Copertina
Autore Michela Murgia
Titolo Ave Mary
SottotitoloE la Chiesa inventò la donna
EdizioneEinaudi, Torino, 2011, Stile Libero Big , pag. 170, cop.fle., dim. 13,7x21,6x1,4 cm , Isbn 978-88-06-20134-0
LettoreRiccardo Terzi, 2011
Classe paesi: Italia: 2010 , religione , femminismo , comunicazione
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Indice


  3  Piú che un'introduzione, un'intromissione

  9  I.   Le voci sulla mia morte sono state oltremodo minimizzate

 35  II.  Di madre ce n'è una sola, e piange

 57  III. Immaginettario collettivo

 84  IV.  Consigli di bellezza

119  V.   Un dio con voce di donna

140  VI.  Finché morte non vi separi


161  Ringraziamenti

163  Bibliografia


 

 

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Pagina 31

La bella addormentata nel cielo.

Fu la falsa notizia di una sua prematura scomparsa costringere lo scrittore Mark Twain a definire ironicamente «oltremodo esagerate» le voci sulla sua morte. La frase in sé potrebbe benissimo essere ribaltata per attagliarsi alla situazione di Maria di Nazareth, sulla cui morte il senso comune dei fedeli ha avuto sempre la certezza opposta: la madre di Gesú in realtà non è mai morta.

Questa convinzione non dipende dal fatto che nel Nuovo testamento non c'è scritto che lo sia; neanche la morte di san Giuseppe è stata raccontata nei Vangeli, ma per lui non si è sentito il bisogno di inventare dogmi e narrazioni suppletive. È piuttosto una questione di sensibilità dello spirito religioso popolare: passi la morte di Cristo, che era necessaria al nostro riscatto, ma che anche Maria debba morire è cosa che il devoto nei secoli non ha mai potuto nemmeno immaginare. Sulla morte di Maria è calato da tempo un velo di nebbia anche dal punto di vista dottrinale. Da un lato la teologia non ha mai negato che la madre di Cristo fosse defunta, e del resto se è morto Gesú perché non sarebbe dovuta morire Maria? Ma dall'altro i predicatori e i pastori si son sempre guardati dall'offendere la sensibilità popolare rilasciando una troppo esplicita certificazione di decesso.

Dalla concezione immacolata fino alla nascita, dall'annunciazione fino all'assunzione, sul calendario gregoriano esiste una ricorrenza liturgica per ogni momento della vita di Maria tranne che per la sua morte; persino il dogma che ne sancisce l'assunzione al cielo, avvenuta senza dubbio post mortem, non dice mai esplicitamente che la Madonna è deceduta, preferendo affermare con prudenza che l'assunzione ebbe luogo solo dopo che ebbe «terminato il corso della sua vita terrena». Comunque la si voglia presentare, Maria per il cattolicesimo risulta, piú che morta, diversamente viva.

Sebbene la tradizione popolare posizioni la presunta tomba di Maria a Gerusalemme, le agenzie specializzate in turismo religioso la inseriscono tra le mete facoltative nei tour devozionali. Non è tanto la non storicità il motivo del disinteresse - altrove prosperano culti di ben piú imbarazzante infondatezza - quanto la scarsa attrazione verso un luogo dove, almeno nella percezione dei fedeli cattolici, Maria di Nazareth non è in realtà mai stata seppellita.

Per i cristiani ortodossi la questione è se possibile ancora piú radicale, perché della teorizzazione della non morte della madre di Gesú sono state proprio le Chiese d'Oriente a dare la poetica definizione di Dormitio Mariae, assimilando lo stato di morte al massimo grado di passività che sia possibile raggiungere restando in vita: il sonno. Per questo anche in Italia tutti i territori che sono stati a lungo sotto l'influenza bizantina venerano la Madonna Assunta in posizione orizzontale, dormiente, incoronata come una regina e distesa su un letto sontuoso vegliato discretamente da angeli oranti.

La sensibilità popolare ha idee molto chiare in merito allo stato di questa particolare tipologia di bella addormentata. Nel mio paese d'origine, dove la chiesa patronale è dedicata proprio a questa specifica raffigurazione dell'Assunta, la preghiera popolare afferma senza tentennamenti che «morta no, ma ses dormída, santamente reposende». Dormída, cioè addormentata.

