Copertina
Autore Alexandre Najjar
Titolo Fenicia
EdizioneCairo, Milano, 2009 , pag. 204, cop.ril.sov., dim. 15,5x21,7x2 cm , Isbn 978-88-6052-232-0
OriginalePhenicia [2008]
TraduttoreAntonella Vitale
LettoreLuca Vita, 2010
Classe narrativa libanese , storia antica
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Pagina 15

Prologo



Io, Apollonio di Tiro, ho visto la luce in terra fenicia. Esiliato ad Atene dall'età di quindici anni, non rimpiango nulla a parte la città dei miei antenati. Insomma, sono un uomo senza radici.

Come il mio maestro Zenone di Cizio, ho sempre custodito la Fenicia nel mio cuore. Il padre di Zenone, Mneseo, era originario di Sidone, dove praticava il commercio, e si recava spesso ad Atene, da cui riportava libri socratici che regalava al figlio. Verso l'età di trent'anni, Zenone prese il mare per trasportare sino al Pireo la porpora, prodotta con una conchiglia che si chiama murice. Ma naufragò e si ritrovò ad Atene. Si stabilì in un vecchio edificio che si trovava vicino a una libreria. Proprio lì lesse il secondo libro dei Memorabili di Senofonte, che contiene un lungo dialogo tra Socrate e Arisippo sul piacere e la temperanza, e ne fu talmente affascinato che decise di andare alla ricerca di filosofi in grado di insegnargli la saggezza. Per una fortunata coincidenza, Cratete di Tebe passava nei paraggi. Il libraio glielo indicò e gli disse: «Segui quell'uomo!». Zenone obbedì e andò ad ascoltare il cinico che predicava la libertà e trasgrediva sfrontatamente tutti i divieti. Per timidezza, preferì tenersi in disparte. Cratete notò il ragazzo e, per temprarne il carattere, gli diede una scodella di purea di lenticchie da portare nel quartiere dei ceramisti, il Kerameikos. Siccome Zenone rifiutava, sostenendo che era un compito riservato agli schiavi, Cratete colpì la scodella con il bastone e la ridusse in frantumi. Sentendo che la purea gli colava lungo le gambe, il ragazzo si diede alla fuga. Allora il cinico urlò: «Perché scappi, piccolo fenicio? Non ti ho fatto alcun male!». Quella fu la prima lezione che Cratete impartì a Zenone: l'umiltà.

Dopo una ventina d'anni passati accanto a Cratete, Stilpone, Diodoro Crono, Senocrate di Calcedonia e Polemone di Atene, il fenicio decise di fondare la propria scuola. E cominciò a dissertare nel portico, detto poikíle, di Peisianax, decorato dalle pitture di Polignoto. Filosofando voleva purificare quel luogo dai massacri che vi erano stati compiuti allorché, sotto i Trenta, vi erano stati uccisi più di millequattrocento cittadini. Il suo successo fu tale, che la gente veniva da ogni dove per assistere alle sue lezioni. Cleante, Filonide di Tebe, Crisippo di Tarso, Perseo di Cizio e io stesso eravamo i suoi discepoli più zelanti. Ci chiamavano «stoici», dalla parola [...] (Stoà) che significa «portico», come i poeti che una volta dimoravano in quel luogo.


Zenone era orgoglioso di essere fenicio. Benché fosse molto stimato dagli ateniesi, sia per i discorsi sia per le numerose opere composte, rifiutò la cittadinanza di Atene per rimanere fedele alla Fenicia dei suoi padri, ma accettò volentieri le chiavi della città. Un giorno vide che avevano inciso «Zenone il filosofo» su una stele, insieme ai nomi delle persone incaricate del restauro dei bagni pubblici, e chiese che si aggiungesse: «originario di Cizio».


