|
|
| << | < | > | >> |Indice7 Premessa 11 Introduzione 1. Traduzioni estreme e sci fuori pista 23 1.1 La gravità e la neve 26 1.2 La venditrice di conchiglie 29 1.3 L'analepre 2. Lipogrammi, pangrammi e anagrammi 35 2.1 Il libro scomparso 47 2.2 Le mattonelle cadute 50 2.3 Eleven plus two 3. Acrostici alfabetici e inversi 55 3.1 Vivere secondo la tua parola 64 3.2 Il contracrostico di Bach 69 3.3 Amorose visioni 4. Filastrocche e nonsense 77 4.1 Abbaini che abbaiano 82 4.2 Spuzzole e pesci orfani 111 4.3 Orsi scalzi e coccodrilli egizi 5. Creatività, carcerati, vincoli 117 5.1 Anagrammi impensati 119 5.2 Vincoli 132 5.3 Funi e catene 135 Congedo: medicina omeopatica 149 Bibliografia dei testi citati 163 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 7PremessaPare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in alcun conto esser revocato in dubbio, non che condennato. (Galilei 2013, pp. 19-20) Galileo definiva «sensate esperienze» quelle che hanno a che fare con l'osservazione, con l'esperienza sensibile, dei sensi, appunto. Oggi siamo portati ad intendere l'aggettivo «sensate» come sinonimo di «buon senso», di «ragionevole». La variazione del significato di un termine nel tempo, il suo essere un «falso amico» nella stessa lingua, è cosa nota e studiata. Le lingue sono piene di arcaismi semantici, di piccoli tranelli che ci fanno intendere una cosa per un'altra, e restiamo sorpresi quando d'improvviso vediamo emergere quel significato del termine che era rimasto in ombra, nascosto dal tempo e dagli automatismi della lingua. Galilei nella sua Lettera a Cristina di Lorena, definendo il proprio metodo scientifico, si premurava di affiancare alle «sensate esperienze» le «necessarie dimostrazioni», all'osservazione la riflessione sull'osservazione, all'indagine non pregiudicata la formulazione di una ipotesi generale, rivedibile e mobile come dovrebbero essere tutte le teorie. [...] Le pagine che seguono vorrebbero essere in primo luogo un'osservazione sensata e un resoconto critico di una serie di esperienze o incontri con testi particolari e con alcune loro possibili traduzioni. Con testi particolari intendo componimenti che sono stati scritti intenzionalmente assumendo restrizioni insolite come il lipogramma, il pangramma, l'acrostico alfabetico e analoghi, testi cioè formalmente vincolati, a loro modo estremi, come estreme possono apparire certe loro traduzioni. Appartengono quasi tutti alla cosiddetta categoria degli scritti letterari, in prosa o in versi, anche se è ovvio che la nozione di letteratura è a dir poco fluttuante, e non tutti saranno d'accordo nel ritenere che una filastrocca per bambini, uno slogan pubblicitario o una poesia composta di anagrammi (con le corrispondenti traduzioni) siano testi che rientrano nell'ambito di competenza della letteratura come disciplina accademica. Oltre all'osservazione, all'auscultazione di alcuni di questi componimenti e alla descrizione delle loro metamorfosi traduttive si cercherà di riflettere sui modi in cui queste trasformazioni sono avvenute, e sulle intenzioni che possono aver guidato i traduttori nelle scelte. L'obiettivo non è di segnalare, con il dito indice puntato, che cosa sia andato perso nella traduzione oppure quale vincolo il traduttore abbia colpevolmente trascurato, ma di comprendere criticamente e produttivamente che cosa è avvenuto nel movimento. Dunque, una lettura aperta, critica, non pregiudicata di un'esperienza di traduzione, e una riflessione su quella esperienza che possa sensatamente portare a qualche considerazione più generale sull'attività linguisticamente complessa, culturalmente problematica, eticamente impegnativa del tradurre. Nel primo capitolo e nel quinto si cercherà di rendere espliciti alcuni assunti metodologici, con considerazioni relative alla natura olistica, irrequieta e anamorfica dei testi, al rapporto che si dovrebbe stabilire fra i due discorsi (source text e target text) che si intrecciano nel dialogo traduttivo, alla particolarità dell'atto creativo implicato nella traduzione e ai tipi di vincoli, intesi come vincoli familiari e non come impedimenti inutili, che possono legare i due testi in modo essenziale. I capitoli centrali sono dedicati a letture di testi particolari e di loro traduzioni. Nel secondo ci si occupa di tre testi che mettono al centro della loro costruzione il lipogramma, il pangramma e l'anagramma. Si tratta di due romanzi (Disparition di Georges Perec, Ella Minnow Pea di Mark Dunn) e di una poesia (The Anagrammer di Peter Pereira). Il terzo capitolo considera composizioni «bidirezionali» dove, a volte in modo