Autore Michela Murgia
Titolo Chirú
EdizioneEinaudi, Torino, 2015, Supercoralli , pag. 196, cop.rig.sov., dim. 14x22x1,8 cm , Isbn 978-88-06-20633-8
LettoreAngela Razzini, 2015
Classe narrativa italiana












 

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Pagina 3

Lezione uno


Chirú venne a me come vengono i legni alla spiaggia, levigato e ritorto, scarto superstite di una lunga deriva. Era vestito da adulto e ostentava una disinvoltura sfrontata, ma sotto la giacca da orchestrale gli s'intuivano due braccia troppo lunghe per essere qualcosa di piú che goffe. Aveva un violino con sé, e chi lo aveva convocato gli aveva fatto credere che avrebbe potuto suonarlo sul palco accanto a me. Temendo l'inesperienza che gli si leggeva addosso, trovai un modo gentile per dirgli che preferivo recitare in silenzio e lui, senza mostrare alcun risentimento per quel primo battesimo di sfiducia, accettò. Si sedette nella terrazza del centro storico e mi ascoltò con la stessa attenzione degli altri presenti.

Alla fine dello spettacolo, nel buio ancora tiepido di ottobre, mi sorprese chiedendomi se poteva seguirmi a cena. Lo guardai con attenzione. Era giovanissimo, forse neppure diciottenne, ma aveva nello sguardo qualcosa di slabbrato, come se osservasse il mondo da una prospettiva già offesa. Vorrei poter dire che quella tra noi fu un'immediata affinità elettiva, ma sarebbe una menzogna: io Chirú lo riconobbi dall'odore di cose marcite che gli veniva da dentro, perché quell'odore era lo stesso mio.


Fino a otto anni sono stata una bambina felice. Che si potesse essere anche infelici lo scoprii una sera in cui c'era la festa e il paese era impregnato dai sentori del pesce arrostito, della juta bagnata e dello zucchero filato. Casa nostra si affacciava proprio sulla piazza e sui giardini pubblici dove io e mio fratello andavamo sempre a giocare con gli altri bambini.

Quel giorno eravamo tornati quasi al tramonto, strisciati di fango e di sangue come animaletti scampati al macello, lui nei calzoni nuovi ormai stazzonati e io in ampio spregio al vestitino bianco che mia madre aveva lavorato ai ferri per settimane nell'attesa invernale di quei primi caldi. A ripensarci adesso mi rendo conto che forse la causa di tutto fu proprio quel maledetto vestito, la cui lana ispida color del latte prudeva come crine nello scontro coi miei sudori; quell'attrito, unito ai volants all'uncinetto che si aggrappavano a ogni sporgenza, me lo aveva fatto odiare dal primo momento. Mi era riuscito anche di impigliarlo in uno sterpo, sfilacciandolo proprio sull'orlo con una noncuranza rivelatoria che suscitò in mia madre un'eco di rancore destinata a durare mesi. La festa del patrono cadeva a fine maggio di un'epoca in cui le mezze stagioni sapevano ancora il fatto loro: a dispetto del caldo diurno, dopo il tramonto era venuta giú un'umidità algida che aveva bagnato i seggiolini delle giostre e le carrozzerie colorate dei dischi volanti su cui ero troppo piccola per salire, come mi aveva ripetuto mio padre anche quell'anno.


Babbo non era un uomo di indole allegra. Al nostro arrivo a casa era pronto per uscire da venti minuti, e dalla sua espressione era facile intuire che averci aspettato non gli avesse migliorato l'umore.

In ogni famiglia c'è un membro che orienta il clima emotivo di tutti gli altri. Quell'impercettibile catena di controllo che attribuisce silenziosamente a un solo familiare la supremazia emotiva non ha a che fare con l'età, col sesso e nemmeno con l'intelligenza di chi la esercita. Ho visto famiglie fondare il proprio equilibrio umorale sul broncio di un neonato, sul cipiglio di un vecchio, sulle moine di una ragazzina, ma nella nostra quel potere era saldamente in mano a mio padre, che con uno sguardo faceva sorgere o tramontare il sole sul viso di mamma e di Daniele. Io trovavo prudente adeguarmi, specialmente quando mi fissava come quella sera.

