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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione Lo specchio delle parole 15 1. Due metodi per un solo oggetto 1. Passaggio di confine, 15 2. Le anime, gli inconsci, 18 3. Il minimo indispensabile per fare a meno dell'anima, 40 4. Consigli a un giovane studente, 52 59 2. Come intendere la metaneurologia 1. Lo specchio delle parole, 59 2. Finestre cerebrali, 64 3. L'alfabeto e il poema, 91 99 3. Cosa c'è di nuovo nelle nuove osservazioni 1. Cronologia 1894-96, 99 2. Questioni cronologiche, 100 3. In corso di stampa, 104 4. Edizione postuma, 125 150 4. Determinismo, analisi e l'impiccagione imprevista 1. La durata della libertà, 150 2. Freud non gioca a dadi, 161 3. Segreto di famiglia, 172 4. Il problema e la direzione dell'analisi, 177 5. I pericoli dell'ordine temporale inverso, 188 194 5. A che serve la coscienza 1. Finestre atemporali e finestre temporali, 194 2. La coscienza secondo Freud, 203 3. I vantaggi dell'autotrasparenza e gli ammiccamenti dell'inconscio, 214 4. La coscienza e l'attualità del transfert, 228 239 6. Oniremi 1. Esorcismi, definizioni e scopi 239 2. Il manifesto freudiano, 245 3. Il manifesto antifreudiano, 262 4. Oniremi referenziali e attributivi, 275 |
| << | < | > | >> |Pagina 7IntroduzioneUn aneddoto mette a fuoco, con immediatezza maggiore di quella di un discorso teorico, il singolare statuto epistemologico della psicoanalisi: un fisico la definì come la più scientifica delle discipline umanistiche, e un letterato come la più umanistica delle discipline scientifiche. Evidentemente, entrambi avvertivano qualcosa di familiare nel discorso inaugurato da Freud, ma nello stesso tempo anche qualcosa di estraneo, destinato però, quest'ultimo, a prendere quel sopravvento finale sancito dall'attribuzione della psicoanalisi, da parte di ciascuno dei due estimatori, a un sapere alieno al proprio. Familiare ed estranea assieme, la psicoanalisi possiede perciò per definizione un carattere perturbante (unheimlich) che costituisce una tra le tante origini di due opposte reazioni attuali ad essa. La prima è di appropriazione indebita e sottaciuta: le infinite scuole che popolano come funghi il sottobosco della psicoterapia vivono di massicce importazioni psicoanalitiche di contrabbando, salvo a servirsene poi come armamentario improprio contro la stessa psicoanalisi. La seconda reazione, che ha accompagnato la nascita stessa della psicoanalisi, è di rigetto pregiudiziale, nella migliore delle ipotesi basato su sommarie letture di testi piluccati alla rinfusa, nella peggiore costruito per intero a partire da slogan e luoghi comuni. Il rigetto procede per accessi critici (l'ultimo è recente), annunciando ogni volta l'imminente o avvenuta morte della psicoanalisi, una notizia che si rivela sempre «fortemente esagerata», per dirla con Mark Twain. Di qui l'importanza dei princìpi, nel duplice senso filosofico e storico del termine, da un lato come enunciati, i più astratti e generali, dai quali sono derivabili le leggi propriamente psicoanalitiche dello sviluppo e dell'accadere psichico; dall'altro come veri e propri inizi, primi passi e balbettii di un'avventura intellettuale che ha condotto l'uomo a una delle sue maggiori acquisizioni. Nei confronti di entrambi i tipi di princìpi, la psicoanalisi è colpevole di incuria. Nonostante abbia essa stessa implicazioni filosofiche che travalicano in estensione e profondità quelle d'ordinario possedute da ogni altra scienza, quei princìpi filosofici li ha coltivati solo nel ristretto giardino in cui alla denominazione di genere filosofia poteva seguire quella di specie psicoanalitica, ignorando, ad esempio, i risultati di quel florido e composito pensiero che prende il nome di filosofa della mente. E dei princìpi storici ha fatto per lo più storia ufficiale della famiglia ristretta, una cronaca di eventi che coincide con le scansioni del background formativo del padre fondatore, Sigmund Freud. L'albero genealogico di questa storia, infatti, si arresta in genere a Jean-Martin Charcot, come se prima di lui non vi fossero millenni di imponenti teorie attorno al tema di una psiche chiamata anima, della sua natura, dei suoi rapporti col corpo, dei suoi poteri, e così via. Questa storia sta a quella della psicoanalisi come la storia dell'alchimia sta a quella della chimica, e la si potrebbe ignorare, è vero, se non fosse per il fatto che a vietarlo è uno dei princìpi stessi della psicoanalisi, un principio di natura metapsicologica, questa volta. Il punto di vista psicogenetico impone di risalire controcorrente la storia del singolo fino all'origine dell'origine, per rintracciare lì