La luna diffondeva una luce azzurrata nel portico. Vestito con un chitone bianco, un mantello leggero e un cappello a cono, Zenone era seduto su una panca e guardava fisso il cielo stellato. Gli piaceva quello stato contemplativo e rifletteva sul fatto che il bene supremo consiste nel vivere in accordo con la natura, quella natura universale di cui la natura individuale è soltanto un frammento. Mi avvicinai a lui. Era magro, alto, con i capelli molto scuri: per questo lo avevano soprannominato «Palma d'Egitto». Aveva la fronte rugosa, il viso triste; una barba crespa gli fioriva sulle guance emaciate. Il mio maestro, lo sapevo, conduceva una vita sobria. Consumava pane, miele, fichi e gli piaceva bere vino buono, ma in quantità minima. In un'epoca in cui tutto l'edificio religioso stava crollando e le persone illuminate non credevano più agli dèi popolari e nei vecchi principi del bene e del male, Zenone affidava il primato alla morale e alla virtù. Diceva di voler liberare il mondo greco dal suo scetticismo e dalla sua inquietudine. Per mettere fine al disagio intellettuale, insegnava l'esistenza di un criterio del vero; per dissipare l'angoscia dei suoi concittadini, insegnava loro a cercare la felicità nella sottomissione al destino, considerato come espressione della volontà divina... Il mio maestro diceva che è più facile tenere sott'acqua un otre pieno d'aria che obbligare un saggio ad agire contro la sua volontà, perché il saggio non è schiavo delle passioni e della vanità e gode della forza invincibile che trae dalla solidità dei suoi principi. Fedele alle proprie convinzioni, dava prova lui stesso di una fermezza di carattere che suscitava l'ammirazione dei discepoli e l'invidia dei nemici.

«Ti aspettavo» mi disse in fenicio, avvolgendosi nel mantello.

Sorrisi. Quando voleva parlarmi di qualcosa di personale, Zenone ricorreva sempre alla lingua dei nostri antenati. Ricordandomi le nostre origini comuni, intendeva cancellare la distanza imposta dal rispetto che provavo nei suoi confronti.

«Ti ascolto, maestro.»

«L'ora della partenza si avvicina, Apollonio.»

La sua voce era seria. Gli occhi brillavano di una strana luce che non avevo mai visto.

«Tu sai tutto di me, del mio pensiero. Ma ignori ancora la storia della mia famiglia, la tragedia vissuta da mia madre. Vorrei affidartela perché sopravviva alla mia morte e non diventi un relitto nel mare dell'oblio.»

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Pagina 70

1O



Era l'ora in cui l'alba dissolve la notte e spegne le stelle. I cani si dispersero scodinzolando nel Paradeisos, il vasto giardino reale realizzato un tempo dai persiani a Sidone. Con la mano destra Alessandro accarezzava l'incollatura del cavallo, con la sinistra stringeva la chiaverina. Per lui la caccia era uno sfogo, una guerra in miniatura che, come nelle vere battaglie, richiedeva strategia, pazienza e resistenza.

«Forza, miei bravi!» disse tra i denti.

Efestione, che si teneva un po' indietro a fianco del re Abd Elonim e di Lisimaco di Pella, un somatophylax di Alessandro, non poté fare a meno di sorridere: il re sapeva come parlare alle bestie sin dalla prima infanzia. Come dimenticare il giorno in cui, davanti a un pubblico ipnotizzato, aveva domato Bucefalo? Quel mattino Filonico di Tessaglia aveva portato a Filippo uno stallone e glielo aveva offerto in vendita per tredici talenti. L'animale era magnifico, alto e con il mantello nero, ma era così indisciplinato da disarcionare tutti i cavalieri, senza contare che minacciava con gli zoccoli chiunque cercasse di avvicinarlo. Filippo rifiutò di comprare un cavallo tanto selvaggio. Ma Alessandro, che aveva assistito alla scena, si oppose alla sua decisione: «Che peccato perdere un animale così» gli disse. «Se nessuno è riuscito a montarlo, è per mancanza di intelligenza e di coraggio!»

«Sei bravo a criticare, tu!» replicò il padre. «Ti ritieni forse più intelligente o più coraggioso degli adulti nel cavalcare?»

«Per cavalcare questa bestia, sì. Sono sicuro di fare meglio di chiunque altro.»

«E se fallissi, che prezzo pagheresti per la tua impertinenza?»

