Copertina
Autore Guillaume Musso
Titolo Chi ama torna sempre indietro
EdizioneSonzogno, Milano, 2007 , pag. 320, dim. 142x224x26 mm , Isbn 978-88-454-1373-5
OriginaleSeras-tu là?
EdizioneXO Editions, Paris, 2006
TraduttoreLaura Serra
LettorePiergiorgio Siena, 2007
Classe narrativa francese
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Pagina 7

Prologo



CAMBOGIA NORDORIENTALE

STAGIONE DELLE PIOGGE

SETTEMBRE 2006

L'elicottero della Croce Rossa atterrò all'ora prevista.

Arroccato su un altopiano circondato da foreste, il villaggio era composto da un centinaio di rozze capanne di tronchi e rami. Appariva sperduto e fuori del tempo, ed era lontano dalle zone turistiche di Angkor e Phnom Penh. L'aria era satura di umidità e il fango ricopriva ogni cosa.

Il pilota non spense nemmeno il motore. La sua missione era ricondurre in città un'equipe medica umanitaria: niente di particolarmente impegnativo, in tempi normali, ma purtroppo era settembre e le continue piogge torrenziali rendevano difficile pilotare l'apparecchio. Quanto al carburante, le riserve erano limitate, ma sufficienti a portare tutti alla meta. L'importante era non perdere tempo.

Due chirurghi, un anestesista e due infermiere uscirono di corsa dall'ambulatorio di fortuna in cui lavoravano dal giorno prima. Nelle ultime settimane avevano visitato i villaggi dei dintorni, cercando di rimediare come potevano ai flagelli della malaria, dell'AIDS, della tubercolosi, e fornendo cure e protesi agli amputati in quell'angolo di Cambogia ancora infestato dalle mine antiuomo.

Al segnale del pilota, quattro dei cinque professionisti si precipitarono a bordo dell'elicottero. L'ultimo, un uomo sulla sessantina, rimase invece indietro, lo sguardo perso nel gruppo di cambogiani che circondava il velivolo. Non si decideva a partire. "Presto, dottore, dobbiamo andare!" gli gridò il pilota. "Se non decolliamo subito, non riuscirà a prendere l'aereo!"

Il medico annuì. Stava per salire a bordo, quando incrociò gli occhi di un bambino in braccio a un vecchio. Che età poteva avere? Due anni, al massimo tre. Aveva il visino orribilmente deformato da una fessura verticale che spaccava in due il labbro superiore: una malformazione congenita che lo avrebbe condannato a nutrirsi per tutta la vita di minestrine e pappette, e che non gli avrebbe nemmeno permesso di articolare parola.

"Si sbrighi", lo incitò un'infermiera.

"Bisogna operare questo bambino!" gridò il medico per farsi sentire nonostante il rumore del rotore che girava sopra le loro teste.

"Non c'è più tempo. Le strade sono impraticabili a causa delle inondazioni e l'elicottero non può tornare a prenderci che tra parecchi giorni."

Ma l'altro, incapace di distogliere gli occhi dal bambino, non si muoveva. Sapeva che, in quella regione del mondo, un'antica tradizione induceva spesso i genitori ad abbandonare i figli nati con il labbro leporino. E, una volta in orfanotrofio, a causa della malformazione i piccoli non avevano alcuna possibilità di essere accolti da una famiglia adottiva.

"La aspettano domani a San Francisco, dottore", insistette l'infermiera. "Ha un fitto programma di interventi, poi le conferenze e..."

"Partite senza di me", decise infine lui, allontanandosi dall'elicottero.

"Allora resto con lei", dichiarò l'infermiera scendendo a terra.

Si chiamava Emily ed era una giovane americana che lavorava nello stesso ospedale del dottore.

Il pilota sospirò e scosse la testa. L'elicottero si sollevò in verticale, poi, dopo un attimo di stallo, si allontanò in direzione ovest.

Il medico prese in braccio il bambino, che era pallido e raggomitolato su se stesso. Accompagnato dall'infermiera, lo condusse nell'ambulatorio e, prima di procedere all'anestesia, gli mormorò qualche parola di conforto per farlo rilassare. Appena il piccolo si fu addormentato, gli scollò con il bisturi il velo palatino e lo allungò per colmare la scissura del palato. Poi ricostruì nello stesso modo le labbra per restituire al bimbo un vero sorriso.