«Andiamo alla festa», disse senza aggiungere null'altro. Mia madre valutò opportuno rimandare la ramanzina e metterci addosso un giacchetto che, con la scusa di proteggerci dall'umido, occultasse almeno in parte i disastri della nostra indisciplina.


Uscimmo di casa come una famiglia, reggendo tutti insieme l'invisibile impaccio di una formalità che in provincia significa ancora «domenica». I vicini, se fossero stati il genere di persone che nota questi particolari, avrebbero capito piú cose da come camminavamo per strada che da qualunque altro segnale. Babbo si era rinsaldato mamma sottobraccio e procedevano affiancati senza fretta, lui nel paltò di pelle marrone liso sui gomiti e lei, piú alta e stretta, in un cappottino color zafferano che faceva apparire splendente il suo caschetto biondo. Distanziato in avanti di qualche metro, ma sulla stessa direttrice dei miei, camminava Daniele come un cane agganciato a un invisibile guinzaglio teso; con lo sguardo puntava alle luci delle attrazioni meccaniche dove lui, che di anni ne aveva undici e mezzo, poteva salire finché voleva. Io saltellavo di lato, sfilata come le calzemutande di nylon bianche che mi stringevano le gambe storte.

Quella sera mi sentivo fiera delle mie scarpe di vernice, brillanti nonostante i graffi rimediati contro la ghiaia, ed ero di ottimo umore, in barba a mio padre, alla stanchezza del pomeriggio di gioco e alla disapprovazione di mamma. Ero sempre stata una bambina con malumori di circostanza, una per cui le variazioni dell'allegria dipendevano esclusivamente da quel che accadeva intorno. «È un po' superficiale», diceva mamma alle cognate, e io ero convinta che fosse un complimento. A modo suo aveva ragione: se niente mi disturbava in modo imperativo, restavo sorridente per tutte le ore che avevo davanti, per giorni in successione, per settimane consecutive. A otto anni, a differenza di tutto il resto della mia famiglia, io sapevo farmi felice da sola.


«Andiamo alla festa», aveva detto mio padre, come se la festa fosse un luogo fisico in attesa del nostro arrivo, un posto raggiungibile avanzando compatti, fingendo che andarci contemporaneamente volesse dire andarci insieme. Per me e Daniele in un certo senso era davvero cosí: la festa era la piazza sotto casa in stato di grazia, un mondo familiare e straordinario allo stesso tempo. Nello sterrato che era scenario quotidiano dei nostri giochi vedevamo accadere un miracolo che durava solo tre giorni all'anno: misteriosamente richiamati dalla solennità del patrono comparivano grandi giochi meccanici a forma di qualunque cosa volasse, con pistoni giganteschi che ti portavano in alto in mezzo alla musica forte, e decine di bancarelle piene di balocchi e dolciumi che non si trovavano da nessun'altra parte, come lo zucchero filato o il gelato bicolore con i gusti che uscivano già mischiati dalla macchinetta a leva.

La festa era il ritrovo di tutte le cose che consideravamo stupefacenti, ma era anche la prova dell'esistenza di una felicità su appuntamento: una gioia programmabile ogni fine di maggio, fatta di emozioni a gettoni e risate tarate sul tempo di un giro sul brucomela. Mia madre e mio padre sul brucomela non salivano, e nemmeno sugli altri giochi. Non si compravano lo zucchero filato né il gelato bicolore. Non acquistavano nulla per sé nelle bancarelle dei giocattoli. Non so cosa avesse in mente mio padre quando diceva che dovevamo andare alla festa, so solo che non era il posto dove stavo andando io.


Mio fratello si fermò di colpo davanti a una bancarella, attratto dalla trappola di esche multicolori astutamente messe ad altezza bambino. C'erano scatole piene di perle di finto vetro, pistole che sparavano freccette con la ventosa, kit per vestirsi da indiano o da odalisca, riproduzioni smontabili dell'Uomo Tigre, di Goldrake e di altri cartoni animati, girandole di ogni dimensione, Barbie vita in piscina e Barbie vita in camper, palloncini galleggianti nell'aria umida, Mio mini pony di tutti i colori, Cicciobelli e hula-hoop.