«Per Zeus, sono pronto a pagare il prezzo del cavallo!»

Il giovane Alessandro entrò immediatamente nel recinto, si avvicinò all'animale e, accorgendosi che diventava nervoso vedendo la sua ombra che si agitava davanti a lui, impugnò la briglia e lo fece voltare sino a metterlo di fronte al sole. Per un momento camminò a fianco di Bucefalo accarezzandolo. Poi, constatando che era meglio disposto e aveva ritrovato la sua vivacità, lo inforcò con un balzo morbido e aereo. Iniziò trattenendolo, tirando leggermente sulle redini e, quando sentì che non aveva più paura, lo spinse al galoppo con una pressione delle gambe. Il cavallo eseguì un giro di pista e tornò, docile, verso Filippo che non credeva ai suoi occhi. Commosso sino alle lacrime per l' areté di Alessandro, il padre gli disse in tono solenne: «Figlio, devi cercarti un regno a tua misura. La Macedonia non è abbastanza grande per te».

Ora i cani circondavano una macchia abbaiando: era segno che avevano scovato la preda. Alessandro partì al trotto per raggiungere la muta. Ma era appena arrivato, che il leone braccato balzò fuori dal suo nascondiglio ruggendo. Era una belva impressionante, con un corpo lungo e massiccio, spesse zampe muscolose, mascella potente, pelame colore della sabbia, criniera al vento e una lunga coda con un ciuffo di peli, che agitava come una frusta. Due cani gli si avventarono contro, ma il leone ammazzò il primo con una zampata e azzannò l'altro alla coscia. Spaventato, Bucefalo si impennò, disarcionando Alessandro che nella caduta perse l'arma.

«Bisogna reagire» disse Abd Elonim. «Se lo mangerà in un boccone!»

«Calmati» ribatté Efestione. «Lascialo fare!»

Il re di Sidone non lo ascoltò. Si impadronì di una lancia, scavalcò il recinto che lo separava dal giardino e corse verso Alessandro. Lo trovò di fronte al leone, la schiena inarcata e le mani nude protese in avanti. L'uomo e l'animale si guardavano fissi, come due lottatori che si studiano prima del combattimento.

«Vado io!» esclamò Lisimaco di Pella sguainando la spada. Scavalcò il recinto con un balzo e raggiunse il re di Sidone. Proprio in quel momento la belva, sentendosi in pericolo, si lanciò su Alessandro che la schivò, la inforcò come un cavallo e, con il braccio piegato, le strinse il collo per tentare di tenerla sotto controllo. La bestia cominciò a scrollarsi ruggendo e si rotolò per terra schiacciandolo con il suo peso. Abd Elonim e Lisimaco non riuscirono a resistere, si precipitarono su di lei e, con lo stesso gesto, le trapassarono il petto. Il leone lanciò un ruggito terribile, graffiò i due aggressori, scalciò per qualche istante, poi rimase immobile in mezzo a una pozza di sangue. La spalla dilaniata sino all'osso, il fenicio accorse ad aiutare il re ad alzarsi: «Sei ferito, sire?».

«Sparisci dalla mia vista!» replicò quest'ultimo.

«Ma...» balbettò Abd Elonim che si aspettava delle congratulazioni per la sua prodezza.

«Ti credi forse più coraggioso di me?» borbottò Alessandro sputando per terra.

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13



Re Azimilk incrociò le braccia e percorse con lo sguardo tutta l'assemblea. Mi morsi le labbra. Che cosa stava per annunciare? La resa di Tiro o la rottura delle trattative? Intorno a me vedevo solo facce preoccupate. C'era mio padre Yamas, con il volto emaciato e le mani rosse; mia madre Batnoam, con i lineamenti dolci e le braccia grosse da donna di casa; mio fratello Aristone, con la folta capigliatura nera e la barba ispida; Gerbaal, col volto abbronzato e gli occhi penetranti; Elibaal, con la fronte bombata, la schiena curva e la lunga barba bianca da filosofo; Zakkur, il matto di Tiro, talmente goffo da essere più commovente che buffo; senza contare la folla di marinai, pescatori, artigiani e agricoltori, abitanti della città vecchia o di quella nuova... Il re cominciò con l'esporre la situazione, poi ci chiese se eravamo pronti ad aprire le nostre porte a un conquistatore che era stato accolto a braccia aperte dalla maggior parte delle città fenicie. La risposta non si fece aspettare: volarono fischi da ogni parte. Azimilk si guardò intorno e vide solo una foresta di pugni alzati.

