, AMORI TRAGICI

Le spine delle rose, 71
Il dente d'oro, 73
La fiammella in fondo al salto, 80
La figlia nubile, 82
Le rocce di Sant'Anna, 84
L'acqua del Ravino, 87
Marcantonio e Rosalia, 89
Lorenzo e Agatina, 102
La romanza degli amanti, 108

SANTI E MIRACOLI

La favola di Sant'Antonio, 113
San Giovanni Battista, 115
San Colombano, 117
La leggenda di San Prospero, 121
Il Cristo Nero, 122
La Madonna dei Miracoli, 124
Il Santo del Tino, 126
San Venerio e il dragone, 140
L'angelo e il drago, 141
La colomba rivelatrice, 144
Lotte di paesi e di Santi, 146

FURBI E STUPIDI

Lo zoppo, 151
Maggiolungo, 153
Succa e Mattana, 155
Il paesano e i testi, 160
Erba per tre, 161
I süvernon,162
I tre scemi, 165
Gente di Biassa, 168
Il Padre Eterno, 173
Il ciliegio di Riomaggiore, 175
Come il Cicco se ne andò all'Inferno, 178
Il fabbro Martino, 180
Il campanile che cresce, 182
Il Curato e il mandriano, 184
Il tesoro del monte Zucchello, 186
Le due vie, 188
Il professore e il bovaro di Ceparana, 189

BANDITI E PIRATI

I falsi e i veri gendarmi, 193
Le cento croci, 196
La fontana pidocchiosa, 205
Le campane di Oleastra, 207

COLORI DI FIABA

La donnina che andava alle fiere, 217
Il pescatore e il vento, 221
La luna e il mare, 223
Il cecino, 225
La moglie del drago, 228
Il folletto generoso, 229
Le tre gallinelle, 231
La bella di Bargagli, 235
Papà Lucerna, 240
La vendetta della Sirena, 243
Balletta, 246
Petin e Petò, 250

NOTE, 253

FONTI, 259

BIBLIOGRAFIA, 269

 

 

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Pagina 11

INTRODUZIONE



I Liguri: gente restia a parlare di sé?

L'origine dei Liguri si perde nel mistero, assume le forme del mito. E se questo è vero per molti altri popoli, per i Liguri lo è ancora di più. Fantasiosamente considerati i discendenti del terzo figlio di Noè, Iafet, non si sa però da dove abbiano preso il nome: Stefano Bizantino, sulle orme del geografo Artemidoro di Efeso (fine del II sec. a.C.), ne azzarda la derivazione dal cosiddetto fiume Ligure, forse identificabile con il Liger ossia la Loira e li colloca, senza troppe esitazioni, a Occidente, vicino ai Tirreni. La Francia, quindi, sarebbe formata di un substrato ligure; anzi, a voler essere più precisi, di Liguri si dovrebbe parlare dall'Atlantico spagnolo al Guadalquivir e alle foci dell'Ebro; dalla Sicilia fino all'odierna Gran Bretagna, che al primitivo eroe ligure-asturiano Albion dovrebbe uno dei suoi epiteti più famosi: Albione, appunto. Per non parlare poi del Golfo del Leone, più propriamente kòlpos ligùon: in greco Golfo dei Liguri!

Liguri quasi dappertutto, allora? Sembrerebbe di sì, a prestar fede alle altre testimonianze su quelli dell'Asia Minore orientale e del Caucaso, che ancora attendono studi specifici.

In realtà, i primi Liguri che i Romani conobbero si trovavano a sud del Po e nelle Alpi occidentali. Successivamente, sia che i Fasti trionfali ne parlassero in generale sia che li citassero come Apuani o Voconzi, Salluvi o Eleati, si riferivano sempre a popolazioni costiere, di un'area comunemente considerata ligure. Popolazioni che avevano già alle spalle almeno mille armi di storia, a partire dall'età del ferro; discendenti diretti dei pastori-agricoltori transumanti dalle valli e dai piani, verso le cime più alte dei monti, magari fino al Monte Bego, presso il Colle di Tenda, dove crearono il loro primo "santuario": quarantamila graffiti che costituiscono la prima vera testimonianza di una civiltà «saldamente ancorata alla terra e all'agricoltura, priva di immaginosità e portata al realismo piuttosto che all'idealizzazione, legata per riti e credenze al Mediterraneo». A quel mare che, in seguito, li avrebbe visti per molto tempo protagonisti assoluti.

