Copertina
Autore Álvaro Mutis
Titolo L'ultimo scalo del tramp steamer
EdizioneEinaudi, Torino, 1999 [1991], I coralli 113 , pag. 84, cop.fle., dim. 135x213x8 mm , Isbn 978-88-06-15235-2
OriginaleLa última escala del tramp steamer [1988]
TraduttoreGabriella Bonetta
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe narrativa colombiana , mare , paesi: Finlandia
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Pagina 3

Ci sono tanti modi per raccontare questa storia - quanti ne esistono per narrare anche l'episodio piu insignificante della vita di chiunque. Potrei cominciare da quello che per me è stato l'epilogo della vicenda ma, per un altro protagonista dei fatti, forse non è stato che l'inizio. Per non parlare della terza persona coinvolta negli eventi che cercherò di riferirvi, la quale, di ciò che visse allora, non saprebbe distinguere l'inizio dalla fine. Ho scelto dunque di narrare quello che è successo in base alla mia esperienza personale, seguendo la cronologia che mi è toccata in sorte. Può darsi che non sia il modo piú interessante per venire a conoscenza di questa storia d'amore cosi singolare. Da quando l'ho sentita, ho sempre avuto la ferma intenzione di raccontarla a uno che, nell'arte di narrare le cose che succedono alla gente, si è rivelato un maestro. Perciò, ora che la scrivo per lui - giacché non ho potuto raccontargliela -, preferisco farlo nel modo piu diretto e scorrevole, senza avventurarmi in strade, scorciatoie e meandri che non domino, e quindi sconsigliabili soprattutto in questo caso. Speriamo che la mia scarsa perizia non disperda l'incanto, il raro e doloroso fascino di amori non meno effimeri e disperati delle inesauribili leggende che da tanti secoli ci avvincono: da Piramo e Tisbe fino a Marcel e Albertine, passando per Tristano e Isotta.

Quello che sto per raccontare l'ho appreso dalla viva voce del protagonista: non ho dunque altra scelta che cimentarmi io stesso, con i miei modesti mezzi, nell'impresa di metterlo per iscritto. Avrei preferito che qualcun altro, piu dotato, lo facesse: non è stato possibile. I giorni frenetici e chiassosi della nostra vita non l'hanno consentito. Una simile premessa non varrà certo a esimermi dal severo giudizio dei miei improbabili lettori: la critica si occuperà, come è suo costume, di fare il resto, riconsegnando all'oblio queste righe cosi lontane dal gusto dominante ai giorni nostri.


Dovetti partire per Helsinki, dove avrei partecipato a una riunione di esperti in pubblicazioni interne delle compagnie petrolifere. Ci andavo, a dire il vero, assai di malavoglia. Era la fine di novembre e per la capitale finlandese le previsioni del tempo erano sinistre. La conoscenza e l'ammirazione sia della musica di Sibelius, sia di alcune pagine indimenticabili del piu dimenticato dei premi Nobel, Franz Emil Sillanpaa, erano ragioni piu che sufficienti ad alimentare la mia curiosità di conoscere la Finlandia. Mi avevano anche detto che dalla punta estrema della penisola di Vironniemi si riusciva a scorgere, nei giorni senza bruma, la mirifica apparizione di San Pietroburgo, con le cupole dorate delle sue chiese e l'imponente splendore dei suoi palazzi. Tanto mi bastava per decidere di affrontare la terribile prospettiva di un inverno come mai prima ne avevo patiti. In effetti Helsinki giaceva come paralizzata dentro un cristallo traslucido e inviolabile, a quaranta gradi sotto zero. Ogni mattone dei suoi edifici, ogni angolo delle cancellate dei suoi parchi sepolti sotto una neve di marmo, ogni particolare dei suoi monumenti pubblici si stagliava con una nitidezza incisiva, quasi intollerabile. Percorrere le strade della città era un'impresa che comportava rischi mortali, ma che riservava inquietanti ricompense estetiche. Quando accennai ai colleghi del congresso che avevo intenzione di spingermi fino all'estremità orientale del porto per scorgere da lí la capitale di Pietro il Grande, tutti mi guardarono come un insensato promesso a morte sicura. Durante una cena ufficiale un collega finlandese, con una cortesia non priva di una certa cautela, tenuto conto della delirante dismisura del mio proposito, mi mise in guardia contro i pericoli che avrei dovuto affrontare. - In quel luogo, - mi spiegò, - il vento galoppa trasformando in blocchi di ghiaccio tutti gli ostacoli che incontra sulla sua strada. Qualsiasi cappotto, per caldo e pesante che sia, non serve a niente in quel caso -. Gli chiesi se in un giorno di calma, in uno di quelli tanto rari in cui fa la sua apparizione un sole effimero ma sfolgorante, sarei riuscito ad appagare il mio sogno di vedere, anche solo da lontano, la Venezia del Nord. Ammise che sarebbe stato possibile, a patto di disporre di un mezzo pronto a riportarmi in albergo appena il tempo si fosse guastato, cosa che in quel periodo poteva verificarsi nel giro di pochi minuti. I rappresentanti della mia compagnia in Finlandia si assunsero l'incarico di procurarmi la macchina e di avvertirmi col necessario anticipo dell'imminenza di un giorno di sole.