evidente a volte in modo occulto, sono presenti acrostici o contracrostici, dal Salmo 119 a un dialogo del libro Gödel, Escher, Bach di Douglas Hofstadter e a testi di autori canonici della letteratura italiana come l' Amorosa visione di Giovanni Boccaccio o l' Amorum libri tres di Matteo Maria Boiardo. Segue poi un capitolo dedicato a filastrocche, nonsense e poesie per l'infanzia in gran parte ripresi da Roger McGough e Gianni Rodari. Il congedo contiene alcuni banali consigli omeopatici per far fronte allo smarrimento e allo scoramento che tante volte attanaglia il traduttore di testi estremi. | << | < | > | >> |Pagina 11IntroduzioneC'è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose, e ci sono più libri sui libri che su altri argomenti: non facciamo che commentarci a vicenda. (Montaigne 1992, p. 1429) Comprendere criticamente e produttivamente che cosa avviene nel movimento traduttivo è un atteggiamento abbastanza condiviso negli studi più recenti sulla traduzione, soprattutto in quelli che si occupano di testi letterari. I due avverbi, criticamente e produttivamente, così come la coppia esperienza/riflessione a cui si faceva riferimento nella Premessa (al posto della forse più ricorrente teoria/pratica) sono ripresi in primo luogo dagli studi sulla traduzione di Antoine Berman (2003). Le parole, come sanno benissimo i traduttori, non si traducono con il dizionario, semmai con il suo aiuto: sono immerse in un flusso di altre parole, di suoni, di allusioni, che le risignificano ogni volta. Dire «comprensione» anziché «spiegazione», «esperienza» e «riflessione» anziché «pratica» e «Teoria» (con la T maiuscola) vuole indicare la scelta di un metodo d'indagine. Fare esperienza di qualcosa (e anche la semplice lettura di una poesia o di un romanzo è un'esperienza, naturalmente) e riflettere su di essa (mettere cioè in collegamento tutto il proprio io, le proprie credenze e abitudini con quell'atto o quell'oggetto con cui si entra in relazione, e ritornare con spirito critico su quella relazione) non può lasciare l'io nella stessa condizione in cui si trovava prima dell'esperienza. Se ciò avviene è probabile che non si sia preso parte intimamente all'esperienza/riflessione, ma ci si sia limitati ad assistere, come un turista distratto (o, ancor peggio, autistico) che cerca nell'altrove e nell'altro ciò che sa già, o pensa di sapere: cerca conferme più che scosse o dubbi; si limita a interpretare situazioni nuove con le griglie ermeneutiche assunte in precedenza anziché cercare di mettere a punto nuove strategie interpretative che possono derivare da un confronto aperto con ciò che non si era ancora incontrato o visto. [...] L'esperienza del tradurre, soprattutto del tradurre poesia — genere senza dubbio estremo, che, a detta di tanti teorici e studiosi, pone più problemi — porta spesso dilemmaticamente a pensare o che la poesia sia intraducibile, o che si possa tradurre poesia solo a patto che a farlo siano i poeti. Sono due luoghi comuni condivisi da lettori e da molta critica. Come gran parte dei luoghi comuni e delle frasi fatte, avrà indubbiamente qualcosa di vero, forse molto; tuttavia, e questo è un fatto facilmente documentabile, moltissime poesie (per fortuna e nonostante il primo luogo comune) sono state tradotte, e molte poesie (per fortuna e nonostante il secondo luogo comune) sono state tradotte da non poeti. Si potrebbe anche aggiungere che molte poesie sono state tradotte malamente da traduttori che si dicono poeti solo perché hanno pubblicato poesie proprie, mentre altre sono state tradotte benissimo da traduttori che non hanno mai pubblicato una sola poesia in vita loro, o forse non ne hanno neppure mai scritta una. I sostenitori del secondo luogo comune diranno che in verità questi traduttori sono dei poeti in potenza e non in atto, ma che la poesia è lì, dentro il loro spirito e la loro sensibilità che sono senz'altro poetici. Quindi sono poeti senza saperlo. Può essere. Si aprirebbe qui un altro problema di non facile soluzione: chi rilascia la patente di poeta? È un'autocertificazione? Un riconoscimento attribuito dal mercato? Dai posteri? Dai critici? Uno scrittore che vende centinaia di migliaia di copie di un libro di poesia è poeta tanto quanto colui o colei che si autofinanzia una pubblicazione che poi andrà al macero senza avere incontrato lettori al di fuori della stretta cerchia di amici e parenti? O è poeta chi sa quali sono le regole della poesia di una particolare cultura in un suo particolare momento e s'inserisce consapevolmente e con qualche peculiarità e originalità in quella tradizione? Sia come