In definitiva, una stirpe dura e tenace, incline a lottare e portata a cogliere soprattutto l'aspetto pratico delle cose. Non però tanto truce e insensibile da rendere credibile l'accusa di uccidere i genitori facendoli precipitare, quando non erano più utili a causa della vecchiaia.


Ma cosa c'entra tutto questo con i misteri e le leggende, o con le favole? Serve a mettere in evidenza l'insanabile contraddizione di fronte alla quale si trova chiunque voglia approfondire l'argomento.

Da una parte, infatti, l'origine di un popolo di cui gli altri, in primis i Greci e soprattutto i Romani, si sono occupati e sul quale hanno tracciato innumerevoli percorsi, hanno "inventato" e raccontato storie straordinarie. Così, per esempio, si ritrova il solito Albion nella radice stessa di Albium Intemelium (Ventimiglia) e di Albium Ingaunum (Albenga). Oppure ci si meraviglia non poco per i miti fantastici che Italo Scovazzi ci propone: Diana, durante una caccia al cervo, «sosta in un luogo che da lei ebbe poi il nome Diano; mentre il cervo s'era celato in una boscaglia dove ora sorge Cervo»; oppure, ancòra, addirittura più di un Giano starebbe all'origine di Genova: «un primo Giano venne dall'Oriente in Italia con la prole di Nembrot e con Saturno e, separatosi dai suoi compagni, s'avviò alle nostre coste e vi edificò una città, Janicula, che poi il Giano troiano trovò, munì di un castello e ampliò». E sempre Giano sarebbe anche il mitico fondatore di Sarzana (Saltus Jani), all'estremità di quell'altra Riviera che appare altrettanto ricca di vincoli fantastici - e tuttavia non sempre improbabili - con paesi o eroi lontani e diversi. Č il caso di Lerici e di Porto Venere, che richiamerebbero Erice e la sua dea d'elezione; o di Sestri Levante (l'antica Segesta Tigulliorum) e del fiume Entella...

Ma, al contrario, quando a parlare dovrebbero essere i protagonisti, ecco un imbarazzante silenzio: non perché, come diceva Catone il Censore, i Liguri fossero inliterati e inconsapevoli perfino di se stessi, e neanche perché troppo presi dai loro traffici; forse, più verosimilmente, per quella loro istintiva ritrosia a dire, e a dire di sé, che - al di là ogni pregiudizio - ancora oggi sembra caratterizzarli. Insomma è come se, per "raccontare storie" e per "raccontarsi", i Liguri abbiano sempre avuto bisogno di sollecitazioni esterne, di riflettersi nello specchio della cultura e delle storie altrui; sulla cui superficie hanno visto concretizzarsi in parole e farsi vive anche le proprie. Tutto ciò che precedeva Roma si è quindi manifestato pressoché integralmente attraverso il mito latino, nello stesso modo in cui il pantheon originario si è rivelato e riversato in quello greco-romano spesso neanche troppo distante (è il caso di Giano): generando appunto fabulae.

[...]

Altrettanto omogenea nell'area considerata era, almeno fino a qualche anno fa, visto che ormai può considerarsi pressoché in via di estinzione, una consuetudine che riporta in qualche modo il nostro discorso nell'alveo della tradizione "parlata": la celebrazione del mese di maggio. A differenza delle altre zone confinanti, l'Emilia e la Toscana, il Maggio della Liguria orientale tra lo Spezzino e il Chiavarese è tipicamente lirico, si definisce cantaela e presenta «un festoso inno» ripetuto in coro dai cosiddetti maggiolanti, «da casa a casa, da piazza a piazza, da frazione a frazione», al mattino del primo giorno del mese.