«Condivido i vostri sentimenti» disse imponendo silenzio. «Combatteremo fino all'ultimo!»

Istigato dalla folla, si lanciò in lunghe spiegazioni. Secondo lui la flotta persiana, nostra alleata, era ancora padrona di tutti i mari e Dario stava mobilitando un nuovo esercito per frenare l'avanzata di Alessandro. Se fosse uscito vincitore dalla prossima battaglia, il Grande Re avrebbe sicuramente ricompensato la fedeltà di Tiro in modo ancora più generoso, visto che le altre città fenicie lo avevano tradito. Quel comportamento non mi piacque. La nostra opposizione ad Alessandro non era giustificata tanto dalla fedeltà ai suoi nemici persiani, quanto dalla volontà di rimanere liberi, di non permettere all'invasore di insozzare la nostra terra e violare i nostri templi. Che cosa ci importava di Dario? Non avevamo bisogno delle sue ricchezze e del vasto mercato che ci offriva il suo impero. In quel momento il generale Zakarbaal uscì dai ranghi e chiese la parola. Era un uomo tarchiato, con la fronte alta, la mascella squadrata, il mento volitivo. Aveva gli occhi piccoli, freddi e mobilissimi, talmente mobili che sembrava si guardasse costantemente intorno per scoprire delle spie; era calvo, ma sapeva sistemare abilmente sul cranio l'unica ciocca che gli rimaneva per dissimulare la calvizie. Il re annuì. Anche se non apprezzava poi molto il vecchio ufficiale, che non aveva lasciato nessun ricordo negli animi con le sue presunte imprese militari, si rassegnava ad ascoltarlo per non scontentare una buona parte della popolazione, inspiegabilmente conquistata alla sua causa. Zakarbaal si lanciò in un discorso improvvisato. Insisté sulla necessità di sottrarre la città all'influenza persiana, fonte di tutti i nostri mali, proteggendola contemporaneamente dalle mire di Alessandro e avvertì i concittadini che la lotta sarebbe stata accanita. Elettrizzata, l'assemblea applaudi vigorosamente il suo discorso. Tutti, eccetto me e mio padre. Il personaggio non ci ispirava fiducia: era arrogante, irrispettoso verso gli dèi e gli uomini, talmente irritabile da non sopportare di essere contraddetto, era cocciuto, imprevedibile, capace di voltafaccia improvvisi a seconda dei suoi interessi.

Il re ringraziò Zakarbaal a malincuore poi, voltandosi verso la delegazione di Cartagine, la prese a testimone convinto che, in caso di pericolo, la flotta punica sarebbe accorsa a darci man forte. Per finire, annunciò la distribuzione di armi agli abitanti, per permettere loro di partecipare alla difesa della città.

«Io vado!» esclamai entusiasta.

«E dove?» urlò mio padre afferrandomi il braccio.

«All'arsenale, dobbiamo armarci!»

«Il re non parlava delle donne!»

«Non le ha neanche escluse, che io sappia!»

Mio padre non insisté. Sapeva che ero in grado di combattere. Ero insuperabile nel tiro con l'arco. Mi bastava chiudere l'occhio per essere sicura che la freccia raggiungesse il bersaglio. La mia mano non tremava mai.

Una folla si accalcava già davanti all'arsenale. La gente sembrava impaziente di andare in battaglia, certa della vittoria. A forza di sgomitare mi aprii un passaggio sino all'ingresso. L'armiere esitò. Bisognava armare anche le donne? Non gli diedi il tempo di pensare: presi una spada, un arco e sei frecce.