L'occasione si presentò molto prima di quanto avessi potuto sperare. Due giorni dopo ricevetti una telefonata. Mi annunciava che l'indomani sarebbero passati a prendermi per accompagnarmi al porto. I meteorologi della compagnia garantivano tre ore di sole senza un filo di nebbia. Con puntualità esemplare, l'auto mi prelevò il giorno dopo sulla porta dell'albergo. Ci lanciammo lungo il viale che circonda parte della città e conduce in periferia fino alla zona dei moli. L'autista non parlava altra lingua che il finnico. Neppure le quattro parole del mio svedese stentato mi servirono a comunicare con lui. Del resto, non avevo molto da dire a quell'auriga uscito dalle pagine del Kalevala. Il tragitto, che avevo immaginato piu lungo, durò venti minuti scarsi. Quando scesi dall'auto, lo spettacolo mi mozzò il fiato. La trasparenza dell'aria era assoluta. Ogni gru dei moli, ogni giunco della riva, ogni imbarcazione che solcava, in un silenzio irreale, le acque immobili della baia aveva una presenza cosi netta da darmi l'impressione che il mondo fosse stato appena inaugurato. Sullo sfondo, con la stessa nitidezza, incredibilmente vicina, si stagliava la città costruita da Pietro Romanov per soddisfare il suo delirio di autocrate geniale, e il suo sordido piano di astuto discendente di Ivan il Terribile. I bianchi edifici e le sfavillanti cupole delle chiese, i moli di granito color sangue, i deliziosi ponti in stile italiano che attraversano i canali - tutto mi sembrava a portata di mano. L'immensa bandiera rossa che sventolava sulla facciata dell'Ammiragliato mi riportava a un presente la cui vaga insensatezza risultava impensabile in quel momento e in quello scenario, strabiliante per la perfezione delle proporzioni e la trasparenza di un'aria d'altro mondo. Mi sedetti sul bordo del parapetto di granito che proteggeva il nastro d'asfalto e, con i piedi penzoloni sullo specchio d'acciaio delle acque, rimasi estasiato nella contemplazione di un miracolo che ero sicuro non si sarebbe mai piu ripetuto nella mia vita. Fu allora che, per la prima volta, mi apparve il tramp steamer, personaggio di particolare importanza nella storia di cui ci occupiamo. Con questa espressione, come è noto, si definiscono i mercantili di piccolo tonnellaggio, che non appartengono a nessuna grande compagnia di navigazione e che viaggiano di porto in porto cercando carichi occasionali da trasportare. E cosí tirano a campare, trascinando la loro sagoma malconcia assai piu a lungo di quanto potrebbero far prevedere le loro precarie condizioni.