Daniele aveva visto un fucile spara-acqua col serbatoio da due litri, un oggetto temibile che gli avrebbe garantito vittoria certa nelle guerriglie tra gli oleandri dei giardini pubblici, e decise che lo voleva. Costava dodicimila lire, tremila in meno della cifra che i miei avevano deciso di spendere per ciascuno di noi, e non c'era motivo di non accontentarlo prima che puntasse un oggetto piú costoso; ma se c'era una cosa che avevo imparato in otto anni di desideri era che mio padre non diceva mai sí al primo colpo. Per lui cedere senza resistere era un segno di debolezza, cosí la prima risposta a qualunque domanda era sempre un rifiuto: poi si negoziava. «Allagheresti casa», commentò secco. Negli occhi di Daniele brillò l'allarme. «No, lo giuro, lo uso solo fuori, promesso». Indirizzò a mamma un'occhiata che aveva qualcosa di canino: «Promesso!» Lei strinse le sopracciglia come se dovesse riflettere e si prese qualche secondo prima di guardare babbo. Riconoscevo quella sequenza mimica, e non pensai neanche per un attimo che non gli avrebbero comprato il fucile; mi stupivo di come Daniele, che aveva avuto quasi quattro anni piú di me per studiare quel tiramolla di sguardi, ci cascasse ancora. «Se a tua madre non scoccia di pulire i tuoi disastri...» Quelli di mio padre erano sempre degli assensi al condizionale: si disinteressava delle conseguenze, ma si prenotava il diritto di rinfacciare «te l'avevo detto». A mio fratello bastò per emettere un grido gioioso che fece spuntare un sorriso compiaciuto sulle labbra di mamma. Mentre l'ambulante staccava il fucile dall'espositore, vidi mia madre voltarsi verso di me. Disse: «Eleonora, tu vuoi qualcosa». Lo disse proprio cosí, senza punto interrogativo, ma io non ci feci caso, perché in mezzo a quella cornucopia di oggetti di plastica avevo già scorto una cosa talmente imprevedibile che non avrei nemmeno immaginato di poterla sognare. Tra i passeggini rosa e le bambole di ogni dimensione brillava un carrello da gelataio bianco e dorato in stile rétro, con le ruote girevoli, un set di otto coni in finta cialda e altrettanti gusti colorati da avvitarci sopra. Sul carrello c'era una tendina a strisce dove si poteva appendere la scritta ICE CREAM, e l'insieme mi apparve come un prodigio in tossiche sfumature pastello che fece impallidire di colpo ogni mia scorribanda pomeridiana. Il cartellino scritto a pennarello diceva che costava diciottomila lire, troppi soldi per la spesa convenuta per me, a meno di non voler considerare disponibile il resto avanzato da Daniele. Io commisi l'ingenuità di pensare che lo fosse. «Vorrei quello», dissi indicando il carrello all'ambulante.