Quando l'operazione fu terminata, il medico uscì dalla stanza e si sedette un attimo sulla veranda ingombra di lamiere e foglie secche. L'intervento era stato lungo. Non dormiva da quasi due giorni e a un tratto si sentì addosso una terribile stanchezza. Accese una sigaretta, si guardò intorno: la pioggia era cessata, e uno squarcio di cielo sgombro proiettava intorno una luce accecante dai toni porpora e arancione.

Non si pentiva di essersi trattenuto lì. Ogni anno passava diverse settimane in Africa o Asia per conto della Croce Rossa. Le missioni umanitarie lasciavano sempre un segno in lui, ma erano divenute addirittura una droga, un modo di sfuggire a una vita collaudata di primario in un ospedale californiano.

Quando spense la sigaretta, avvertì una presenza alle sue spalle. Si voltò e riconobbe il vecchio che teneva in braccio il bambino al momento della partenza dell'elicottero. Era una sorta di capo villaggio. Aveva la schiena curva, il viso scavato dalle rughe e indossava un abito tradizionale. Salutò portando le mani giunte sotto il mento, quindi drizzò la testa, guardò il medico negli occhi e, con un cenno della mano, lo invitò a seguirlo nella sua abitazione, dove gli offrì un bicchiere di sakè.

"Si chiama Lu-Nan", disse.

Il medico capì che era il nome del bambino e si limitò ad annuire.

"Grazie per avergli restituito un volto", continuò il vecchio.

Il chirurgo accettò umilmente i ringraziamenti; poi, quasi imbarazzato, distolse gli occhi. Dalla finestra priva di vetri si vedeva, a pochissima distanza, l'intricata e verdeggiante foresta tropicale. Gli faceva uno strano effetto pensare che a pochi chilometri da lì, sui monti della provincia di Ratanakiri, vivevano ancora tigri, serpenti ed elefanti.

Perso nelle sue fantasticherie, stentò ad afferrare il senso delle parole dell'ospite.

"Se avesse la possibilità di esaudire un desiderio, quale sceglierebbe?" gli stava domandando quello.

"Come, prego?"

"Qual è il suo più grande desiderio?"

Lì per lì il medico avrebbe voluto dare al vecchio una risposta di sapore spirituale, ma, vinto dalla stanchezza e da un'emozione imprevista, sussurrò: "Vorrei rivedere una donna".

"Una donna?"

"Sì. La sola... la sola che abbia mai contato per me."

E lì, in quel luogo sperduto lontano dagli occhi dell'Occidente, un'intesa solenne si stabilì tra i due.

"Sa dove si trovi adesso questa donna?" chiese il vecchio khmer, stupito della semplicità del desiderio.

"È morta da trent'anni."

Il cambogiano aggrottò la fronte e riflette intensamente. Dopo un attimo di silenzio si alzò e, con un fare dignitoso, raggiunse il lato opposto della stanza, dove, su scaffali traballanti, era ammucchiata una parte delle sue risorse: cavallucci marini essiccati, radici di ginseng, serpenti velenosi intrecciati e immersi nella formalina.

Frugò un attimo tra le cianfrusaglie, poi prese quello che cercava.

Quando tornò dal medico, gli porse un flaconcino di vetro soffiato contenente dieci pillole dorate.

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Pagina 59

Secondo incontro



                    La miglior prova dell'impossibilità del viaggio
                    nel tempo è data dal fatto che non siamo stati
                    invasi da orde di turisti provenienti dal futuro.
                                                      STEPHEN HAWKING



SAN FRANCISCO

SETTEMBRE 1976

ELLIOTT HA TRENT'ANNI

"Allora, poltriamo?"

Elliott si svegliò talmente di soprassalto che rotolò giù dalla poltrona. Con il naso nella polvere, alzò gli occhi in su e vide una figura opaca stagliarsi contro la luce delle stelle: l'uomo che aveva incontrato il giorno prima all'aeroporto. Le braccia conserte, lo sconosciuto lo guardava con un lieve sorriso, visibilmente contento del bel tiro che gli aveva giocato.

"Che cazzo ci fa sulla mia terrazza?" esplose il giovane medico.

"La tua casa è la mia", replicò lo strano ospite.

Incerto tra la sorpresa e l'offesa, Elliott si alzò di scatto e, stringendo i pugni, avanzò verso l'intruso. Per qualche secondo i due si squadrarono in silenzio; avevano la stessa esatta statura. "Posso sapere a che gioco sta giocando?" fece Elliott con tono minaccioso.