Non esistono raffigurazioni artistiche di Maria morta che abbiano mai avuto qualche fortuna popolare. Quando Caravaggio provò a rompere il tabú, dipingendo il capolavoro Morte della Vergine, che la leggenda vuole ispirato al corpo esanime di una prostituta annegata nel Tevere, si vide rimandare indietro l'opera dai frati committenti, offesi dal realismo blasfemo di quel corpo gonfio e livido. L'assunzione al cielo di Maria ha infatti nella devozione popolare, o anche solo nell'immaginario culturale, una raffigurazione del tutto diversa, che nega implicitamente che la Vergine sia mai dovuta passare attraverso l'umiliazione del decesso corporeo: viva e vegeta, Maria sale al cielo incoronata in una profusione di luce, circondata da angeli e santi in una solenne cornice di nubi.

Laddove Cristo ancora oggi muore simbolicamente mille volte al giorno su tutti i muri delle nostre scuole, nell'intimità delle nostre case di credenti, dietro i banchi dei tribunali e sui petti siliconati delle soubrette, la morte di Maria è stata cancellata e sottratta alla rappresentazione, cristallizzando per tutte le donne un modello divinizzato a cui nessuna può accostarsi con qualche speranza di identificazione. Nell'iconografia dominante, quella che ha fondato il nostro immaginario collettivo, la madre di Cristo ha con la morte un rapporto di sola contemplazione: è la Mater Dolorosa ai piedi della croce, icona del dolore permanente al capezzale della fine di un altro. Questo silenzioso Stabat è la pietra miliare della costruzione dell'idea di Maria come vestale afflitta e funzionale, predestinata a divenire il modello ferreo per la femminilità di quasi venti secoli.

La donna ai piedi della croce non è solo l'eterna testimone della morte altrui. Una Madonna che non conosce la propria fine offre alle donne credenti un patto di mimesi insostenibile, perché stipulato con un soggetto simbolico dal corpo intangibile, sottratto al tempo e in definitiva privo di limite. Se la «Maria che non muore» rappresenta la perfezione a cui non giungeremo mai, se è lei - l'Eternamente giovane - l'obiettivo a cui tendere, significa che in questo gioco siamo destinate a perdere comunque, a meno di non ricorrere a espedienti per ridurre la distanza dal modello. Per questo l'ossessione sociale del «restare in forma» deve spingerci a domandarci nella forma di cosa (o di chi) viene chiesto di riconoscersi. La chirurgia estetica in continuo sviluppo, la cosmetica antiage che ci lusinga dagli scaffali e la maniacale manutenzione da palestra a cui ci sottoponiamo non sono solo l'effetto del martellamento pubblicitario che denigra le nostre normalità, ma sono segnali di un desiderio di trasformare il corpo in santuario immutabile, l'indizio dell'incapacità di fare pace con la morte, la nostra.

Il processo di riappropriazione della propria complessità per le donne deve passare attraverso la costruzione di un sano immaginario del limite. È una questione di sopravvivenza, e non solo in rapporto a se stesse, perché la donna rappresentata da Maria offre anche all'uomo un modello inaccessibile e frustrante con cui rapportarsi. Impossibile da possedere, intangibile al tempo e alla sua consunzione, la donna-santuario resta un mistero davanti al quale o ci si inginocchia o si bestemmia.

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Pagina 63

Gianna, madre da morire.

La storia di Gianna sembra uscita dal libro Cuore. Decima di una famiglia religiosissima che di figli ne aveva avuti tredici, tre dei quali consacratisi poi alla vita religiosa, ebbe un'infanzia e un'adolescenza di impressionante linearità spirituale: comunione quotidiana, studi in scuole confessionali, attività di apostolato laicale in dozzine di associazioni cattoliche, fino alla scelta - del tutto conforme alla sua indole oblativa - della professione di medico, che infatti svolgeva anche da volontaria presso varie istituzioni. Quando aveva trentatre anni si sposò con Pietro Molla e gli diede tre figli, condividendo con lui la vita spiritualmente attiva che entrambi sentivano propria. La sua fu un'esistenza esemplare, ma non dissimile da quella di molte altre cristiane praticanti. È improbabile che sarebbe bastata per far sorgere attorno a lei la necessità di un processo di canonizzazione.