Questa usanza popolare, tramandata oralmente da tempi immemorabili, si riallaccia probabilmente ad antiche celebrazioni pagane, ma trova espressione anche nel culto cristiano, dato che ne esiste una variante religiosa: le cantegore. E per quanto semplice e ingenua essa sia, ci consente comunque di ritornare all'idea da cui eravamo partiti: la centralità dell'individuo e delle sue dimensioni relazionali nel folklore del Levante ligure, dal Tigullio allo Spezzino.


Certo, la continuità (e non solo la contiguità) tra le due aree, che molti altri esempi potrebbero evidenziare ancora di più, non deve essere piattamente e pretestuosamente interpretata come identità priva di significative peculiarità e varietà locali, prime fra tutte quelle linguistiche; oppure quelle che distinguono le popolazioni costiere dagli abitanti dell'interno; insomma, in un «sistema chiuso», come a lungo lo è stato quello considerato, è normale che si crei una sorta di entropia culturale o folklorica che dir si voglia. D'altronde non si possono neppure sottovalutare le influenze esterne che, in maniera sempre più consistente, hanno aperto e quindi anche modificato tale sistema, appunto partendo da alcune zone costiere più "evolute". Influenze che, come è accaduto in altri luoghi, hanno manifestato la tendenza a "regolare" e a "uniformare" gli aspetti locali.


In tale prospettiva, allora, si riesce almeno in parte a comprendere come mai, per quanto riguarda la distribuzione delle leggende e degli altri materiali narrativi popolari legati al mistero o al fantastico, la Lunigiana ligure (o, se si preferisce, lo Spezzino) risulti in genere più compatta, mentre il Tigullio sia soprattutto da intendersi come Tigullia intus, il Tigullio interno, con le sue numerose valli, alcune delle quali si incuneano profondamente fin quasi alle spalle di Genova (come la Val Fontanabuona) o a toccare l'Emilia (la Val d'Aveto). Grandi centri costieri come Chiavari, Lavagna, Rapallo, Santa Margherita Ligure e Sestri Levante, ma pure (sull'altro versante del monte di Portofino) Camogli e Recco, hanno invece maturato, nel corso dei secoli e soprattutto nel Medioevo, una storia di più ampia portata che - ci venga perdonato il gioco linguistico - ha non dico ucciso ma quanto meno affievolito e un po' soffocato le "loro" storie. Oppure, nella migliore delle ipotesi, tali storie hanno assunto connotati più sbiaditi o più generici, attraverso una sorta di contaminazione di motivi provenienti da altre regioni, non solo italiane. Al riguardo, basterebbe qui portare l'esempio di Papà Lucerna la cui nave di grandezza straordinaria, come afferma Nicolò Musante, «è chiamata dai marinai danesi Refanu, dagli inglesi The Merry Dun of Dover, dai francesi Grand chasse foudre, dagli islandesi Rothramhac». Un identico discorso si potrebbe fare per i draghi e le sirene, presenti in diversi racconti popolari liguri.


Fiabe o leggende? Foe, soprattutto foe!

[...]

Ma sebbene le foglie siano molte, la radice è unica, direbbe il poeta; e la radice può trovarsi in una parola: foe, vale a dire favole. In questo nome, infatti, è racchiusa la sintesi delle storie di una parte importante della Liguria, come emblema — in tal caso lo si può affermare — di tutta la Liguria. Esso comprende egregiamente la derivazione cristiana delle leggende e, al contempo, le reminiscenze mitologiche che continuano a sopravvivervi; e dentro ci stanno bene anche le fole, le storielle sagaci ricche di buon senso, in compagnia delle vicende meravigliose, dei misteri e delle magie che tutti chiamano indistintamente fiabe.

Il titolo del libro va quindi interpretato così: "Favole (Foe) dal Tigullio a Spezia"; senza avere la presunzione, sia detto per inciso, di attribuirle in blocco, in modo esclusivo, a questa splendida parte di Liguria. Di alcune di esse, infatti, bisogna correttamente riconoscere la diffusione anche altrove, magari con sembianze leggermente diverse, come nel caso del Dente d'oro, riportata da Calvino con il titolo Marietta di legno, di cui esistono versioni un po' in tutto il Paese.