sia. Facendo riferimento all'ambito della scrittura, l'unica cosa certa è che un poeta, come dice l'etimo della parola, è una persona che fa qualcosa, nel nostro ambito d'interesse, con le parole; ci si aspetta che in quanto creatore di testi abbia anche ben appreso le tecniche necessarie per far sì che quel suo manufatto sia fatto bene, o almeno stia in piedi e serva a qualcosa (fosse anche solo a sé). Nello stesso modo ci si aspetta che un traduttore di poesia o di testi estremi, che di certo hanno messo alla prova le abilità dello scrittore, sia ugualmente in possesso delle tecniche di quell'arte in entrambe le lingue e culture di cui è mediatore; tecniche e norme pragmatiche che sono spesso assai diverse, basti pensare ad esempio alle differenze fra la metrica latina o inglese e quella italiana, e mutevoli nel tempo anche all'interno della stessa cultura/lingua letteraria. | << | < | > | >> |Pagina 20Le soluzioni saranno diverse, come diversi sono gli sviluppi di un motivo musicale in un'improvvisazione jazz. Tuttavia se non c'è ammirazione per il motivo di partenza, assorbimento profondo delle sue ragioni, del suo essere suono, ritmo, evocazioni, rimandi, ricettacolo di tradizioni, ambiguità, ricorrenze, equilibri etc., se non c'è contezza di tutto questo, nella misura in cui questo è possibile, l'operazione di riformulazione di quel testo in un'altra lingua e in un'altra cultura non sarà un'operazione di accoglienza. Il testo apparirà solo come un pretesto per sé stessi. La creatività nelle traduzioni (in particolare in quelle estreme) è necessaria, ma creatività, come ricorda Stefano Bartezzaghi è, per quello che conta, anagramma di cattiveria (Bartezzaghi 2009, p. 15). E la traduzione, come è noto, ha a che fare con il prigioniero (captivus) che viene trasportato (l'ufficio traduzioni del tribunale, si sa, è il luogo in cui ci si occupa appunto del trasporto dei carcerati). D'altronde, come scrive Emilio Garroni, «Il problema scientifico della creatività si delinea nel momento in cui si comincia a considerare sistematicamente la creatività come creatività secondo regole o ad ogni modo come creatività sottoposta ad una legalità generale» (Garroni 2010, p. 67). Cercherò di mostrare, nei capitoli che seguono, come le traduzioni più spericolate di testi impossibili siano a volte le più creativamente «cattive», e come tante traduzioni che vogliono essere assolutamente fedeli e letterali, proprio perché perdono di vista le ragioni proprie delle lettere che guidano la costruzione del testo, siano invece le meno leali.| << | < | > | >> |Pagina 261.2. La venditrice di conchiglieSe si affronta con le tecniche dello sciatore/traduttore che ha seguito i corsi canonici un'espressione sensata come «She sells sea shells on the sea shore», si può arrivare certamente da qualche parte. E molti converranno che «Lei vende conchiglie sulla riva del mare» è un ragionevole punto di arrivo che si raggiunge seguendo regole consolidate del tradurre oppure, come abbiamo fatto in questo caso, inserendo la frase inglese nel traduttore automatico di Google. Ma se si presta orecchio ai suoni (e in questo caso non ci vuole un orecchio molto educato) e si cerca di stabilire una «relazione ritmica» con quel testo, si può arrivare da tutt'altra parte, ad esempio a un traguardo che, peraltro, mette in guardia contro ogni eccessiva fiducia nei confronti dell'intuizionismo traduttivo: «Se scii senza sci sei scemo». Non si scende più seguendo le convenzioni del significato, ma il «fluire continuo» e insidioso delle fricative alveolari e postalveolari e degli accenti forti che fanno deragliare dal binario del senso e portano (finalmente) fuori pista, sui campi poco frequentati degli sport estremi. | << | < | > | >> |Pagina 291.3 L'analepreQuesti microtesti ricordano certe immagini usate nella psicologia della Gestalt per sottolineare come siano le predisposizioni interpretative, le prospettive, i pregiudizi e le preconoscenze a costituire la realtà. Ecco alcune immagini bifronte:
Chi vede solo la vecchia e non la ragazza, il sassofonista e non
il volto, l'anatra e non il coniglio o viceversa, è nella situazione
di chi in «She sells sea shells» vede solo la venditrice di conchiglie ed è
cieco ai giochi fonetici, o in Ginsberg's
Owl
vede solo il gufo di un tale chiamato Ginsberg e non il famoso poema dello
scrittore beat americano. La sorpresa nello scoprire la presenza
inaspettata è spiazzante. Così Valerio Magrelli, in una poesia
intitolata
Ottica,
e apparsa nella raccolta
Disturbi del sistema binario,
riflette poeticamente sull'ultima immagine:
| << | < | > | >> |Pagina 352.