Nel 1961, mentre aveva in corso la quarta gravidanza, le fu riscontrato un voluminoso tumore benigno all'utero e si rese necessaria l'asportazione immediata. Gianna rifiutò di interrompere la gravidanza per curarsi adeguatamente, e pregò invece il chirurgo di eseguire un intervento di asportazione del solo fibroma, facendo in modo di non arrecare nessun danno al feto durante l'operazione di rimozione. L'intervento apparentemente riuscí e Gianna poté, sebbene con fatica, portare la gravidanza fino al suo termine. Durante il parto cesareo però si verificarono complicazioni tali che morí non senza aver ripetuto al marito e ai medici che in caso di scelta tra la sua vita e quella della figlia, era pronta a sacrificare la propria. La sua morte lasciò Pietro Molla vedovo con tre bambini piccoli e una neonata, viva e perfettamente sana, a cui fu dato il nome di Gianna Emanuela. Era il 20 aprile del 1962, venerdí santo.

I riconoscimenti alla speciale santità di Gianna Beretta Molla furono immediati e pubblici. Il cardinale di Milano Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, venne a conoscenza della vicenda l'anno stesso della morte, quando fu assegnata alla memoria della donna una medaglia d'oro di benemerenza, con questa motivazione: «Il suo nome testimonia ed esalta il sublime eroismo di tutte le mamme». Quattro anni dopo il provveditore agli studi di Milano fece intitolare a Gianna Beretta Molla la scuola elementare di Ponte Nuovo di Magenta, dove era nata e aveva compiuto i primi studi. Anche a questa cerimonia era presente Montini che tenne un discorso in cui leggeva le ultime vicende umane di Gianna in chiave sacrificale e associava la sua scelta all'esempio di Cristo in croce, modello perfetto di quanti danno la vita per salvare quelli che amano. Questi due avvenimenti e la loro rilevanza pubblica diedero il via all'apertura dell'iter per la causa di beatificazione. Nel 2004, intitolato dall'Assemblea generale delle Nazioni unite come Anno internazionale della famiglia, Giovanni Paolo II la proclamò definitivamente santa e nell'omelia si augurò che la nostra epoca potesse «riscoprire, attraverso l'esempio di Gianna Beretta Molla, la bellezza pura, casta e feconda dell'amore coniugale, vissuto come risposta alla chiamata divina».

Sono numerosi i casi di eroismo spirituale tra i cristiani e le cristiane, molti piú di quanti si creda, ma la scelta di elevarne alcuni all'altare piuttosto che altri è sempre frutto di complesse valutazioni di opportunità anche politica che esulano dai risultati effettivi dei singoli processi canonici. Ecco perché i percorsi di riconoscimento delle virtú eroiche di alcuni cristiani durano molti decenni o si arenano prima dell'ultimo stadio, mentre quelli di altri si concludono in tempi rapidi. Non ingannino i casi clamorosi in cui il furor di popolo costringe alle vie brevi del «santo subito»; per quanto popolari possano essere, le vite eroiche poco gradite all'establishment gerarchico non sfociano mai in un riconoscimento pieno o immediato: è dal 1997 che è fermo il processo canonico di Oscar Romero, il vescovo salvadoregno ucciso mentre elevava l'ostia nella celebrazione eucaristica da un sicario del regime del quale aveva sempre denunciato gli orrori; quello a don Lorenzo Milani non è mai nemmeno cominciato. Di esempi se ne potrebbero fare a decine.

La santificazione di Gianna Beretta Molla da questo punto di vista fu uno degli atti piú pastoralmente politici del pontificato wojtyliano. Al di là della vita oggettivamente limpida della dottoressa di Magenta, la sua elevazione agli altari costituiva un gesto di forte indirizzo simbolico, almeno per tre motivi: si trattava di una laica, si trattava di una madre e si trattava di una donna morta di parto per aver scartato l'ipotesi di un aborto terapeutico. Non era un messaggio da poco per le donne cristiane.