L'atmosfera prevalente o gli eventi fondamentali di ciascuna di queste favole, e non la loro ipotetica appartenenza a un genere o all'altro, come neppure una semplice direttrice geografica (da Levante a Ponente o viceversa), costituiscono quindi il criterio di base della loro suddivisione nel libro, insieme a quel gusto "estetico" proprio di chi scrive, che il lettore dovrà avere la bontà di concedergli o di perdonargli.

Così, l'aspetto oscuro delle vicende o la presenza ambigua e inquietante di certe figure, siano esse demoniache o no, è al centro delle storie di Diavoli, streghe e altri portenti; mentre è intorno all'eterno patema "erotico" che ruotano quelle di Amori fantastici, amori tragici.

La profonda religiosità, che da sempre anima la gente del posto, è invece testimoniata da un gruppo di foe, quelle di Santi e miracoli, i cui protagonisti — per la maggior parte — sono appunto santi che godono tuttora di un'ampia e sentita venerazione: primi fra tutti, Sant'Antonio e San Giovanni Battista. E poi troviamo le favole di Furbi e stupidi, il vero e proprio cuore pulsante di questa raccolta, con le figure memorabili di individui pronti a trarre profitto dall'occasione e a fare dell'altrui difetto la propria virtù; quando non sono gli stessi scemi a giocare se stessi in un ritmo convulso di situazioni esilaranti spesso al limite del surreale.

Se però i furbi, di norma, non ammazzano mai nessuno (nemmeno gli sciocchi), di delitti e misfatti, di saccheggi e di altre simili amenità sono invece piene le storie di Banditi e pirati: non troppe, per la verità, ma certamente significative.

Infine, anche dove si è fatta un'eccezione alla regola generale, ed è il caso di Colori di fiaba, si è volutamente deciso di utilizzare un "titolo" che rendesse l'idea delle sfumature e delle variazioni che caratterizzano le favole più prossime agli stilemi del meraviglioso infantile, delle quali sempre Calvino ha sottolineato la «tradizione più umile» e la «tendenza alla filastrocca».

L'insieme di queste foe costituisce un affresco sorprendente, per certi versi inatteso, che di sicuro richiede altri ritocchi o integrazioni, altre ricerche; ma che è già in grado di mostrarci chiaramente il piccolo mondo antico che si cela dietro la vita di oggi, dentro l'assenza inspiegabile delle magie e dei misteri di allora, dal Tigullio a Spezia.

Tarcisio Muratore

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Pagina 31

IL BALLO DELLE STREGHE



A RECCO, IN UNA certa spiaggia che si trova un po' prima della punta e dell'ormai distrutta cappella di Sant'Anna, un pescatore traeva a secco la propria barca dopo il lavoro della giornata e, al mattino seguente, la trovava sempre bagnata di acqua marina. Ciò finì per attirare la sua attenzione ed egli concepì il sospetto che qualcheduno nella notte se ne servisse. Una sera lo punse la curiosità di penetrare quel mistero e si accovacciò nella bassa prua, in modo da non essere scorto. Verso mezzanotte sentì alcune donne entrare in barca, e silenziose e svelte come provetti marinai la vararono e vogarono al largo. Però una di loro, appena furono un po' in fuori sul mare, avvertì le compagne che vi si sentiva odore di becco d'uomo, e un'altra, che egli dalla voce riconobbe per sua comare, le rispose che ciò era ben naturale, poiché tutto il giorno quella barca non era occupata che da uomini.

Il pover'uomo tratteneva persino il respiro, temendo di essere scoperto e buttato a mare da quelle streghe, le quali cominciarono a cantare canzoni strane e paurose e fortemente vogando si avviarono verso il monte di Portofino.

Ivi giunte, scesero a terra nel luogo chiamato del Molino e banchettarono mangiando e bevendo a crepapancia e facendo sempre strani discorsi, e poi ballarono la rionda con canti, grida e sghignazzamenti infernali. Egli le aveva seguite e si era nascosto a qualche distanza, in modo da non essere visto, e quando si accorse che il ballo e l'orgia si avvicinavano al termine, andò nuovamente nella barca, con la quale esse ritornarono a Sant'Anna e che trassero di nuovo al suo posto sulla spiaggia.