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36



Alessandro contemplò Tiro, o ciò che ne rimaneva. Volute di fumo nero oscuravano il cielo. La città fenicia ormai era soltanto un cumulo di rovine e macerie. Da due giorni i suoi uomini si accanivano sulla popolazione. Gli avevano riferito scene di stupri e massacri. Donne e bambini nudi giacevano senza vita tra i ruderi. I cadaveri si ammassavano, fatti a pezzi dai cani e dai ratti. Nessuna abitazione era sfuggita alla rabbia dei soldati che avevano sfondato le porte, saccheggiato i gioielli e dato fuoco agli arredi. Un odore nauseante inquinava l'aria. «L'odore della morte» pensò turandosi il naso.

In genere quegli orrori non lo impressionavano. Aveva imparato molto presto a mantenersi vigile nel sonno e a non distogliere lo sguardo alla vista del sangue. La guerra aveva le sue leggi: gli uomini dovevano, finita la battaglia, saziare il loro odio, esprimere il bisogno di vendetta, sfogarsi su coloro che avevano osato tenergli testa e ritardare l'ora della vittoria. In quel caso, poi, la ferocia dei suoi soldati era giustificata dalla tenacia dell'avversario che, per sette mesi, sette lunghi mesi, aveva resistito ai loro assalti ripetuti e decimato le loro file: avevano contato quattrocento morti e più di tremila feriti nel suo esercito. Alessandro sospirò. In fondo, permettendo alla sua sete di vendetta di scatenarsi liberamente, non si era comportato meglio di Assarhaddon o di Artaserse, che avevano messo Sidone a ferro e fuoco per punirla di aver osato ribellarsi; aveva rinnegato se stesso contraddicendo ciò che aveva scritto a Dario all'inizio dell'assedio: «perché io, Alessandro, so vincere ma anche rispettare i vinti». Inspiegabilmente, di fronte alle rovine di Tiro, non provava la gioia che di solito si impadroniva di lui all'indomani di una vittoria. Non che non provasse sollievo per avere finalmente conquistato la città ma, a contatto con la sua popolazione, si era reso conto di non essere infallibile. Adorato e temuto come un dio, inebriato dalle vittorie folgoranti, aveva creduto di essere immortale. Quello scacco – perché sì, nonostante la caduta della città, si trattava proprio di uno scacco, doveva ammetterlo almeno con se stesso – gli aveva ricordato brutalmente che non era il demiurgo che credeva, ma rimaneva vulnerabile, umano. Inoltre provava una grande amarezza a causa del tempo perso a sottomettere la città, invece di lanciarsi alla conquista di obiettivi molto più esaltanti e, soprattutto, del rispetto, un grande rispetto, verso quel nemico così debole per numero e mezzi, ma così forte per coraggio e volontà.

Poco prima del crepuscolo, quando l'orizzonte si colora di rosso – come se il sangue versato a Tiro stingesse sul cielo – Alessandro entrò nel tempio di Eracle-Melqart, svuotato da tutti i suoi occupanti. Vestito con una clamide bianca, andò a prosternarsi davanti all'Herakleion e gli offrì un sacrificio.

«Il mio sogno si è realizzato, Eracle» mormorò. «Per renderti omaggio, se Barsine mi renderà padre, darò il tuo nome a mio figlio.»

Uscì dal tempio e passò in rivista l'esercito, come in passato a Efeso. I soldati sfilarono in alta uniforme per un'ora, mentre la flotta bordeggiava davanti all'isola in assetto da battaglia.

Scesa la notte, vennero organizzati intorno al tempio tornei di ogni genere, una corsa con le fiaccole e dei giochi ginnici. La catapulta che era riuscita ad aprire la breccia nelle mura e la nave sacra dei tirii vennero smontati e trasportati in pompa magna attraverso la città, quindi esposti nell'Herakleion.

Sopraffatto dalla stanchezza, Alessandro si diresse verso la tenda. Ma Efestione lo fermò: «Quali sono i nostri progetti futuri, sire?».

«Gaza» rispose il re. «Poi l'Egitto.»

«Gli abbiamo dato una bella lezione, vero?» commentò lo stratega indicando la città devastata.

«No» replicò Alessandro scuotendo la testa. «È stata Tiro a darci una lezione.»

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