Nella Mulieris Dignitatem Giovanni Paolo II aveva già indicato la maternità come via possibile alla santità, ma la lunga lista di suore sante nel calendario della Chiesa non forniva alcuna prova della possibilità di realizzare davvero questo percorso, fatta salva la maternità tutta speciale della Madre di Cristo. Gianna Beretta Molla si rivelava perfetta per coprire quel vuoto simbolico. Attraverso di lei si mostrava alle donne che un'altra via di santità oltre al velo di Rita da Cascia e al martirio virginale di Maria Goretti era effettivamente possibile. Questa via non era costituita dall'esercizio dell'economia a fin di bene, come nel caso di Tovini, e non era una visione evangelica dell'azione politica come per De Gasperi o La Pira; non era nemmeno la generosità nell'assistenza agli ultimi del giovane Frassati e neanche fare il proprio dovere con animo eroico come Salvo D'Acquisto: la nuova via per le donne alla santità era la maternità.

Nessun uomo è mai stato beatificato per aver accetta- to di essere padre fino alle estreme conseguenze; al con- trario, le beatificazioni laicali maschili sembravano dire agli uomini che potevano diventare santi anche fondando cristianamente banche o partiti politici o facendo bene il proprio lavoro; attraverso la canonizzazione della Molla si mostrava invece alle donne che per arrivare a vedere Dio senza passare per il convento l'unica altra strada era il ma- trimonio e fare figli. Un dato ulteriore era che la gravidan- za di Gianna Beretta Molla non era come tutte le altre: c'era di mezzo una patologia che entrava direttamente in conflitto con il prosieguo della gestazione. La dottrina morale cattolica sa essere molto sottile in casi come questi: abortire con l'intento di interrompere una gravidanza indesiderata non è mai accettabile moral- mente, e rende effettiva la scomunica automatica; ma se l'aborto è conseguenza indiretta e involontaria della cura di una patologia che mette a rischio la salute della donna, anche se l'interruzione della gravidanza resta un male, è però un male incolpevole perché manca nel compierlo quello che la dottrina cattolica definisce «piena vertenza e deliberato consenso». Avere contemporaneamente nel ventre un fibroma e un feto, come nel caso della Beret- ta Molla, rappresenta proprio la circostanza esemplare a cui si riferisce questo indirizzo morale. Nessuno dunque nella Chiesa avrebbe scomunicato né criticato quella madre se a trentanove anni, con un fibroma nell'utero, tre bambini piccoli da accudire e un marito molto amato, avesse scelto di curarsi accettando l'interruzione di gravidanza come prezzo per la propria sopravvivenza. Gianna Beretta Molla scelse invece la strada del martirio, e il suo eroismo va riconosciuto e ri- spettato; ma sarebbe stata meno santa la sua vita esem- plare se in quel momento avesse fatto un'altra scelta? La sua canonizzazione sembra suggerire di sí, il che implica che tutte le madri cattoliche che si trovassero nella ter- ribile condizione di dover scegliere tra l'aver cura della propria vita o preservare quella in arrivo, se decidessero di sopravvivere non farebbero male, ma se scegliessero di morire farebbero meglio.

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Pagina 84

IV.

Consigli di bellezza


                                            Sei la piú bella del mondo
                                            Religione per me.

                                            Sei la piú bella del mondo, Raf.



Memorie cattoliche.

La Madonna che dorme nella mia chiesa parrocchiale ha i capelli lunghi e scuri. Sono capelli veri e appartengono a decine di ragazze - oggi settantenni - che in massa negli anni Cinquanta hanno donato le loro chiome nere per far bella l'Assunta. Ha addosso un modesto tesoretto che a periodi regolari viene rubato dai balordi del posto, perché la nostra Madonna è una bonacciona che perdona, non ha certo la fama delle terribili maledizioni che a Napoli fanno da antifurto ai beni immensi di san Gennaro. Gli anelli e le collane sono a volte ex voto (pochi, non è molto miracolosa), ma la maggior parte sono regali spontanei o pegni di fidanzamenti infranti, in numero cosí consistente che ogni dito infila almeno due anelli e molti dei suoi gioielli sono conservati in separata sede.

Poiché la mia zia materna mi aveva confidato che tra i capelli di Maria c'erano anche i suoi, da bambina ero convinta che la statua tutta mi somigliasse, anzi che in virtú di quell'innesto tricologico fossimo in qualche modo diventate parenti. Maria Assunta in Cabras era la mia cugina santa. La notte andavo a letto e mi allungavo sul materasso cercando di imitare la grazia indolente della statua distesa, abbandonando lungo il corpo le mani in modo che avessero le dita un po' distanziate per gli anelli che immaginavo di portare; rilassavo il volto come lei, immaginandomi preda di un sogno paradisiaco. Ero convinta che mentre dormivo venissero gli angeli ai piedi del letto, proprio come li vedevo intorno al suo.