i mattoni costitutivi di ciò che altrimenti apparirebbe del tutto destituito di senso, a meno di non voler ricorrere al mistico che tiene oggi il luogo dell'antica divinità che tutto spiega, il cromosoma. La storia dei dibattiti attorno all'anima è perciò preistoria della psicoanalisi, e non bisogna meravigliarsene più di quanto si meravigliavano i colleghi di Freud, quando dichiaravano assurdo che le determinanti della fobia di un maturo quarantenne fossero rintracciabili nell'intreccio fra il suo mondo esterno e interno nientemeno che all'epoca compresa tra il tramonto della fase anale e l'ingresso in quella edipica, vale a dire attorno al terzo anno di vita. L'ambizione di questo testo è di essere un piccolo rimedio contro la suddetta incuria. Piccolo non per retorica modestia dell'autore, ma perché l'intera filosofia e la sua storia si prestano a essere interpretate come il tentativo umano di venire a capo della realtà nel senso ontologico ed epistemologico del termine, un argomento che possiede immediata traduzione psicoanalitica senza eccessiva perdita di generalità, e rende, perciò, immane il compito. Il primo capitolo è un tentativo di rintracciare, della psicoanalisi, la matrice filosofica materialistica, che le appartiene di diritto perché appartenne a Freud a partire dal 1895. Il suo fu un materialismo coraggioso, vigoroso, di definitiva rottura con l'imperante paradigma cartesiano, e tale da poter essere rubricato, oggi, come tentativo di formulare ante litteram una teoria della mind-brain identity. Di quel materialismo, gli antecedenti prossimi percorrono l'ottocento sotto forma dei tre tipi di inconscio che ne abitarono filosofia e medicina, quando la Salpétrière era ancora luogo di operai, e non di degenti, ben prima di Charcot, dunque; mentre quelli remoti prendono forma nell'illuminismo, particolarmente in quello scozzese, dove avviene, dell'anima, il primo e più consistente passaggio di mano dalla filosofia cartesiana continentale alla medicina delle scuole di Edimburgo e di Glasgow, informate del duplice apporto di Newton e di Hume. Quei princìpi di una ricerca sulla psiche sempre più recalcitrante alle imposizioni teologiche, qui vengono rivisitati nella forma che attualmente detengono nella filosofia materialistica della mente, con al primo posto il cosiddetto «principio di supervenience». Quindi, il calendario viene retrodatato all'epoca del Freud diciottenne e all'influenza che ebbe sulle sue scelte Franz Brentano, per poi aggiustare il tiro sul documento cruciale dell'afasiologia freudiana. | << | < | > | >> |Pagina 17Freud invece lo era. Era un materialista nel senso pieno e vigoroso del termine, o meglio, lo divenne nel 1895, dopo un decennio circa di tentennamenti attorno a varie posizioni, diverse per sfumature e identiche per la loro comune matrice dualistica. Non sappiamo, ovviamente, se fu sbigottito dal pensiero che la psiche è per intero un aspetto del funzionamento della materia, ma, dal carteggio con Fliess relativo a quegli anni, veniamo a sapere che da questa idea fu, di volta in volta, assediato, posseduto, deluso, affascinato, e così via, prima di toccare con mano definitivamente che i tempi non erano maturi per un'impresa riduzionistica. Un insieme di emozioni, insomma, che sicuramente gli consentono di superare brillantemente il test di Strawson, e di porsi a pieno titolo fra i pochi materialisti autentici della storia del pensiero umano. E senza che questo implichi, con buona pace di Platone e di Leibniz, alcuna negazione della tesi secondo cui ciò che uno fa, lo fa con mente. Anzi, a sentire Strawson, è vero il contrario: uno dei più grandi errori del nostro tempo sarebbe quello di continuare a trattare la relazione mind-brain come un problem, tendenza che discende da una sottaciuta ontologia dualistica, congiunta alla inesplicabilità della funzione psichica alla luce di ciò che conosciamo del mondo fisico. Ma il punto è che noi non conosciamo nulla del mondo fisico che ci dia qualche ragione per trovare qualche problema nell'idea che la psiche sia per intero un fenomeno fisico. Mentre, d'altra parte, sappiamo bene che la fonte di tutte le nostre conoscenze, ivi compresa quella dei fenomeni fisici, è esclusivamente psichica. E solo con questo bagaglio che si può varcare il confine cartesiano, con lo scopo di cancellarlo una volta per sempre.