Lipogrammi, pangrammi, anagrammi
2.1 Il libro scomparso Da uno scaffale di una libreria manca un volume. Così uno scrittore francese descrive in un suo romanzo la scoperta della scomparsa del libro da parte del protagonista, Anton Voyl: Il marchait dans un haut corridor. Il y avait au mur un rayon d'acajou qui supportait vingt-six in-folios. Ou plutôt, il aurait dû y avoir vingt-six in-folios, mais il manquait, toujours, l'in-folio qui offrait (qui aurait dû offrir) sur son dos l'inscription a «CINQ». Pourtant, tout avait fair normal: il n'y avait pas d'indication qui signalât la disparition d'un in-folio (un carton, «a ghost» ainsi qu'on dit à la National Library); il paraissait n'y avoir aucun blanc, aucun trou vacant. Il y avait plus troublant: la disposition du total ignorait (ou pis: masquait, dissimulait) l'omission: il fallait la parcourir jusqu'au bout pour savoir, la soustraction aidant (vingt-cinq dos portant subscription du «UN» au «VINGT-SIX», soit vingt-six moins vingt-cinq font un), qu'il manquait un in-folio; il fallait un long calcul pour voir qu'il s'agissait du «CINQ». Dietro questa descrizione c'è nascosto qualcosa. Siamo di fronte a una specie di indovinello o a un linguaggio cifrato. Di che cosa parla quel tomo numero cinque che manca? Vediamo la traduzione italiana (l'unica che io sappia) di questo romanzo, portata a termine, di sicuro non senza uno sforzo erculeo, una pazienza degna di Giobbe, e un'arguzia pari a quella dell'autore francese, da Piero Falchetta: Camminava lungo un alto corridoio. Su una scaffalatura in mogano infissa al muro si trovavano 26 volumi in-folio. Anzi, non proprio. Mancava infatti, da chissà quando, il tomo con la cifra «5» incisa sul dorso. Tuttavia non lo si notava, in quanto mancava il cartoncino («a ghost», così lo chiamano alla National Library) con cui si marca il posto lasciato vuoto da un libro portato via. Non si notava quindi alcuna mancanza, alcun buco. Un altro fatto poi complicava la cosa: il disporsi ordinato di tali volumi sul ripiano ignorava la scomparsa, anzi la occultava, la dissimulava. Bisognava guardarli tutti, contarli da «1» a «26» (calcolando 26-25=1), prima di scoprirvi la mancanza di un tomo; l'in-folio scomparso, il «5» appunto, lo si individuava così solo dopo un lungo calcolo. Con l'aiuto della traduzione forse per i non francofoni sarà più facile trovare la soluzione dell'indovinello: i ventisei volumi sono le lettere dell'alfabeto (francese); il quinto volume riguarda probabilmente la lettera «e», quinta lettera dell'alfabeto. Prova della bontà della soluzione è la mancanza nel testo francese della lettera «e». Controprova: la mancanza anche nel testo italiano della stessa vocale. Siamo di fronte al geniale romanzo di Georges Perec La disparition: più di 300 pagine, più di 70.000 parole, quasi 300.000 caratteri senza che sia mai usata la vocale «e», la più utilizzata nella lingua francese. Quando uscì, alcuni critici non si accorsero neppure del gioco lipogrammatico e giudicarono non troppo positivamente il romanzo. Altri critici in seguito lessero in modo simbolico la scelta compositiva e la collegarono alla scomparsa di entrambi i genitori (eux) dell'autore: la madre morta nei campi di sterminio nazisti e il padre deceduto in guerra. Una pagina molto interessante dal punto di vista della storia della critica, che la dice lunga su come spesso si guardi la lepre senza vedere l'anatra. Ma sarebbe sconcertante pensare a un traduttore che si cimentasse nella traduzione di un romanzo come questo incurante del vincolo del lipogramma. Sarebbe appunto come tradurre un verso della Divina Commedia senza almeno preoccuparsi del ritmo, del fluire dei versi, del valore semantico che le scelte metriche, ritmiche, fonetiche, figurali assumono. Ad osservare con attenzione il passo citato ci si accorgerà di alcuni stratagemmi che hanno permesso a Falchetta di aggirare ostacoli insormontabili. Primo fra tutti i numeri. Se le lettere dell'alfabeto francese sono «vint-six» e la lettera «e» corrisponde al numero «cinq», il caso vuole che in francese la vocale non sia presente nei due numeri così vincolanti per il racconto, per cui il gioco lipogrammatico può procedere senza intoppi. In italiano questa fortunata coincidenza non si dà: in «ventisei» e «cinque» ci sono tre «e». Che fare? Falchetta risolve scrivendo i numeri arabi. Un piccolo escamotage per cercare di far quadrare il cerchio. La traduzione è anche questo: cercare, come si può, di far quadrare il cerchio. D'altronde il lipogramma di Perec non è fonetico ma riguarda solo la grafia: si utilizzano continuamente termini con il dittongo «ai» che in francese è omofono della «e», come, ad esempio, in quest'altro passo criptico in cui si allude alla scomparsa della lettera senza nominarla: «Ainsi, parfois, un rond, pas tout à fait clos, finissant par un trait horizontal: on aurait dit un grand G vu dans un miroir» (Perec 1969, p. 19), che nella versione di Falchetta diventa: «Ora un tondo, non conchiuso, sbarrato da un trattino dritto: una sorta di G maiuscola capovolta» (Perec 1995a, p. 18). All'espediente delle cifre ricorre anche il traduttore inglese Gilbert Adair (Perec 1995b) nella sua versione intitolata A void, che mantiene il gioco lipogrammatico al centro del mirino. As though in a slow-motion film, Vowl is walking down a corridor, its two high walls dwarfing him. To his right is a mahogany