Entrò all'improvviso nel mio campo visivo, con la lentezza di un sauro ferito a morte. Non potevo credere ai miei occhi. Con la splendente meraviglia di San Pietroburgo sullo sfondo, il povero cargo stava invadendo lo spazio con le sue fiancate cosparse fino alla linea di galleggiamento di tracce untuose di ruggine e di sporcizia. Il ponte di comando e, in coperta, la fila delle cabine destinate all'equipaggio e a occasionali passeggeri erano stati verniciati di bianco in tempi molto remoti. Ora uno strato di sudiciume, di olio e di ruggine dava loro un colore indefinibile: il colore della miseria, della decadenza irreparabile, di un logorio disperato e incessante. Scivolava, irreale, con l'ansimare agonizzante delle sue macchine e il ritmo sconnesso delle sue bielle che, da un momento all'altro, minacciavano di tacere per sempre. Occupava ormai il primo piano nello spettacolo irreale e sereno che mi avvinceva, e il mio stupore diventò qualcosa di molto difficile da definire. C'era, in quell'errabondo relitto marino, una sorta di testimonianza del nostro destino sulla terra. Un pulvis eris che appariva piu eloquente e ineluttabile su quelle acque di lucido metallo, sullo sfondo della candida e dorata annunciazione della capitale degli ultimi zar. Accanto a me si ergeva il profilo slanciato degli edifici e dei moli della riva finlandese. In quell'istante cominciò a nascermi dentro una calda, solidale simpatia per il tramp steamer. Lo sentii come un fratello sventurato, vittima dell'incuria e dell'avidità degli uomini, a cui rispondeva con la volontà ostinata di continuare a tracciare su tutti i mari la scia opaca delle sue pene. Lo vidi allontanarsi verso l'interno della baia alla ricerca di un molo discreto a cui attraccare senza troppe manovre e, forse, con la minor spesa possibile. A poppa penzolava la bandiera dell'Honduras. Del nome, cancellato dall'azione delle onde, si intravedevano appena le ultime lettere: ... ción.

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Il caso mi riservava altri due incontri con l'itinerante cargo hondureño. Ma già dopo i primi due la sua fatiscente presenza era entrata a far parte della famiglia di immagini ossessive dietro le quali si nascondono, palpitano e fluiscono gli ingranaggi di quel gioco impreciso le cui regole mutano a ogni istante e che viene convenzionalmente chiamato destino. Non posso dire che le apparizioni successive non abbiano aggiunto nulla alle precedenti. Anzi, sono servite a dare una consistenza ancora maggiore a quell'immagine carica delle essenze piú segrete e attive di ciò che conduce ogni umana sorte verso la fine e il compimento: la vocazione a morire. Per questo vorrei narrare gli altri due episodi che differiscono da quelli già esposti solo per il contesto in cui scelsero di manifestarsi.

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Pagina 53

Jon era sorpreso dal modo in cui Warda parlava di sé, con un'intelligenza e un'obiettività non solo poco femminili - cosi almeno gli sembravano -, ma anche del tutto inaspettate, tenuto conto della sua età e della limitata esperienza che doveva avere della vita. C'era qualcosa in lei che cominciava ad affascinare il basco in maniera tutta particolare. Era quel miscuglio di serenità e di sicurezza naturale, quel modo pacato di guardare a se stessa e al suo futuro, e con una sfumatura di qualcosa che, pur non potendosi chiamare tenerezza, esercitava sull'interlocutore un effetto balsamico. In lei non c'erano spigoli, né scorciatoie imprevedibili, né meccanismi occulti sul punto di esplodere, e tutto questo si esprimeva attraverso lineamenti di una perfezione fuori del tempo e un corpo non meno armonioso e saldo. Iturri pensava che durante quel colloquio, e gli altri che avevano avuto nei giorni precedenti, l'avevano certamente divertita l'attonita ammirazione e l'affascinato stupore che doveva avergli letto in faccia a ogni istante: e ricordando se ne arrossiva. La bellezza e l'equilibrio di Warda esercitarono su di lui, fin dal principio, un'influenza profonda, le cui ramificazioni si fecero sempre piú evidenti e decisive. Anche se poteva suonare enfatico ed esagerato, per Jon il mondo era cambiato: se esistevano persone simili, non era come aveva creduto lui fino a quel momento. Avrebbe compiuto cinquant'anni pochi giorni dopo, e all'improvviso tutto quello che lo circondava assumeva un aspetto completamente nuovo e sconcertante. Era molto difficile da spiegare. Definire «amore» un fenomeno cosi totale avrebbe significato cadere in una semplificazione di inaudita superficialità. Quando si pronuncia la parola «amore», le carte sono quasi sempre truccate. In lui si era risvegliato qualcosa che per il momento andava oltre le parole.

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