| << | < | > | >> |Pagina 592. Come intendere la metaneurologia1. Lo specchio delle parole L'educabilità dell'essere umano tramonta precocemente, col tramonto del complesso edipico: questa l'opinione di Freud. I rimaneggiamenti successivi della personalità - per quanto ampi possano essere, come ad esempio, quelli che risultano da un'analisi andata a buon fine - sono pur sempre un bricolage, un riassemblaggio di quegli ur-elementi che erano stati messi a punto tra l'alba della vita e la fine del suo quarto anno, notoriamente non senza difficoltà. È ovvio che lo stabilirsi tra essi di nuovi links è in grado di cambiare sostanzialmente lo scenario psíchico, perché le proprietà complesse della psiche non discendono semplicemente da quelli dei suoi elementi costitutivi, ma ne emergono in modo non lineare, a volte sotto forma di assoluta novità. E tuttavia, resta il fatto dell'esistenza di un limite che segna il confine superiore di ogni possibile trasformazione della personalità umana. Era perciò frutto di razionalità illuministica, non di romantico pessimismo, l'opinione freudiana sugli scopi della cura, del resto per niente modesti: trasformare la miseria nevrotica in una comune infelicità; fare del paziente non tanto un improbabile Nembo Kid, quanto ciò che egli avrebbe potuto essere se le sue condizioni ambientali fossero state le migliori possibili. Il motivo per cui il tramonto edipico coincide con quello della plasticità psichica è semplice: è proprio lì che è stata conseguita l'identificazione di genere sessuale, il nucleo profondo dell'identità, cui andranno poi a connettersi, restandone però informate come da uno stampo, le successive stratificazioni ontogenetiche, impregnate, sì, di relazionalità attuale, ma percorse definitivamente dalle idiosincratiche venature orali, anali e falliche di allora. Ma su questo, ecco ora qualche domanda: esiste una controparte cerebrale dell'identificazione? È importante il linguaggio nel percorso che culmina con l'acquisizione dell'ídentità di genere? È paragonabile questo suo ruolo ontogenetico a quello tenuto nella cura? Credo che la risposta possa essere tre volte affermativa. E credo anche che esse, domande e risposte, abbiano a che fare con ciò che Freud andò rimuginando nel 1891, mentre sembrava in tutt'altre faccende affaccendato, preso com'era da una certosina ricerca sulle afasie, quei disturbi del linguaggio che spesso dipendono da una lesione organica. Ma vediamo com'è possibile sbrogliare il bandolo di una matassa teorica che, incredibilmente, va dall'insulto cerebrale al modo in cui si divenne, un tempo, il terzo di una coppia originariamente chiusa. | << | < | > | >> |Pagina 114È vero, la storia della psicologia e della psicoanalisi documentano un'importazione cronica di modelli e metafore tratti dal dominio delle hard sciences e della tecnologia, come se il problema cruciale dei ricercatori fosse quello di colmare un vuoto teorico all'origine di un vuoto di identità, e non il contrario. Capostipite del theoretical import l'elettricità, appunto, che percorre in varia forma l'Ottocento a partire dai magneti mesmerici, si inabissa per un po' nel Novecento solo per eccesso di concorrenza, e ricompare poi sotto le mentite spoglie attuali dei presupposti scientifici dell'elettroshock; poi il telefono, simbolo della comunicazione che lo stesso Freud non disdegna di chiamare in causa; spiazzato nel seguito dal termostato, che tocca un vertice di fama con Ashby e la prima cibernetica; per giungere infine all'odierna esplosione demografica del computer, che inflaziona di memorie procedurali e sistemi paralleli distribuiti le pagine di una letteratura psicoanalitica sempre più estranea a se stessa. Una presa così potente della tecnologia sulla fantasia degli addetti ai lavori deve avere le sue ragioni, sia in termini epistemologici di vantaggi euristici sia in termini psicoanalitici di vantaggi difensivi.| << | < | > | >> |Pagina 149[...] Qualche tempo fa, la ricerca neurofisiologica stabilì definitivamente un fatto che sembrò sorprendente: l'evocazione di potenziali motori laringei durante il pensiero silenzioso. È sorprendente che il fatto risultasse sorprendente, visto che era già noto come il semplice pensiero di muovere un braccio desta i rispettivi potenziali d'azione ben prima che sia eventualmente realizzata l'esecuzione motoria. Vediamo cosa ne pensava Freud. Non vi può essere coscienza senza linguaggio, perché i neuroni motori verbali di [psi] sono gli unici in grado di porre i processi di pensiero sullo stesso piano di quelli percettivi; il pensiero si accompagna a un leggero dispendio motorio, a tal punto che, quando pensiamo intensamente, ci può accadere di parlare ad alta voce; il dispendio richiesto per percorrere le vie peggio facilitate corrisponde alla difficoltà del pensiero. Queste poche enunciazioni sono sufficienti a dare il senso di un panorama teorico che attribuisce alla motricità verbale il ruolo di connettere memoria e coscienza