stand on which sit z6 books – on which, I should say, 26 books normally ought to sit, but, as always, a book is missing, a book with an inscription, «5», on its flap. Nothing about this stand, though, looks at all abnormal or out of proportion, no hint of a missing publication, no filing card of «ghost», as librarians quaintly call it, no conspicuous gap or blank. And, disturbingly, it's as though nobody knows of such an omission: you had to work your way through it all from start to finish, continually subtracting (with 25 book-flaps carrying inscriptions from «1» to «26», which is to say 26-25=1) to find out that any book was missing; it was only by following a long and arduous calculation that you'd know it was «5». Alla traduzione inglese ha dedicato pagine molto acute Hofstadter (1997b) in un suo originale e sorprendente libro-miniera per chi si occupa di traduzione, di vincoli e di creatività: Le Ton Beau de Marot. In praise of tbe Music of Language. Oltre a individuare una serie di scelte da parte del traduttore inglese che tendono ad addomesticare o anglicizzare culturalmente il testo francese di Perec (sostituendo ad esempio poesie di autori francesi lipogrammate da Perec con poesie di poeti inglesi sottoposte allo stesso trattamento da Adair), Hofstadter si sofferma anche sulla traduzione tedesca della Disparition e su quella italiana di Falchetta, chiudendo con la citazione di un significativo gioco anagrammatico di Stefano Bartezzaghi sul nome stesso del traduttore: Piero Falchetta ovvero colui che «Ha fatto il Perec» (Hofstadter 1997b, p. 123). Verrebbe voglia, seguendo Hofstadter, di analizzare contrastivamente le scelte effettuate da altri traduttori che si sono cimentati con questo stesso romanzo in turco, svedese, russo, olandese, rumeno o spagnolo, scegliendo, in quest'ultimo caso, una traduzione lipogrammatica in «a» anziché in «e». Il grande numero di traduzioni portate a termine fa ritenere dunque che anche una traduzione così estrema sia fattibile, a patto naturalmente che il vincolo lipogrammatico si iscriva nelle possibilità «ludiche» o combinatorie degli alfabeti. Ma che cosa succede se si volesse riprodurre il testo in un linguaggio che non ha un alfabeto fonetico, ma idiogrammatico come quello cinese? Qui la discesa più che sulla neve fresca sarebbe una discesa sull'acqua. Ma, come si sa, anche su quella, volendo, si riesce a sciare. | << | < | > | >> |Pagina 472.2 Le mattonelle caduteIn un romanzo dell'americano Mark Dunn uscito del 2001 si racconta che nella piazza principale di un'isola al largo della costa della South Carolina c'è un grande cenotafio costruito in onore di Nollop, inventore della celebre frase: «The quick brown fox jumps over the lazy dog» che, con una prima impulsiva traduzione, si potrebbe rendere con (a) «La veloce volpe marrone salta sul cane pigro». Se fosse così non si capirebbe perché mai lo scrittore di una affermazione del genere meriti un monumento, né perché quella frase sia riprodotta con ciascuna singola lettera su una diversa mattonella. Forse una traduzione più accogliente potrebbe essere (b) «La svelta volpe bruna scavalca d'un balzo il cane pigro», oppure (c) «Ma la volpe col suo balzo ha raggiunto il quieto Fido». Entrambe infatti si prendono a cuore uno dei sensi, forse quello dominante, della frase: il suo essere un pangramma, ovvero una frase di senso compiuto in cui sono presenti almeno una volta tutte le lettere dell'alfabeto. La frase inglese è formata da 35 lettere e sono presenti tutte le 26 lettere dell'alfabeto inglese. La traduzione (a) è formata da 37 lettere, ma non è un pangramma perché ricorrono solo 15 delle 21 lettere dell'alfabeto italiano. Più lunga (47 lettere) la traduzione (b) che contiene però tutte le 21 lettere dell'alfabeto. Meglio la terza (c), pangramma essa pure, ma più breve: di 43 lettere. L'autore di (c) è Mario Sica (curatore della versione italiana del manuale dei Boy Scout di Robert Baden-Powell in cui il pangramma è citato), che riesce a dare alla traduzione anche il ritmo regolare di un distico di ottonari. [...] Ma un'arguzia altrettanto vivace deve guidare il traduttore che voglia cimentarsi con la Fiaba epistolare in lipogrammi progressivi di Dunn. Qui le regole del gioco si moltiplicano e si fanno ancor più vincolanti, perché il traduttore deve tener conto sia delle norme strutturali della composizione, sia delle scelte semantiche che lo scrittore del testo di partenza aveva potuto fare con una certa libertà. La regola del gioco potrebbe essere quella di scrivere un pangramma in italiano di 35 lettere, lungo esattamente come quello di Nollop, e questo sarebbe già un bel problema. Ma l'altra regola del gioco potrebbe essere quella di mantenere un'aderenza semantica all'enunciato. E, com'è facile immaginare, la cosa si fa assai complessa. Daniele Petruccioli, traduttore senza dubbio arguto quanto Piero Falchetta, riesce in questa prima sfida: «Fu questa volpe a ghermir d'un balzo il cane» (Dunn 2008, p. 7) è il pangramma di 35 lettere, omologo a quello del testo di Dunn. | << | < | > | >> |Pagina 502.3 Eleven plus two
La somma di questi due numeri è indubbiamente 13, così
come lo è la somma di «Twelve plus one». Se traduciamo in
alcune lingue europee avrò che «Undici più due» è uguale a «Dodici più uno»,
«Zwölf plus eins» a «Elf plus zwei», «Douze plus
un» a «Onze plus deux», «Doce más uno» a «Once más dos».