Eludendo la domanda, l'altro rispose pacato: "Non vuoi capire, eh?"

"Capire cosa?"

"La verità."

"E quale sarebbe, la verità?" disse Elliott stringendosi nelle spalle.

"La verità è che io sono te. "

"La verità è che lei è matto da legare."

"E tu, ragazzina, sei lento ad afferrare."

Elliott osservò meglio colui che gli stava davanti.

Non indossava più il pigiama sgualcito del giorno prima, ma pantaloni di tela, una camicia pulita e una giacca ben tagliata. Aveva una certa presenza e un certo carisma; non fosse stato per i suoi discorsi incoerenti, avrebbe avuto più l'aspetto di un uomo d'affari che di un internato in manicomio.

Elliott si sforzò di assumere un tono persuasivo e di farlo ragionare.

"Senta, penso che lei non stia bene. Forse c'è un medico che la segue e che..."

"Il medico sono io."

Di bene in meglio, pensò Elliott grattandosi il capo. Cos'era giusto fare in casi del genere? Chiamare la polizia, un'ambulanza o l'sos pazzi furiosi? In apparenza l'uomo non era violento, ma avrebbe potuto anche diventarlo.

"I suoi parenti saranno sicuramente preoccupati. Se mi dice come si chiama, cerco di trovare il suo indirizzo e la accompagno a casa."

"Mi chiamo Elliott Cooper", rispose tranquillo l'altro.

"È impossibile."

"Perché mai?"

"Perché Elliott Cooper sono io."

"Vuoi vedere la mia carta d'identità?" chiese il vecchio estraendo di tasca il portafoglio.

Piuttosto divertito, Elliott esaminò il documento che l'altro gli porgeva.

Incredibile: c'erano scritti il suo nome, il suo cognome e la sua data di nascita! Solo la foto era quella di un uomo di trent'anni più vecchio.

Non significa niente, si disse per tranquillizzarsi. Chiunque può procurarsi documenti falsi.

A ben riflettere, non poteva esserci che una spiegazione: era uno scherzo di Matt. Si aggrappò per un attimo a quell'idea, senza riuscire a convincersi del tutto. Sì, Matt era uno spirito garbatamente bizzarro che amava gli scherzi, ma non era certo tipo da organizzare un tiro come quello. Inoltre, se avesse voluto fargli uno scherzo non ne avrebbe scelto uno così cerebrale, avrebbe semmai colpito al di sotto della cintura.

Mi avrebbe mandato uno stuolo di spogliarelliste o una squillo di lusso, non certo un sessantenne che sostiene di essere me, pensò Elliott.

Assorto in quelle considerazioni, si accorse troppo tardi che l'uomo gli si era avvicinato e, afferratelo per un braccio, lo fissava con espressione seria.

"Sentimi bene, giovanotto, benché possa apparire incredibile, ho trovato davvero il mezzo per tornare indietro di trent'anni."

"Sì, certo."

"Devi credermi, perdio! "

"Lei fa discorsi senza senso! "

"Se faccio discorsi senza senso, spiegami come sono potuto uscire dalla toilette dell'aeroporto senza farmi vedere da nessuno."

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Pagina 149

II
Terzo incontro



        "Appena ieri avevo vent'anni, accarezzavo il tempo..."
                                              CHARLES AZNAVOUR

        "Yesterday, love was such an easy game to play."
                                  JOHN LENNON - PAUL MCCARTNEY



1976

ELLIOTT HA TRENT'ANNI

La sala panoramica dell'Aquatic Café permetteva ai visitatori del parco di sorseggiare una bevanda godendosi una vista molto ampia della vasca delle orche, qualche metro più sotto. Di lì a meno di un quarto d'ora, le orche assassine avrebbero iniziato le loro incredibili prodezze guidate dagli addestratori in una sapiente coreografia.

Seduto a un tavolo, Elliott guardò la gradinata vuota riempirsi a poco a poco per l'ultimo spettacolo della giornata. Un cameriere gli portò la bottiglia di Budweiser che aveva ordinato e lui lo ringraziò con un cenno della mano.

Il locale era immerso in una dolce penombra. Accanto al banco bar, una cantante e un chitarrista eseguivano una versione dal vivo delle canzoni folk di Carole King, Neil Young, Simon & Garfunkel. Cullato dagli accordi di chitarra e ancora pago del bel pomeriggio trascorso con Ilena, Elliott non si accorse dell'uomo che si era seduto al tavolo accanto.