in modo tale che alla fine siamo, come voleva Borges, non gli autori, ma i primi spettatori della nostra stessa attività di pensiero, che abita il mondo allo stesso titolo di un qualunque oggetto della percezione. E forniscono anche le coordinate minime per localizzare l'attività della parola narrante e di quella interpretante all'interno della metapsicologia della cura, il cui quarto e ultimo caposaldo, quello della coscienza, ci occuperà in seguito. Non fu così per Freud. Dopo aver fornito i presupposti teorici per una modernissima teoria dei processi di coscienza, egli abbandonò l'impresa a favore dell'inconscio, dei sogni, insomma, della psicoanalisi, creando un insieme straordinario di pensieri che, stando alle tesi del Progetto e alla stessa esaltata testimonianza resa da Freud a Fliess, è come gli fosse venuto dall'esterno sotto forma di percezione, e che egli al mondo delle possibili percezioni future restituì sotto forma di scritti, per nostra fortuna includenti, come in un après-coup, il Progetto stesso.| << | < | > | >> |Pagina 1774. Il problema e la direzione dell'analisiFreud non fu un filosofo, ma, come tutti i grandi scienziati, finì per esserlo in seconda intenzione, volente o nolente. I suoi rapporti con la filosofia, a giudicare da ciò che ne disse qua e là, furono a dir poco ambigui: da una parte essa è costantemente contrapposta alla scienza come chiacchiera ideologica destituita di fondamenti empirici, dall'altra è il primo, grande amore al quale si torna alla fine della vita senza averlo mai abbandonato davvero. Indipendentemente dalle vicende di questo primo amore, sta di fatto che la filosofia è il culmine dell'impresa scientifica. Da qualunque luogo specifico si muovano i primi passi e per quanto angusto esso sia, marginale teorema matematico o idiosincratico lemma fisico, esotico elemento chimico o circoscritto enzima di improbabile catena metabolica, quando il discorso scientifico ha guadagnato il livello critico che gli conferisce un respiro sufficientemente ampio, il confronto con i grandi temi della filosofia diventa inevitabile, non fosse altro perché quel discorso, da angusto che era, è diventato esso stesso uno dei grandi temi della filosofia. Così accadde anche a Freud, e il lettore della sua opera non fa fatica a scoprirvi un duplice livello filosofico. Il primo è costante, implicito, mostrato ma non menzionato, accompagna tutti i lavori come un basso continuo in sordina, e chi ha voglia e pazienza può estrarne un vero e proprio corpus filosofico, che può a ben diritto chiamare, lo si è fatto, filosofia freudiana. Ne costituisce parte integrante proprio quella Weltanschauung psicoanalitica che possiede, tra i suoi valori fondanti, la paradossale rinuncia ad ogni Weltanschauung, tassativamente richiesta da Freud come condizione preliminare per l'esercizio della professione impossibile. Sarà proprio per questo che è impossibile. Il secondo livello filosofico è assai frammentario ma del tutto esplicito. Si tratta di poche pillole, distribuite in sparute righe di prevalente sapore kantiano, che l'esperto può deglutire per ricordare che la psicoanalisi non è né una specialità medica, né una delle tante pratiche psicoterapiche, a esse accomunata da filantropica unitarietà di intenti e diversificata vaghezza di presupposti teorici, ma una scienza autonoma, munita di vastissime intersezioni teoriche e di un unico laboratorio, quello della cura. Su questi rari passi freudiani si sono accanite intere generazioni di analisti particolarmente sensibili alla filosofia della scienza, e io non farò eccezione, visto che fra poco citerò il passo che tutti citano a proposito di determinismo. Ma prima è opportuno collocarlo nel giusto contesto.
Lo fornisce il concetto di (psico)analisi. Abbiamo già
visto nel terzo capitolo che il termine comparve
ufficialmente a ridosso degli anni del
Progetto,
ma ora è giunto il momento di chiedersi quali siano le sue
ascendenze, quali le pressioni che indussero Freud a una
scelta a tal punto mirata e significativa da escludere
subito concorrenti che sarebbero stati meglio attestati
nelle prossimità del senso comune, come ad esempio
psicoterapia. Ciò che si vuole mostrare è che ascendenze e
pressioni furono di natura filosofica, di quel termine
raccogliendo un retaggio più che millenario, mirato, è vero,
alla descrizione di un metodo, ma per servirsene come di una
password
che apre a scenari di ben più vasta portata, tra i quali,
appunto, quello del determinismo. Ma prima di argomentare a
favore di questa tesi, è doveroso esporre la più importante
tra quelle concorrenti, la tesi di Assoun.
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