Sembra di essere di fronte alla stessa equazione (11+2=12+1),
solamente detta in lingue diverse. Eppure, a ben guardare, in
quella in inglese succede qualcosa di diverso. Ci si rende subito
conto del vincolo che lega le due espressioni inglesi se si collocano in un
contesto particolare, nel caso specifico quello di una
composizione poetica scritta dal poeta americano Peter Pereira
(2007, p. 3) intitolata
Anagrammer:
Sembra un gioco di prestigio verbale. Il testo, di cui l'equivalenza è
parte, ci fa subito notare come fra «Twelve plus one»
e «Eleven plus two» l'uguaglianza non sia solo aritmetica: uno
è l'anagramma dell'altro, ovvero le lettere della prima somma
sono le stesse che compongono la seconda. Lo stesso non avviene in nessuna delle
altre lingue. Ovvio che se il contesto in cui
l'espressione è usata fosse una lezione d'inglese in una scuola
elementare in cui l'insegnante chiede la traduzione in italiano
dell'addizione, la risposta sarebbe scontata. Ma se volessimo
tradurre la poesia di Pereira, la soluzione non potrebbe essere
«Dodici più uno» è «Undici più due». Certo, sarebbe una traduzione; ma
renderebbe piatto e banale un testo invece sorprendente. Credo che a qualunque
traduttore venga voglia almeno di
pensare a qualche soluzione, fosse solo per gioco, per sfida, per
curiosità. Anch'io ci ho pensato, ma poi, quasi subito, davanti
all'anagramma della principessa Diana che prevede di morire a
bordo di un'auto in testa-coda mi sono arreso. Siccome tuttavia
non credo che esistano traduzioni impossibili ho scritto a Stefano Bartezzaghi,
studioso e creatore di giochi linguistici. Nella
traduzione, come in quasi ogni altra cosa, basta chiedere alle
persone giuste. Due giorni dopo la sua sorprendente risposta,
con la traduzione dell'intera poesia intitolata
Anagrammista:
Tralasciamo le considerazioni sulla meraviglia e l'ammirazione che credo molti provino di fronte a certe soluzioni, a cominciare dall'equivalenza numerica in anagramma: 18+3=13+8. Come succede spesso quando si leggono le traduzioni di frasi apparentemente impossibili si resta sorpresi della ovvietà della soluzione. (È sempre così. Però il più è trovarle: chapeau.) Come Falchetta con Perec e Petruccioli con Dunn, Bartezzaghi s'impegna nella traduzione di un «testo estremo», considerandolo nella sua complessità sia semantica sia compositiva. Non si limita cioè a individuare le regole del gioco e a ricreare in italiano un testo lontano dal «senso» lessicale. Né a rendere banalmente il «senso» lessicale. Che si debba tradurre un testo con un testo, e non una frase con una frase o una parola con una parola, è ormai un'ovvietà nella traduttologia, ma in certi casi è assai più facile da dirsi che da farsi; anche perché più si guardano i testi con la lente d'ingrandimento del traduttore (strumento indispensabile in questo lavoro) più si scoprono intrecci e nodi imprevisti. Qualche tempo fa mostrai la poesia di Pereira e la traduzione di Bartezzaghi a un gruppo di studenti, raccomandando loro di tenere a mente la traduzione dell'anagramma aritmetico come cosa simpatica da raccontare, come monito a non deporre mai le armi di fronte a una traduzione estrema, e comunque a pensare sempre che il fatto di non riuscire a tradurre non significa che qualcun altro non possa farlo. Una settimana dopo, al termine della lezione, una studentessa, Rexhina Dibra, con fare un po' impacciato, quasi vergognandosi, mi disse che a casa, ripensando alla traduzione di Bartezzaghi, aveva notato che Eleven plus two è formato da 13 lettere, e che questo numero è anche la somma di 11 e 2, mentre in italiano Tredici più otto è formato da 14 lettere e la somma è 21. Quindi, forse, nella soluzione non erano rispettati tutti i vincoli, intenzionali o meno che fossero. (Sono i momenti in cui un insegnante si sente da un lato disarmato perché non sa proprio che cosa dire, dall'altro gratificato dal constatare che è riuscito a fare entrare qualche tarlo nella testa degli studenti). Nuovo consulto con Bartezzaghi, e nuova soluzione che tiene conto dei due vincoli: Il tredici sommato a otto (21 lettere) è Il diciotto sommato a tre. L'obiettivo è raggiunto con l'inclusione di un paio di zeppe (come le chiamano i poeti). Dopo poche settimane raccontai la complessità crescente dell'esercizio in un incontro sulla traduzione alle Murate di Firenze. La sera a casa ricevetti una mail da una persona, a me sconosciuta, presente all'incontro. Con la stessa discrezione con cui la studentessa mi aveva fatto presente l'ulteriore vincolo, Silvia Rogai, una giovane e bravissima traduttrice, mi faceva notare che la soluzione della equivalenza delle somme con le zeppe era acuta, ma meno fluida dell'originale. Insomma, zoppicava, perdeva ritmo e immediatezza. «Così – mi scrisse – mi è venuta in mente un'altra soluzione, senza niente togliere ovviamente al grande Bartezzaghi: Quattordici più tre è Tredici più quattro». 14+3 è anagramma di 13+4 in italiano, e la loro somma è 17, come il numero di lettere che compongono la somma. Doppio chapeau. | << | < | > | >> |Pagina 774.