Daniele stava già scartando il suo fucile e non fece minimamente caso a cosa succedeva. Mio padre mi guardò, attese qualche secondo e poi si avvicinò alla bancarella mentre l'uomo dei giocattoli stava già tirando giú il carrello dei gelati. Gli fece un cenno di diniego. «Lasci, grazie ma non va bene», disse con la cortesia che usava solo con le persone di cui non gli importava nulla. Mi rivolsi a mia madre con occhi interrogativi. Non va bene non era l'apertura di negoziato che mi aspettavo. Era un ostacolo a cui non si poteva contrapporre alcuna delle promesse che ero peraltro già pronta a fare. A un Non va bene si poteva rispondere solo in un modo, ed era quello che piú faceva arrabbiare mio padre. «Perché?» Nel momento stesso in cui la domanda mi usci di bocca compresi di aver fatto un errore. Mio padre non diede segno di avermi udita, ma mamma mi tolse gli occhi di dosso e Daniele alzò i suoi dal fucile. L'uomo dei giocattoli stava ancora oltre il banco con il carrello metà sganciato e metà no, in una buffa posa interlocutoria. «È un bellissimo gioco, - azzardò. - Non sporca, non fa rumore e non ha pezzi piccoli da ingoiare». Parlava per convincere i miei ma sorrideva a me, e io intravidi in quel sorriso l'unico elemento che poteva bilanciare la minoranza in cui mi trovavo. «Perché non va bene?» ripetei, non ancora del tutto consapevole che la tensione che percepivo non riguardasse piú il giocattolo. Mio padre di nuovo non rispose. Fissava mia madre con uno sguardo ombroso che gli conoscevo già, ma di cui per la prima volta intuivo il significato. L'avevo visto in certi padroni di cani, e un paio di volte mi aveva guardata cosí il maestro di un'altra classe. Alcuni ragazzi piú grandi, quando c'era da decidere chi faceva la conta o chi stava in porta, si misuravano tra loro in quel modo finché uno la spuntava. Non era uno sguardo arrabbiato, era qualcosa di peggio e io lo riconobbi perché era bello.


Al termine di quel silenzio coniugale mia madre si voltò verso di me e meccanicamente disse «Perché non hai rispetto delle cose -. E aggiunse: - Basta vedere come hai ridotto il vestito». L'uomo dei giocattoli rimise il carrello a posto. Io non fui altrettanto pronta, piú tesa a rilevare l'incongruenza nell'argomento che a capirne il sottotesto. «Anche Dani si è sporcato, però a lui gliel'avete comprato». Cercai mio fratello per avere un sostegno, ma tutto quel che ottenni in risposta fu una corrente di odio primitivo. Se estendere anche a me l'indulgenza che gli era toccata poteva comportare il rischio di perderla, Daniele sapeva bene da che parte stare: quella del fucile.

Babbo stava fermo e silenzioso. Guardava i giochi meccanici come fosse un passante capitato per caso vicino a noi. Piú era ostentato il suo disinteresse, piú il comportamento di mia madre si inaspriva e quello di mio fratello diventava circospetto. «Adesso basta, Eleonora. Abbiamo detto no e andiamo». A quelle parole puntai i piedi e feci un passo indietro verso la bancarella. Davanti a me Daniele teneva stretto il fucile come se glielo volessero rubare, mamma aveva una luce implorante negli occhi e mio padre alle sue spalle trasmetteva la tensione delle corde di un arco prima del rilascio. Per la prima volta mi parve di vederli per quello che erano: un gruppo di estranei consanguinei chiusi in un gioco di sopravvivenze reciproche in cui io, per motivi diversi, ero per tutti e tre sacrificabile. Mia madre e Daniele divennero sfuocati, ma mio padre non smetteva di fissarmi; se io avevo visto qualche bellezza nella forza dei suoi occhi su mamma, quel che lui vide in me non gli piacque per nulla. Un senso di assoluta solitudine mi investi improvviso, spezzandomi dentro qualcosa di fragile che aveva a che fare con l'integrità dell'infanzia.

Cominciai a piangere, prima silenziosamente poi con un singulto che coinvolse tutto il corpo, scuotendomi le membra fino all'isteria. Mi trascinarono via urlante dalla bancarella mentre scalciavo scomposta le gambe di mamma che cercava inutilmente di tenermi per mano.

«Ci hai fatti vergognare», disse mio padre piú tardi, sudato e spettinato mentre si risistemava la cintura nel passante dei calzoni. «Non dovevi rivolgerti direttamente all'ambulante», aggiunse mia madre. La guardavo come se le credessi, ma sapevamo entrambe che non era stato il mio contegno in pubblico a meritarmi la punizione, e nemmeno il fatto che quel pianto inascoltato avesse rivelato a qualcuno i limiti delle nostre finanze. Quello di cui mio padre si era vergognato era lo sguardo che era stato costretto a rivolgere a lei davanti a me. Era la certezza che avessi visto il limite d'animo di mio fratello. Era l'evidenza con cui avevo colto la pavidità mediatrice di mamma, feroce nel ruolo di custode di una disciplina a cui era la prima sottoposta.