Appena quelle streghe cominciarono ad allontanarsi, egli sbucò dal suo nascondiglio, le seguì da lontano mentre si avviavano verso i boschi e vide che si fermarono in uno spiazzo tra gli alberi, dove ricominciarono a bere e a ballare, finché al primo canto del gallo ripresero la via del paese.

L'indomani quel povero pescatore, mezzo stordito da quanto aveva veduto, andò a visitare la comare e seppe da lei che quelle erano streghe, essa compresa; gli fu quindi intimato di non rivelare le cose di cui era stato testimone, per non venire strozzato nella notte, mentre stava dormendo; e per intimorirlo maggiormente la donna gli rivelò che quelle streghe potevano anche entrare per il buco della serratura.

Egli però non ne fu persuaso e raccontò il fatto agli amici. Da allora in poi, quel ripiano a Recco è denominato Il ballo delle streghe.

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Pagina 108

LA ROMANZA DEGLI AMANTI



UN GIOVANE s'innamorò di una donna maritata e questa gli corrispose.

- Siete bianca, signora mia, più che raggio di sole.

- Fermatevi con me una notte, rimanete una notte o due, ché mio marito è fuori su quei monti lontani.

Mentre il giovane la stava innamorando giunse il marito:

- Aprimi la porta, aprimi la porta, sole mio.

La donna discese la scala ansante e affannata.

- Avesti la febbre o un nuovo amore?

- Né ebbi la febbre né un nuovo amore, stavo pettinando i miei capelli e mi davano un grande dolore poiché voi mi lasciaste sola e ai monti ve ne andaste.

Queste parole della donna non erano che tradimento.

- Di chi è quel cavallo legato laggiù?

- Il tuo, il tuo, mio signore; lo mandò mio padre perché tu vada alle nozze di mia sorella maggiore.

- Viva tuo padre mill'anni che cavalli anch'io ne ho. Di chi è quel trabucco appeso a quel chiodo?

- Tuo, tuo, signor mio, ché mio padre lo mandò perché tu vada alle nozze di mia sorella maggiore.

- Viva tuo padre mill'anni che trabucchi anch'io ne ho. Chi è stato quell'audace che nel mio letto si coricò?

- Č la sorellina mia, che mio padre mandò per condurmi alle nozze di mia sorella maggiore.

Il marito l'afferrò per la mano e al padre la ricondusse:

- Prendi, padre, tua figlia, che mi ha giocato un tradimento.

- Portatela con te, genero mio, che la Chiesa te la donò.

L'afferrò per la mano e alla campagna se la portò.

Le tirò tre pugnalate e lì morta la lasciò.

La donna morì all'una e l'amante morì alle due.

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Pagina 140

SAN VENERIO E IL DRAGONE



AD AMEGLIA, VICINO a Spezia, c'è una grotta sul mare chiamata «Tana del serpente». Era, un tempo, la dimora di uno spaventoso dragone: uno di quei dragoni sempre affamati che, per soddisfare le insaziabili fauci, non facevano alcuna distinzione. Tutto quanto si veniva a trovare sul suo cammino, animali, uomini, cose, era da lui divorato ingordamente.

Nelle sue quotidiane trasferte a Luni il mostro metteva tutto a soqquadro, affondava perfino le navi.

Gli abitanti di Luni avevano fatto, per la verità, qualche tentativo per ucciderlo ma, sia per scarsa fiducia nelle proprie forze, sia per insufficiente conoscenza dei draghi, non erano riusciti a nulla.

Fortunatamente nella vicina isola del Tino abitava un Santo, San Venerio, che in quattro e quattr'otto risolse la situazione.

Si recò nella tana del drago, lo invitò a uscire e, quando se lo vide davanti, con quelle fauci spalancate e quel fumo e quelle fiamme che gli erompevano dalle narici, gli ingiunse semplicemente, ma con fermezza, di scomparire.

Il drago lanciò alcuni sibili laceranti, forse per annunciare la sua imminente partenza, e in men che non si dica si inabissò nelle onde, da dove nessuno più lo vide emergere.

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