Filastrocche e nonsense
4.1 Abbaini che abbaiano
La letteratura per l'infanzia è una miniera di testi esemplari
per tradurre i quali è necessario ripensare alle strategie traduttive
a cui di solito si fa ricorso. La traduzione di una filastrocca di
Rodari è una piccola impresa e offre curiosi rompicapi su cui
riflettere:
Cercherò di mostrare, attraverso diversi tentativi di modeste discese in pista e fuori pista, fatte in questo caso in prima persona, come sia possibile giungere a mete diverse, o a esiti traduttivi differenti, interagendo con le diverse forze che formano il testo apparentemente nonsensico di Rodari. L'esempio consentirà di svolgere alcune riflessioni, da una parte, sulle nozioni di creatività e vincolo, e, dall'altra, su alcune forze (caso, amore, logica) che dovrebbero essere sempre in campo quando si decide di cimentarsi nell'arte della traduzione (estrema). Vediamo alcune possibili versioni in inglese della filastrocca, affrontando ostacoli via via più complessi che il testo stesso propone. | << | < | > | >> |Pagina 94Ce n'è un bel campionario nel corpus poetico di McGough. A voler essere scolastici, nel senso della scolastica, si potrebbe fare una catalogazione delle tipologie utilizzate (unità lessicali, collocazioni, cliché, catacresi, proverbi etc.). Oppure potrebbe essere interessante sottoporre ai gruppi di ricerca che si occupano di individuare le metafore, e del cui prezioso lavoro siamo grati (Steen 2010), una poesia brevissima come questa:Missed out of work divorced usually pissed he aimed low in life and missed.
Immagino che si potrebbe discutere se
out of work
o
pissed
siano metafore. Credo che non ci sarebbero dubbi sul fatto che
to aim low
sia un'espressione figurata, ma anche che è un ribaltamento di un'espressione
convenzionale: nella vita di solito si
«punta in alto», così come
more is up
e
less is down.
È l'antitesi della metafora spaziale
(orientational metaphor)
che Lakoff e Johnson (1980, pp. 14-21) considerano pressoché universale (e
quindi, in un qualche modo, con un coefficiente di difficoltà traduttivo basso).
La traduzione presenta semmai qualche problema in più per il ritmo (metro, rima,
allitterazioni) e per la scelta
di un termine che renda bene quel «pissed» («metafora recente»
così gergale e pregna). Facile invece la resa dell'espressione idiomatica che è
stata rivitalizzata grazie a una capriola imprevista:
puntare in basso sono capaci tutti, ma fallire pur puntando in
basso è una iattura assoluta. Una possibile traduzione potrebbe
essere la seguente:
| << | < | > | >> |Pagina 100Simile, ma con un coefficiente di difficoltà alto, è la poesia Swordfish. Qui il pesce spada inglese porta in grembo un pesce parola, ma in italiano?Wordfish Wordfish are swordfish in a state of undress Criss-crossing the ocean in search of an S.