Quello che mio padre non mi aveva perdonato era stata la consapevolezza, la cognizione dell'imperio, la stessa percezione dell'abisso altrui che trent'anni dopo, in una terrazza d'ottobre nel centro storico di Cagliari, mi spinse ad andare a cena con un ragazzo di diciotto anni che non avevo mai visto prima.

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Lezione otto


La grande sala sotterranea della sartoria Frongia era satura dell'odore di centinaia di stoffe la cui superficie non era mai venuta in contatto con la pelle di nessuno. Dagli scaffali di legno scuro che arrivavano fino al soffitto si affacciavano come comari le pezze arrotolate di magnifici velluti lisci e rigati, di grisaglie splendenti, di cotoni tinti in filo in decine di trame diverse, di lana cardata, di gabardina, di flanelle di varia grana, di popeline, di cachemire di ogni peso e di robustissimi orbaci neri. Chirú si guardava intorno silenzioso mentre il guardarobiere ci faceva strada fino a guadagnare il centro di quell'imponente cattedrale.

Avevo chiesto appuntamento al signor Frongia il giorno dopo la festa, mettendo alla prova la fama di cortesia di un'attività commerciale che a Cagliari si vantava di vendere l'eleganza alla borghesia da piú di centosessant'anni. Il maestro di stoffe aveva accettato la mia richiesta e ora, in piedi accanto al suo guardarobiere, mi stava davanti in una posa curiale che enfatizzava la linea del completo in fresco di lana che gli cadeva con la precisione di un filo a piombo. Con un sorriso compiaciuto e un gesto circolare della mano esclamò:

- Ecco il nostro caveau! Qui ci sono i tessuti con cui realizziamo le confezioni su misura. I clienti vengono da tutto il mondo per sceglierli personalmente secondo le proprie esigenze.

Il luogo era un monumento all'artigianato sartoriale di alta qualità, e il microclima fresco e secco che vi percepivo - senza dubbio garantito da un efficiente sistema di deumidificazione - era la prova che la parola caveau non era stata pronunciata a caso: quei muri di stoffa erano un patrimonio degno di ogni cura, e il padrone di casa voleva che ne fossimo consci. Gli dimostrai che lo ero annuendo con convinzione e mi voltai sollecita verso Chirú, che fece un passo avanti come se lo avessi chiamato. Con i jeans sdruciti, la felpa e la mia sciarpa di velluto come tocco di incongruenza suprema, il mio allievo era la negazione vivente della filosofia di quel tempio: persino i commessi all'ingresso, dopo averlo pesato con gli occhi, avevano pietosamente evitato di guardarlo una seconda volta.

Tornai a rivolgermi al signor Frongia col mio miglior sorriso:

- Come le accennavo per telefono, stiamo facendo una ricerca. Mio nipote ha necessità di imparare certe differenze tra un tessuto e l'altro che solo un vero esperto è in grado di mostrargli.

Assecondai il suo cenno del capo aggiungendo con voce complice:

- ... E se pochi possono farlo come voi, certamente nessuno può farlo meglio.

Il signor Frongia accettò il riconoscimento con eleganza consapevole, ma senza sorridere. Compunto, si era già immerso nel ruolo di sommo sacerdote dello stile, e fu con quel piglio che si rivolse imperioso al guardarobiere:

- Cominciamo con i Visconti di Modrone, dunque.

L'uomo ubbidí e spostò la scala scorrevole lungo l'asse di legno a cui era fissata, fermandola in corrispondenza dello scaffale dove lo splendore dei velluti risaltava sfaccettato sulle altre stoffe come un diamante tra le perle. Ne tirò giú tre pezze, due di un pacato verde oliva e una dello stesso punto di bordeaux delle uve nere spremute. Le posò con la delicatezza di una nutrice sul piano di vetro del tavolo al centro della sala, dove ci avvicinammo per guardarle. Il signor Frongia le dischiuse appena, scostando i lembi per scoprirne il cuore soffice.