Ci sono voluti anni di statue assai meno credibili, di canti improbabili ogni domenica e di dogmi mariani assunti contro ogni evidenza biblica per strapparmi dalla convinzione che Maria di Nazareth potesse essere apparentata con una qualunque donna normale, meno che mai con me. Oggi, al di là dell'effetto fetish di una rappresentazione cosí realistica della Madonna, mi rendo conto che chi progettò quella statua ebbe una grande intuizione pastorale: la sua concretezza fisica era tale che qualunque bambina poteva riconoscersi, obbedendo a una logica di semplicità quasi meccanica: se la Madonna somigliava tanto a una ragazza normale, allora ogni ragazza normale poteva provare a somigliare alla Madonna.

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Pagina 88

La pubblicità in Italia mostra poche donne anziane, ma quando lo fa, non risparmia loro niente. L'uomo vecchio è saggio e pacificato, oppure è simpatico e vitale. Lo si capisce mentre degusta il whisky per vedere se le botti del Tennessee lo hanno profumato per bene. Ci sentiamo bucolici con lui quando, con complicità virile, regala al giovane genero una bottiglia del vino che hanno bevuto insieme al pasto. Ci intenerisce vedergli insegnare al nipotino che l'ottimismo è il profumo della vita, oppure bussare a casa degli studenti universitari per offrire loro vassoi di ravioli ripieni fatti sapientemente da lui medesimo. La vecchiaia maschile nelle rappresentazioni pubblicitarie è dignitosa, serena e rispettabile, l'atto conclusivo di una vita ormai risolta.

Le donne vecchie degli spot hanno connotazioni ben diverse: se escono, vanno a casa dei figli single (maschi) per verificare di nascosto che usino l'anticalcare sui sanitari, ma il piú delle volte non escono affatto; restano sdraiate inermi su poltrone autoreclinanti, stringendo nella mano artritica un dispositivo di allarme per chiamare i figli in soccorso a ogni parvenza di tremito. Se fanno vita sociale, la loro angoscia principale sarà tenere sotto controllo la vescica debole, o addentare una mela senza lasciarci attaccata la dentiera. Oppure avranno le fattezze dell'immarcescibile suocera che verifica con malanimo il bucato della nuora, rivendicando la propria superiorità nell'indicarle il candeggiante giusto.

Jane Fonda illustra grazie a quale crema «per pelli mature» si potrebbero dimostrare vent'anni di meno, e a nessuno sembra strano che non esistano spot dove Sean Connery invita i suoi coetanei ottantenni a fare altrettanto. È in corso un processo di creazione di un target maschile piú attento all'aspetto fisico, con prodotti appositi anche antiage, ma oggi per gli uomini il messaggio fa ancora leva sul linguaggio della seduzione, non sulla corsa alla sostenibilità estetica. L'uomo negli spot non fa manutenzione di sé come atto di sopravvivenza sociale. Nessun uomo nel mondo dei pubblicitari ha mai problemi di vescica. O di intestino pigro. O di prurito intimo. Ma neanche di emorroidi o di diarrea: sono sempre donne le protagoniste dei messaggi pubblicitari collegati alle disfunzioni corporali, e spesso sono donne non piú giovani, il cui decadimento fisico è un appetibile terreno di marketing. L'assalto subliminale è tale che anche quella tra noi piú attrezzata a difendersi impara che sentirsi «giovane dentro» è il podio per le seconde classificate, quelle che hanno perso l'occasione di continuare ad apparire giovani fuori.

I numeri della chirurgia estetica parlano chiaro: crisi o non crisi, in Italia le richieste di ritocco sono in crescita costante di anno in anno, e l'aumento riguarda soprattutto le ragazze in giovanissima età e le loro nonne, le over 65. Nei programmi televisivi è ormai raro vedere una donna che non porti sul volto le tracce omologanti della mano di un chirurgo plastico; ma sempre piú spesso la donna «rifatta» si incontra in fila alle poste, in aereo sul sedile accanto al nostro o alla riunione scolastica con i genitori.