Bevve un sorso di birra e si accese meccanicamente una sigaretta.

"Allora sei tu che mi hai fregato l'accendino!"

Sentendosi colto in fallo, Elliott si girò di scatto. Sul sedile di pelle accanto al suo, l'uomo che era la versione anziana di lui stesso lo guardò con una luce divertita negli occhi. Elliott non si stupì della nuova apparizione, che si era aspettato e che gli confermava di non aver affatto sognato l'accaduto.

"So tutto", disse con voce tremante. "Che cos'è che sai?" domandò il vecchio. "So che mi hai detto la verità. So che sei... me."

L'anziano si alzò, si tolse la giacca e andò a sedersi di fronte a lui.

"Mica male l'idea del tatuaggio", riconobbe arrotolandosi la manica della camicia fino al punto in cui erano incise le lettere.

"Ero sicuro che avresti apprezzato."

Il cameriere si avvicinò al loro tavolo e si accorse che c'era un nuovo cliente.

"Che cosa le porto, signore?" chiese all'anziano.

"La stessa cosa che ha portato a lui", rispose quello indicando la Budweiser. "Il mio amico e io abbiamo praticamente gli stessi gusti."

I due Elliott non poterono reprimere un sorriso e per la prima volta, nella luce tenue del caffè, nacque tra loro una strana complicità. Passò un intero minuto prima che riprendessero a parlare. Ciascuno gustava a modo suo quella nuova intimità: era una sensazione strana, come quella che si prova quando si ritrova un familiare perso di vista da molti anni.

Alla fine il giovane non potè fare a meno di chiedere: "Cazzo, ma come fai?"

"A viaggiare nel tempo? Se ti può consolare, sappi che ne sono stupito quanto te."

"È una cosa folle!"

"Sì, folle."

Elliott tirò una boccata della sigaretta che aveva acceso. Si sentiva la testa molto confusa.

"Come vanno le cose, là?"

"Vuoi dire nel 2006?"

"Sì."

"Che cosa vuoi sapere?"

Di domande Elliott ne aveva tante: dieci, venti, cento, mille. A cominciare da una: "Come va il mondo?"

"Non meglio di adesso."

"La guerra fredda..."

"È finita da un pezzo."

"Chi ha vinto, i russi o noi?"

"Se fosse così semplice..."

"Allora non c'è stata la terza guerra mondiale? Niente guerra nucleare?"

"No, ma abbiamo altri problemi: l'ambiente, la globalizzazione, il terrorismo e tutte le conseguenze dell'11 settembre."

"L'11 settembre?"

"Sì, l'11 settembre del 2001 è successa una cosa, al World Trade Center di New York."

"Cosa?"

"Senti, non so se faccio bene a raccontarti queste cose."

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18



                        Quella che chiamiamo ragione di vivere
                        è nel contempo un'eccellente ragione
                        di morire.
                                                  ALBERT CAMUS



SAN FRANCISCO, 25 DICEMBRE 1976

ILENA HA TRENT'ANNI

ORE 16,48

In alto nel cielo, in mezzo alla bruma e al vento, un uccello dalle piume argentee trafigge le nubi per scendere verso San Francisco. Veloce come una freccia, sorvola Alcatraz e Treasure Island prima di posarsi su una delle due torri del Golden Gate. Gigantesco ed elegante, il celebre ponte attraversa due chilometri di baia, fino a Sausalito. I suoi smisurati piloni di metallo scintillante, solidamente ancorati al Pacifico, non temono né le gelide correnti né la fitta foschia che gli si avvolgono come edera intorno.

Appollaiato sopra le onde, l'uccello protende il capo verso l'abisso e contempla la vita degli uomini che si agitano duecento metri più in basso.

Sul ponte le auto si incrociano e sorpassano nel continuo, ordinato balletto che si dispiega lungo le sei corsie aperte al traffico. È assordante il fracasso di motori, colpi di clacson e lamiere vibranti.

A un tratto, nel passaggio pedonale, compare una fragile donna che sembra una funambola sul filo.

Una funambola che potrebbe cadere da un momento all'altro. Ilena non saprebbe spiegare che cosa sia andata a fare lì...

È che non se l'è sentita di prendere l'aereo e tornare in Florida, e allora ha detto al tassista di fare dietrofront e riportarla in città. Poi, siccome bisognava pure andare da qualche parte, si è lasciata guidare dai suoi passi e i passi l'hanno condotta sul ponte.