— Il velluto è una genialità italiana, signori. Esiste dal Duecento, ma fino a metà dell'Ottocento le aziende lo hanno prodotto solo liscio. È stato il duca Visconti di Modrone a cominciare a fare questo velluto rigato. Come vedete le tre pezze non sono identiche, hanno anche nomi diversi a seconda di quante righe ci sono in ogni metro. Questo per esempio è un cinquecento righe, — indicò il velluto verde, che aveva le scanalature piú ampie. — Mentre questo è un mille righe. In quello bordeaux le righe sono invece duemila e la Visconti di Modrone lo produce solo per la nostra isola, tanto che lo chiamano «velluto Sardegna». Ci facciamo giacche per persone con una certa idea di eleganza.

Passò la mano sulla superficie cosí fitta da rendere quasi indistinguibili le linee di pelo corto che invece negli altri due tessuti apparivano piú rade e definite. Il movimento delle dita impresse sul velluto una traccia opaca che il sarto si affrettò a carezzare nel verso giusto, facendola scomparire con mossa da illusionista.

— Prego, — aggiunse invitandoci a sfiorare la stoffa.

Chirú si sporse verso le pezze e le guardò con attenzione. Lo vidi accarezzare i tre tessuti con la cura di un cieco, memorizzando al tatto la consistenza e le differenze della fibra morbida che gli scivolava sinuosa tra le dita. Quando staccò la mano dalle stoffe disse semplicemente:

— Ho capito.

Dal suo sguardo perplesso ipotizzai che si stesse chiedendo quale tipo di uomo poteva scegliere di indossare quelle morbidezze senza correre il rischio di farsi contagiare. Anche se a me sembrava evidente che apparire cedevoli nell'aspetto potesse essere un ottimo modo per nascondere una durezza d'intenti, non avevo intenzione di fare al ragazzo una lezione sui vantaggi dell'ipocrisia; mi era sufficiente che si facesse interrogare dall'enorme potenziale simbolico rappresentato da tutte quelle stoffe. Ognuna di quelle trame era un alfabeto a sé stante, e la combinazione di taglio e tessuto aveva funzioni cosí complesse che vestire le nudità dei ricchi cagliaritani era di certo l'ultima in ordine di importanza. In posti come quello non si entra perché si ha bisogno di un vestito, ma perché si ha una storia di sé da raccontare, vera o verosimile che sia. Se Chirú fosse stato una ragazza non avrei avuto alcun bisogno di spiegarglielo, le donne lo imparano da bambine. Ci sono abiti che decidono che donna sarai prima ancora che ti sia venuto il menarca, stoffe che rivelano a prima vista il quartiere in cui sei cresciuta e certi modelli dicono a voce alta che c'è qualcosa del tuo fisico che vuoi nascondere, finendo per rivelarlo a chiunque guardi. Scegliere un vestito, un colore, una lunghezza o una forma comunica molto di piú che il proprio gusto. Io l'ho imparato quando il mio corpo di tredicenne decise di esplodere in tutte le direzioni tranne la sola che speravo, inchiodandomi in pochi mesi al traguardo simultaneo di una media altezza e una quarta di seno.

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La paninoteca che aveva scelto era un tugurio del centro storico di Cagliari sui cui tavolacci tre generazioni di universitari avevano inciso graffiti ascoltando gli AC/DC in compagnia della carta di birre piú fornita della città. I muri coperti di perlinato e gli spartani servizi igienici non avevano visto alcuna miglioria dall'ultima volta che c'ero stata da studente. Perseverare in quel basso profilo doveva aver fatto la fortuna del gestore, perché quei panini sempre uguali a sé stessi erano passati dal rango di cibo economico per matricole a quello di rustiche madeleines per quarantenni nostalgici.

Appena entrammo mi resi conto che gli avventori erano in maggioranza miei coetanei, e questo bastò a rilassarmi: temevo di finire in un posto pieno di adolescenti dove mi sarei sentita in imbarazzo tutto il tempo. Scegliemmo il tavolo piú distante dalle correnti della porta, ma io tornai quasi subito fuori per una telefonata di lavoro. Il tempo che mi occorse per rientrare fu sufficiente a Chirú e Luca per innescare una conversazione sulle rispettive difficoltà amorose. Ne colsi la coda mentre tornavo a sedermi.