La compulsione all'accanimento anagrafico non ha nulla a che vedere con l'estetica. Basterebbe osservare come è cambiato il linguaggio pubblicitario delle creme femminili per capire che la direzione in cui sta andando la teoria della giovinezza a tutti i costi è tutt'altro che cosmetica: è cosmologica. La radice greca del verbo kosmèo, abbellisco, metto in ordine, è la stessa di kosmòs, la realtà sottratta al kàos, e richiama il concetto filosofico di ordine, di corrispondenza del mondo a un disegno sensato; allo stesso tempo evoca l'idea di bellezza come armonia, la meravigliosa certezza che tutto si trovi proprio dove era previsto. Questa logica non ha bisogno di far sentire brutta la donna: le basta che si senta «fuori luogo». Non è casuale che l'antagonismo dei termini di bellezza e bruttezza vada di pari passo con quello di ordine e disordine, e infatti è comune che una donna insoddisfatta del proprio aspetto fisico affermi di non sentirsi «a posto».

La cosmesi cosí intesa si rivela non tanto la scienza del bello, quanto quella dell'ordine da cui la bellezza discende: utilizzando il cosmetico la donna non doma le rughe, ma il caos universale. Sottrarsi alla religione della cosmetica significa rifiutarsi di impedire la deriva distruttiva dell'esistente, farsi colpevolmente complici della sua entropia. Ecco perché nell'arco di vent'anni si è passati dall'invito alla manutenzione esteriore per apparire piú piacenti (questo preparato rende la pelle piú morbida e levigata, piacevole al tatto, e simili) a quello piú ambiguo della «cura», che rimanda direttamente a un immaginario patologico. I preparati per il viso non sono piú semplicemente nutrienti, ma rigeneranti, rimpolpanti, ristrutturanti, tensori. Sono creme assertive, fanno cose grandi, operano contro eventi descritti come catastrofici: «contrastano il cedimento cutaneo», «nutrono i tessuti nelle aree fragili del viso» e «proteggono dalle aggressioni esterne», funzioni piú da ronda poliziesca o da architetto di interni che da crema per il viso.

Il terrorismo estetico alimenta nelle donne anche la paura che trascurare l'aspetto fisico possa significare non fare abbastanza per tutelare la propria salute. Non importa se questo significa accettare implicitamente l'idea che la vecchiaia sia una malattia e la bruttezza una colpa. «Prenditi cura di te», recita lo spot di una famosa casa cosmetica francese, manco avessimo un tumore. «Perché io valgo», le fa eco da anni lo slogan di un altro colosso dei prodotti cosmetici, insinuando implicitamente l'idea che chi non ne fa uso non vale niente. Cura e valore, ecco le nuove parole d'ordine che possono garantire l'accettabilità sociale della donna. Non è un caso se a quelle tra noi che sono poco interessate a nascondere i propri anni o i propri cosiddetti difetti fisici vengano riservati giudizi come «non si curano» e «non si valorizzano», espressioni che alludono anche a una condizione di oggettiva colpevolezza di chi eventualmente pensasse di non sottostare al diktat nazista del gel contorno occhi. Non usare le nuove armi cosmetiche è pigrizia, sciatteria, omissione di soccorso.

La sfida rappresentata dall'invecchiamento non è difendersi dal pericolo imminente dei misteriosi radicali liberi, ma quella ben piú concreta di ritardare al massimo il momento in cui si verrà espulse dalla rappresentazione sociale e si smetterà di esistere come figure di un immaginario rispettato e rispettabile. Invece di accrescere l'autorevolezza, l'età avanzata colloca infatti le donne in una posizione di ulteriore fragilità, perché all'abbassamento del parametro estetico si accompagna anche lo svilimento pubblico della capacità intellettuale, qualora fosse stata prima riconosciuta.

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Pagina 103

L'Immacolata Confusione.


                                            Tota pulchra es Maria
                                            et macula originalis non est in te.



Il 27 settembre del 2009 Radio radicale trasmise una conversazione pubblica tra Marco Pannella del Partito radicale, storico promotore delle maggiori battaglie civili italiane, e il giornalista conservatore Giuliano Ferrara, ex ministro del primo governo Berlusconi. I due parlarono anche del controverso tema della fecondazione eterologa, condividendo un interessante quanto diffuso equivoco teologico. Marco Pannella disse:

Il carattere profetico del cattolicesimo organizzato, lo trovo - in modo terrorizzante - inesistente. Io ti devo confessare: ma è possibile che non viene in mente, a coloro che credono in Gesú Cristo e via dicendo, che quella vicenda dell'Immacolata Concezione eterologa attraverso l'amore di Gesú non sia una profezia, quella per la quale si passa dal concepimento animale a quello per il quale l'amore è concepire?