Adesso si trova sull'orlo dell'abisso, prigioniera di una sofferenza intollerabile che non aveva nemmeno idea fosse possibile. Tutti la credono un tipo forte, solido e con la testa sulle spalle, ma è un'immagine ingannevole. In realtà è una ragazza vulnerabile, indifesa, alla mercé di una piccola frase di cinque parole: "Non ti amo più, Ilena". Una frase che in meno tempo di quanto ne occorra per pronunciarla ha fatto crollare ogni sua certezza, privandola di tutta la forza e la gioia di vivere.

Si avvicina al parapetto per guardare l'oceano. È una vista inebriante, che da le vertigini. Il vento soffia a mulinelli e le onde si rompono con zampilli di spuma, sicché il mare pare ribollire. Elliott era tutta la sua vita.

Che ne sarà di lei, senza di lui?

Si sente debole e smarrita, sopraffatta da un dolore troppo forte perché lo si possa mitigare. D'un tratto continuare a vivere le fa più paura che morire. Capisce, adesso, perché i suoi passi l'hanno guidata fin lì.

E si getta nel vuoto.

Ci mette quattro secondi a cadere dall'alto del Golden Gate. Quattro secondi per l'ultimo viaggio.

Quattro secondi che sono una vera e propria no man's land tra due mondi.

Quattro secondi in cui non si è più realmente vivi e non si è ancora realmente morti.

Quattro secondi nel vuoto.

Gesto di libertà o follia?

Di coraggio o debolezza?

Quattro secondi al termine dei quali si colpisce l'acqua a centoventi chilometri all'ora.

Quattro secondi al termine dei quali... si muore.


SAN FRANCISCO, 25 DICEMBRE 1976

ELLIOTT HA TRENT'ANNI

ORE 17,31

La notte scende presto d'inverno.

Il pomeriggio è ormai solo un ricordo. In città le luci si accendono una dopo l'altra, mentre una falce di luna approfitta di uno squarcio di ciclo sgombro per fare una timida apparizione. Con i finestrini aperti, Elliott procede lungo l'Embarcadero, il grande viale sul lungomare. Dopo il drammatico addio a Ilena, non ha il coraggio di passare la notte da solo, rinchiuso nella sua casa dalle grandi vetrate. Ha paura di impazzire, paura di quello che potrebbe fare.

Così corre come il vento, lasciandosi guidare dalle insegne e dai lampioni, che lo spingono ad attraversare il quartiere degli affari e a passare accanto alla Transamerica Pyramid, il nuovo grattacielo a forma di freccia che brilla di mille luci. Pensa sgomento a Ilena, che in questo momento dev'essere a bordo dell'aereo. Come reagirà alla fine della loro storia? Elliott cerca di illudersi che si saprà riprendere bene, che non farà fatica a trovare un uomo capace di amarla meglio di quanto non l'abbia amata lui, ma nel contempo gli riesce insopportabile l'idea che la ami qualcun altro.

Dopo una serie di curve si ritrova infine nel parcheggio dell'ospedale. Ha perduto sia l'amore sia l'amicizia: ora non gli resta che il lavoro. Certo, oggi non è il caso di operare o curare pazienti, perché gli effetti dell'alcool e della droga non sono ancora svaniti; ma ha bisogno di ritrovarsi in un ambiente familiare e quello è l'unico, per lui.

Mette la macchina al solito parcheggio ed esce nell'aria notturna nel momento in cui un'ambulanza entra a sirene spiegate per fermarsi davanti al pronto soccorso. Spinto dalla forza dell'abitudine, non può fare a meno di andare a dare una mano ai paramedici Martinez e Pike dell'unità 21, con i quali ha già lavorato. Si accorge che sono pallidi, turbati dalla visione delle gravi ferite della persona soccorsa.

"Chi è, Martinez?" chiede.

Credendolo di guardia, il giovane ispanico risponde: "Una ragazza di trent'anni politraumatizzata e in coma. Si è gettata dal Golden Gate mezz'ora fa".

"È sopravvissuta?"

"Secondo me non durerà ancora a lungo."

La giovane è già stata intubata. È piena di cannule di fleboclisi e ha un collare cervicale che le nasconde una parte del viso.

Elliott aiuta i due a scaricare la barella.

Poi si china sulla donna ferita. E la riconosce.