- ... e quindi alla fine è uscita, ma con l'amica. Ho fatto finta che non me ne fregasse niente, ma avrei dovuto mandarla a quel paese.

Luca aveva concluso la frase con una cautela rivolta tutta a me. Che mi stesse ancora prendendo le misure era evidente dal fatto che mi aveva lanciato un'occhiata di sguincio per capire quanta chiarezza di linguaggio potesse usare in mia presenza. Io rimasi serafica.

Quando la cameriera se ne andò con le nostre ordinazioni Chirú riprese il discorso manifestando la volontà di includermi nella loro intimità.

- Comunque è un classico. Quando ti dicono che non vogliono uscire, intendono dire che non vogliono uscire con te. Io mi chiedo cosa costa essere chiare. Voi donne siete veramente complicate.

- Ha ragione, - rise Luca, - dovrebbero vendervi con il libretto delle istruzioni.

In quel cameratismo vittimista riconobbi i piú triti stereotipi adulti e vidi con delusione che il mio allievo, solitamente spiazzante nei suoi giudizi, in presenza dell'amico ci si adagiava. Prima che la conversazione s'infilasse nel luogo comune degli uomini che vengono da Marte e le donne da Venere bevvi un sorso di birra. Poi li guardai.

- Se foste iscritti a Ingegneria vi capirei, ma voi due fate il Conservatorio o no?

- Sí...

- Allora ce l'avete, il libretto delle istruzioni. È Mozart. Mi guardarono interrogativi.

- O meglio, Lorenzo Da Ponte. Un prete che ha scopato quanto voi nella vita potrete solo sognare, e vi ha fatto il favore di spiegarvi quello che ha capito, che peraltro non è poco. Praticamente tutte le sue opere investigano il mistero dei rapporti tra uomini e donne: fedeltà e tradimento, desiderio e dovere, vendetta e perdono... È il vostro santo protettore, dovreste portargli eterna riconoscenza.

Detti un morso al panino come se la conversazione non m'interessasse piú di tanto. Avevo tutta la loro attenzione.

- Intendi Don Giovanni! - s'illuminò Luca, dopo qualche secondo di perplessità.

Scossi la testa: - Fa una fine pessima, non te lo consiglio. Molto meglio Cosí fan tutte, dove i protagonisti hanno piú o meno la tua età. Tu fai canto, la saprai a memoria.

- Solo qualche cosa di Guglielmo...

- Niente di personale contro i baritoni, ma è il piú tonto di tutti in quell'opera. Dovresti ascoltare l'aria in cui Despina spiega alle sue padrone quindicenni come ci si deve comportare con i maschi...

Presi tempo, appoggiando con indolenza la schiena al perlinato, e addentai nuovamente il panino. La curiosità nei loro occhi era il condimento migliore. Sotto lo sguardo stupito di Chirú, Luca prendeva gradualmente coraggio.

- Non ce l'ho troppo presente... come fa quest'aria?

A dispetto del sottofondo rock del locale, mi calai nell'interpretazione di Despina e assunsi un'aria allusiva, rivolgendomi nel canto ora all'uno e ora all'altro come fossero le due ingenue sorelle da istruire. Le teste dei ragazzi si avvicinarono per sentire quel che canticchiavo.

- Una donna a quindici anni dèe saper ogni gran moda...

- Ah, sulla moda sanno tutto! - Chirú m'interruppe sfoggiando di nuovo l'aria da uomo di mondo con cui era entrato.

- La gran moda è il modo di comportarsi, non la collezione Armani. Vuoi capire le donne e non afferri neanche le parole di un'aria? Stai a sentire il maestro cosa dice!

Mi rivolsi a Luca come se gli svelassi un segreto e proseguii nel sussurro del canto:

- ... dove il diavolo ha la coda, cosa è bene e mal cos'è. Dèe saper le maliziette che innamorano gli amanti: finger riso, finger pianti, inventar i bei perché.

Il ragazzo accettò la complicità che gli offrivo e mi sorrise.