Restando nell'ambiente ittico si può forse azzardare una sostituzione con
pesci orfani che cercano i genitori (C e S) smarriti :
| << | < | > | >> |Pagina 206Idiomatismi. La prima definizione che si trova sui dizionari di Bookworm è «una persona che si dedica completamente alla lettura e allo studio», e solo in seconda battuta un insetto che infesta i libri. Il primo significato della parola è ben presente, ma, come nelle catacresi, spesso dimenticato. Facile per McGough, partendo da lì, costruire una storia sui worms più intelligenti che il poeta conosca, alcuni dei quali anche vegetariani, attentissimi a evitare di mangiare «names of animals / or references to meat». Anche quando giunge la loro ora di morire lo sanno fare con grande dignità e compostezza: «they slip between the pages / curl up and eat "The End"» (McGough 2013, p. 36). A volere fare una traduzione «spendibile» e a «equivalenza dinamica» dovremmo ricorrere alla frase idiomatica italiana. Abbiamo anche noi i nostri animali colti. Con i topi da biblioteca, basterà cambiare alcuni dettagli e la storia funzionerà anche in italiano, purché il poeta illustratore si presti al gioco e trasformi gli occhialuti bookworms in topi affamati di libri.| << | < | > | >> |Pagina 114Prendere in considerazione traduzioni di testi così leggeri eppure complessi come sono le filastrocche, i giochi di parola, i nonsense, gli scioglilingua, ma anche le costruzioni più strutturate come gli acrostici, i lipogrammi, gli anagrammi ecc., può essere un modo per riflettere su questioni rilevanti della traduttologia, ma anche della ontologia del testo. Che cosa si intende dire ad esempio quando ci si lamenta che un testo di poesia in traduzione non è più lo stesso? Come si può valutare (i.e. dare un giudizio critico che sia costruttivo e non sbrigativamente liquidatorio) una traduzione estrema? Che cosa invece s'intende quando s'insiste perché una traduzione restituisca l'essenza del source text? E che cos'è l'essenza di un testo? È quello che il testo dice? Quello che il testo fa? Quello che il testo è? È quello che l'autore voleva che fosse (intentio auctoris)? Compito allora del traduttore sarà quello di privilegiare la volontà dell'autore (come nel caso di quegli scrittori che si preoccupano di guidare il traduttore nella «giusta» interpretazione del testo – Hofstadter o Eco)? Oppure è quello che il lettore decide che può essere come nel caso della somma nella poesia di Pereira (intentio lectoris)?Le due intenzionalità (auctoris e lectoris) si affiancano a quella centrale del testo (intentio operis), alle sue ragioni, al suo essere fonte, inaspettatamente feconda e potenzialmente sorprendente. Nessuna delle tre è depositaria dell'essenza del testo, che non è una riduzione, ma semmai una moltiplicazione, una pluralità. Quando il testo si muove non si allontana dalla propria essenza, ma si avvicina a essa, costruendola nella molteplicità. E tanto più vitale sarà la vita del testo, quanto più saldi saranno i legami, i vincoli che ciascun attore nel processo di riscrittura e manipolazione saprà considerare e rigenerare. | << | < | > | >> |Pagina 119Cattiveria, cattività, citare, tradurre, ma anche libertà vigilata, on probation... siamo all'interno dello stesso campo semantico della «costrizione». Che la traduzione sia un trasporto di un prigioniero in ceppi lo aveva sottolineato Erri De Luca , cercando anche di mostrare come questo trasporto sorvegliato possa avvenire con le sue traduzioni interlineari di alcuni libri dell' Antico testamento:Traduzione è anche un termine carcerario. È lo spostamento di un detenuto da un istituto all'altro. Approfitto della coincidenza per ribadirla: le traduzioni vanno fatte come quando si sposta un detenuto: in ceppi, da scomodi. Il detenuto tradotto sta con le mani legate, deve obbedire a qualcuno. La traduzione non è un passaggio libero, ma un trasporto sorvegliato. (De Luca 2001, p. 31) Ma la stessa immagine viene usata molti secoli prima da uno dei Padri della traduzione e della riflessione sul tradurre, Gerolamo, quando nella Lettera a Pammachio, opponendosi con decisione a chi intendeva la traduzione come calco o versione intralineare, scrive: Ché se alcuno pretende che una lingua non perda nulla della sua grazia in una versione, traduca Omero letteralmente in latino, o meglio lo volga in prosa nella sua stessa lingua greca: si accorgerà subito d'aver dinanzi un mostriciattolo, e che il più elegante dei poeti s'è trasformato in un uomo appena capace di parlare [...]. Ilario [...] tradusse dal greco le omelie su Giobbe e moltissimi trattati sui Salmi, e non si attenne ad una sonnolenta interpretazione letterale, né costrinse il suo pensiero nello spregevole sistema dei traduttori da strapazzo, ma trasportò nella sua lingua i pensieri altrui, come prigionieri, su cui egli avesse riportata vittoria. (Gerolamo 1993, p. 68) | << | < | > | >> |Pagina 131Forse potrà essere di qualche utilità cercare di ordinare in una semplice tabella i diversi vincoli individuati in questi testi poetici per l'infanzia, ben consapevoli che essi si intrecciano e si trasformano continuamente, e che i tipi diversi di testo impongono i propri vincoli, molti dei quali imprevisti e imprevedibili: int 2Vincoli intratestuali Formali Struttura poetica Metro Costruzioni particolari (anagramma, lipogramma, calligramma ecc.) Linguistici Fonetici Morfologici Sintattici Semantici Giochi di parole (ambiguità semantica...) Neologismi Omonimie Vincoli paratestuali Illustrazioni Performatività Spazio grafico del fumetto Vincoli intertestuali Citazioni Allusioni Parodie Vincoli extratestuali Progetto traduttivo Poetica Ideologia Patronage Censura Condizioni lavorative (tempo, stipendio...) | << | < | |