Confondeva come tanti il dogma dell'Immacolata Concezione di Maria, cioè l'assenza in lei della macchia del peccato originale di Adamo ed Eva, con quello della sua perpetua verginità, intesa come la generazione di Gesú senza aver avuto rapporti sessuali con Giuseppe. Da questa gigantesca confusione Pannella credeva di poter trarre un punto a favore della fecondazione eterologa, e si domandava come mai quel «dogma» non venisse interpretato in maniera profetica dal «cattolicesimo organizzato» a difesa della possibilità di concepire servendosi di un donatore o di una donatrice estranea alla coppia sterile, figure che nella sua ricostruzione avrebbero assunto la funzione che nel Vangelo era stata svolta dallo Spirito Santo. Giuliano Ferrara, capofila degli atei devoti e al contempo paladino dei libertini, non intervenne per correggerlo, benché Pannella ripetesse piú volte il macroscopico fraintendimento. Non fu per eccesso di buona educazione: Ferrara condivideva il medesimo equivoco. In un suo editoriale sul settimanale «Panorama» del 7 marzo 2001 affermava infatti lo stesso concetto, questa volta per difendere la famiglia tradizionale:

Il bambinello, i bambini, la maternità immacolata, la paternità, gli animali, il calore, i doni, l'unità di sentimento e destino della cellula primaria della società escludono dalla famiglia la tentazione, il peccato, l'ombra del male.

«Immacolata» per Ferrara non è dunque la natura intonsa dal peccato originale di Maria, ma la sua maternità, perché frutto di un mistero della fede che ha miracolosamente eluso le leggi del concepimento carnale. L'associazione mentale che produce l'equivoco è evidente: il sesso è peccaminoso e sporco, e Maria è Immacolata proprio perché non ha mai fatto sesso. Per l'ateo e per l'ateo devoto non sembra esserci niente di piú convincente. Maria Immacolata incarna nel loro immaginario un ideale femminile impossibile quanto suggestivo: una donna che genera da sé, senza bisogno di abbassarsi al letto di nessuno. L'equivoco di Pannella e Ferrara ha un doppio fondo: non si limita a scambiare l'esenzione di Maria dalla colpa di Adamo ed Eva con la maternità virginale, ma attribuisce alla sua verginità una connotazione morale, quasi fosse una donna migliore in virtú del fatto di essere rimasta illibata prima, durante e dopo il parto. In realtà la dottrina cattolica è molto meno sessuofobica: il dogma della verginità non sottintende che Maria sia piú stimabile in quanto vergine. La garanzia dogmatica che Maria e Giuseppe non abbiano mai avuto rapporti sessuali è servita ai primi cristiani per fondare la certezza che Gesú fosse figlio di Dio e non di un falegname di Nazareth. È pur vero che lungo i secoli il dato fisico della verginità ha tentato di trasformarsi in un dato etico, ma fa sorridere che a cadere oggi nella trappola moralista siano un campione della libertà sessuale come Pannella e un uomo come Ferrara, paladino antirelativista, ma anche condottiero di battaglie libertine al grido di «in mutande, ma vivi».

Un altro liberalissimo opinion maker, il critico d'arte Vittorio Sgarbi, mostrò la medesima convinzione teologica dalle pagine del quotidiano «Il Giornale» del 6 gennaio 2010 quando, riferendosi al giudice Giancarlo Caselli, affermò di essersi trovato «nella piena convinzione della naturale innocenza di Caselli e della sua immacolata costituzione» e pertanto di aver «osato affermare che egli è come la Madonna. È perennemente vergine». Anche in questo caso l'errata associazione tra l'essere immacolati e l'essere vergini appare scontata. Ha avuto piú fantasia l'anonimo autore della voce di Wikipedia dedicata ai santi Anna e Gioacchino, genitori della Madonna, dove si legge che non meglio specificati autori medievali vedrebbero «nel loro casto bacio il momento dell'Immacolata Concezione di Maria». Quindi questa volta a essere concepita senza rapporto sessuale sarebbe stata nientemeno che Maria.