- Dèe in un momento dar retta a cento, con le pupille parlar con mille, dar speme a tutti, sian belli o brutti. Saper nascondersi senza confondersi, senza arrossire saper mentire, saper mentire...

- Bagasse... - commentò Chirú. Gli diedi uno scappellotto e conclusi a voce piú imperiosa:

- E qual Regina dall'alto soglio col «Posso» e «Voglio» farsi ubbidir!

Avevamo attirato l'attenzione di alcuni tavoli, ma non me ne curai e ripresi la birra in mano.

- Col posso e voglio. Duecentovent'anni dopo questa lezione ancora state qui a dire che le donne sono misteriose?

Luca strinse le labbra, poi commentò:

- Piú che misteriose da questo testo si capisce che sono ipocrite e manipolatrici. Non mi sento molto meglio di prima, onestamente.

- No, significa che qualcuno ha insegnato loro che essere ipocrite e manipolatrici è la condizione per «farsi ubbidir». Da Ponte ti illustra un rapporto di potere, non d'amore, e ti sta dicendo che anche le ragazze per sopravvivere imparano a indossare una maschera, né piú né meno di voi. Se vai oltre quella finzione, scoprirai tante paure quante gliene vorresti nascondere tu.

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Mamma in apparenza faceva tutto il necessario per crederci. Affrontava la chemio con diligenza da scolara, e si era preparata a perdere i capelli ancora biondi rasandoli in anticipo per battere sul tempo i segni della cura. Bella lo era sempre stata, ma il percorso della malattia le stava regalando una componente ascetica che faceva sembrare solenne anche la sua affermazione piú casuale. Non mangiava quasi nulla perché non sentiva i sapori, tranne quelli del cioccolato fondente, del gelato alla menta e delle uova. Il medico aveva cominciato a imporgliene uno solo alla settimana.

- Basta uova, signora Franca. I valori del colesterolo sono altissimi.

- Il colesterolo... certo. È un problemone. Ci starò attenta.

Smagriva con eleganza e un'ironia che non le ricordavo. Alla quinta settimana di chemio mi trovai ad osservarla ammirata. Era venuta un'infermiera domiciliare e mentre le infilava l'ago nelle carni mamma si puntellava al muro con gli occhi fissi sul calendario di Frate Indovino che segnava i tempi di semina di basilico e prezzemolo.

- Sta per cambiare la luna, questo mese devo procurarmi i semi per l'orto.

- Lo farai appena uccidi la bestia.

Mamma mi guardò mentre si ricomponeva la gonna, ma io non guardavo lei.

Fissavo il calendario.

Era fermo a due mesi prima.


Fu a metà del secondo ciclo che mi chiese di non andare piú a trovarla.

Ero arrivata trionfante, con un uovo d'oca grande tre volte quello di gallina. Un piccolo imbroglio per farle mangiare quello che piú le piaceva senza contraddire le indicazioni del medico.

- Cosí ti dà forza per vincere la battaglia, - le dissi porgendoglielo.

Tirò un sospiro e si sedette, cominciando a parlare. Ricordo che mise le sue affermazioni in una sequenza scandita, come se seguisse uno studiato ritmo interiore: la devi smettere di chiamare bestia quello che ho. Non è una bestia. È un tumore, un pezzo di me. Non è una battaglia, non sono in trincea, nessuno dentro mi divora, non ho un parassita nel petto. Sono solo malata. Ogni volta che dici che ho una bestia nel polmone mi butti in un'arena dove sarò sbranata. Ogni volta che dici che sto combattendo mi sbatti in prima linea. Mi costringi a fare piú fatica, a pensare che quello che sto vivendo sia una specie di invasione aliena. Sto provando a farci pace, ma tu continui a dire a tutti che combatto.

Scandí le parole fissandomi in volto. Pesava dieci chili in meno di quel giorno al discount e faticava a respirare con sempre maggiore evidenza. Il tumore si era offeso ed era diventato piú aggressivo. Prese la moka e cominciò a versarmi il caffè.

- Tu non lo bevi?

- Non sento i sapori, lo sai.

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