È sin troppo banale supporre che l'equivalenza tra immacolata concezione e verginità sia frutto di una formazione sessuofobica, che in un contesto culturalmente cattolico ci riguarda tutti. È importante però considerare come l'equivoco, tutt'altro che raro, colpisca soprattutto quei pensatori che amano sentirsi definire «atei devoti». Il loro fraintendimento è piú significativo sul piano culturale, perché l'adesione alle posizioni della Chiesa non si basa su una professione di fede, ma su pretese ragioni di appartenenza e buon senso, grazie alle quali i nuovi teocon possono sostenere alcuni punti della politica dell'istituzione Chiesa senza compromettersi con la sua matrice spirituale. Come ha fatto notare Sergio Luzzatto nel Crocifisso di Stato , si tratta della stessa posizione che nei confronti del Vaticano tennero anche Curzio Malaparte e Benito Mussolini che non a caso amava ripetere: «Sono cattolico e anticristiano». Gli atei devoti, maîtres à penser della politica conservatrice italiana, sono la dimostrazione che una cultura cattolica ridotta e utilizzata come garanzia di pace sociale ha influssi che vanno ben oltre il pio recinto delle sacrestie nazionali, e che indagarne gli equivoci è tempo tutt'altro che perso.

È probabile che nella trasmissione della falsa equivalenza teologica tra purezza dell'anima e verginità abbia avuto una funzione strutturale l'iconografia popolare degli ultimi centocinquant'anni, nella quale il dogma dell'Immacolata Concezione viene tradotto per mezzo di statue, dipinti e immaginette devozionali che riportano Maria in atteggiamenti rigidamente pudichi, vestita di colori tendenti al bianco e all'azzurro pastello (evocativo della grazia celeste), con le forme del corpo appena accennate e il capo coperto. In mano tiene spesso un giglio candido, come enfasi simbolica sulla sua verginità. Le poche varianti moderne sono state spazzate via dalla popolarità planetaria dell'icona della Madonna di Lourdes che nel 1858, a soli quattro anni dalla proclamazione del dogma, apparve alla piccola Bernadette dicendo: «Io sono l'Immacolata Concezione». Non fu da meno l'immagine molto simile della Madonna di Fatima che nelle apparizioni si presentava ai veggenti parlando del suo «Cuore Immacolato». La rappresentazione angelicata di Maria costituisce la radicalizzazione di una sola lettura della straordinaria complessità della sua figura, e offre alle donne che la pregano un modello - estetico e di conseguenza anche etico - impoverito e fuorviante che non è stato sempre uguale, anzi ha subito nel tempo molte evoluzioni. L'iconografia mariana ha obbedito per secoli a canoni comunque precisi, che però contemplavano un numero di varianti piuttosto ampio.

Le icone piú antiche e venerate della cristianità - d'Oriente e d'Occidente - hanno raffigurato la verginità di Maria come dato teologico, piú che come condizione di superiorità morale, ricorrendo a un espediente simbolico: tre stelle ricamate sul manto, due simmetriche sulle spalle e una sul capo. Il bianco non faceva parte della tavolozza di colori delle rappresentazioni di Maria. Le icone mariane raffigurano Madri di Dio dalla femminilità monumentale, abbigliate di tessuti dai colori vari e vivaci, spesso adorne di gemme e con le forme tutt'altro che celate.

Nella chiesa della Madonna delle Grazie in Roma è custodita la famosa e omonima icona che raffigura la Madre di Dio con il seno scoperto, dipinta nell'atteggiamento di allattare il piccolo Gesú. L'icona è riconducibile a uno specifico filone di rappresentazione mariana che si chiama lactans, ovvero «che allatta», e prevede come canone proprio l'esibizione di un seno nudo nell'atto di nutrire il bambino. Inimmaginabile oggi una tale libertà espressiva: l'autore che osasse prendersi una simile confidenza con il corpo della Santa Vergine sarebbe tacciato di essere irrispettoso e blasfemo. Viviamo tempi in cui il seno nudo della Verità di Giambattista Tiepolo viene fatto velare da un pudico Silvio Berlusconi, affinché non lo si veda in tv alle spalle dei ministri durante le conferenze stampa istituzionali. Tempi nei quali i piissimi Giovani industriali per non imbarazzare il cardinal Bagnasco in visita sbianchettano i genitali dell'uomo di Leonardo che faceva da logo al loro convegno annuale.

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