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| << | < | > | >> |Pagina 7«Terra, terra, terra...» Ogni tanto quel grido mi torna con rabbia sulla bocca. Il mio nome è Rodrigo e faccio il marinaio. Anzi, per essere più precisi Rodrigo è il mio soprannome: il nome vero e completo è Juan Rodríguez Bermejo e marinaio non lo sono più. Lo sono stato, anche se non ne avevo la vocazione. D'altronde io mi sento un uomo senza vocazioni e non è che mi disperi per questo. Da ragazzo mi avevano messo nel convento di Jeréz de la Frontera dedicato al grande san Domenico di Guzmán, ma dopo avere resistito sino al quinto anno di studi sono riuscito a procurarmi un paio di sbocchi di sangue e me ne sono potuto andare come malato di petto. Devo in ogni modo essere grato ai severi padri: là mi hanno insegnato a leggere, a scrivere, a capire un poco di latino e a ragionare, a rispettare la parola e a pretendere dagli altri che sia rispettata. Prima di possedere questa botteguccia a Tetuàn, dove vendo pepe, zafferano, cumino, cardamomo e altre cose del genere, ho dovuto praticare tanti mestieri, come racconterò in seguito. Ma se dico che sono marinaio è perché marinai e preti si resta tutta la vita, pur cambiando d'abito e di mestiere. E poi, da marinaio ho vissuto la mia avventura più esaltante, che a conti fatti è stata anche la più umiliante, quella che ha segnato per sempre la mia vita. Sono nato in una capanna del sobborgo di Triana, chiamata dai romani Trajana e dai mori Tarayana, che sta sull'altra sponda del Guadalquivir, a un tiro di schioppo da Siviglia e a una cinquantina di leghe da Palos, contea della Niebla, reame di Castiglia e Aragona. Avendo visto la luce probabilmente nel 1472, che sarebbe l'850 dell'Egira, conto perciò cinquantanove anni. Vengo da una famiglia tutta di barcaioli di fiume, comprese le donne ed eccettuati uno zio muratore al castello del tribunale dell'Inquisizione e il nonno materno che aveva traslocato sulla costa ed era diventato uno dei più bravi maestri d'ascia dell'intera Andalusia. La mia attuale moglie Shirin è berbera di razza e maomettana di religione. Abbiamo quattro figli maomettani come me, che pur essendo nato cristiano tra cristiani non voglio più sentire parlare di quella gente e ogni giorno recito le cinque preghiere prescritte, quando posso evito il vino e tutti i venerdì frequento la moschea. La mia statura è piuttosto bassa ma sono muscoloso e forte come una quercia. Porto i baffi, ho i capelli crespi e ancora neri. In genere riesco simpatico benché di poche parole. Come stavo bene con il saio del frate, con l'armatura del soldato e con il camiciotto dell'uomo di mare, così oggi mi sento a mio agio indossando la jellaba e quella cappa con cappuccio che noi chiamiamo burnus. Vi racconto questi dettagli perché non mi piace che qualcuno possa dire di non avere capito bene le motivazioni dei miei comportamenti. Aggiungo che se troverete strane o addirittura odiose certe storie che andrò raccontando, non m'importa. Corro il rischio di essere accusato anche di empietà. Tanto, quando leggerete i miei fogli, dovessero capitarvi in mano tra un anno o un secolo o un millennio, io sarò morto e dimenticato. E così spero dell'uomo che mi ha rovinato l'esistenza. Intendo dire l'ammiraglio Cristoforo Colombo. So tutto di lui. Quasi tutto. Lo conosco sin da quando strisciava lungo i muri di Palos e di Huelva dopo essere arrivato dal Portogallo. Ricordo la data, il 1485, l'anno successivo all'incoronazione di papa Innocenzo VIII e doveva essere d'estate. Si faceva chiamare, pensate un po', a volte Colombo, altre Colón, Christovão Colón, Christovan Colom o persino Cristóbal Columbo de Terra-Rubea. Era coperto di croste e di stracci, povero in canna, denutrito. E se non fosse stato per la carità dei francescani del monastero della Rábida, che lo avevano mantenuto mesi e mesi con il figlioletto Diego, e poi per la generosità di don Luis de la Cerda, quinto conte e primo duca di Medinaceli, signore del Puerto di Santa Maria e della città di Cogolludo, imparentato con i reali di Castiglia, che lo aveva calzato, vestito e restituito all'onore del mondo, di questo spergiuro non avremmo mai sentito parlare né in bene né in male. Dite che sono troppo astioso con l'ammiraglio? Aspettate. Non ho nemmeno incominciato. Abbandonato il convento, io a Huelva lavoravo come aiuto amanuense della Santa Hermandad. Trascrivevo in un castigliano leggibile i resoconti verbali dei capitani analfabeti che per conto della Corona combattevano i banditi e i ladri di bestiame, e dovevano successivamente partecipare alla cacciata degli ebrei dalla Castiglia e degli ultimi mori da Granada. Ero alle dipendenze del genovese Francisco Pinello, che nella confraternita occupava la carica di tesoriere e più tardi cominciò a proteggere Colombo, dal momento che era suo compatriota. Io questi genovesi di Andalusia li vedevo come il fumo negli occhi. Tirati con la borsa, pagavano salari da fame e intanto, giudei conversos molti di loro, ingrassavano chi con il banco di pegni e prestando denaro, chi con il controllo delle dogane, chi con il traffico della seta, il monopolio del commercio dei cereali, della lana e chi al servizio di grandi signori come amministratore o responsabile delle imposte, se non addirittura alla Corte come consigliere dei sovrani o procacciatore di fondi: dato che le Loro Maestà avevano sempre bisogno di moneta. A Siviglia, grazie all'assenso reale, dispongono di un proprio rione, di granai, di forni appositi per le famiglie. Siamo arrivati all'assurdo che si amministrano tra loro finanche la giustizia. La gente diceva che Colombo si fosse rifugiato in Andalusia perché il re del Portogallo lo aveva espulso dai suoi domini, in pratica esiliandolo, ma lui evitava di parlare di questa e delle tante altre ombre che oscuravano il suo passato. Dopo la sosta a Palos dai frati della Rábida e prima di entrare nelle grazie del Medinaceli, aveva trovato ospitalità a Huelva in casa della cognata Briolanja Moniz Perestrel detta Violanta, sorella della moglie Felipa morta a Lisbona. Alle sue cure finì per affidare il figlio Diego. La cognata non doveva amarlo molto, se andava spettegolando sulla caterva di debiti che il futuro ammiraglio del mare Oceano aveva lasciato a Genova e poi a Lisbona, «tal quale suo padre Domenico». Parlando con i frati e con altri egli si vantava di appartenere a una nobile schiatta di gente di mare. Ma il padre, secondo quella chiacchierona della cognata, faceva il tessitore come del resto per i primi dodici o quindici anni della sua vita aveva fatto pure Colombo. Non era stato l'unico mestiere del vecchio. Visto che i soli tessuti non gli davano da vivere, cercava di arrangiarsi commerciando piccole partite di formaggio e comprando e vendendo case. Era maldestro e pasticcione, forse anche sfortunato, e in quest'ultima attività si era mangiato tutta la dote della moglie. Tra l'altro aveva acquistato un immobile da un parente che, non avendo mai visto un centesimo, lo trascinò davanti ai giudici. Famoso per non pagare i creditori, che in Liguria erano un esercito, Domenico era persino finito in carcere. Sempre secondo la cognata, Cristoforo, per non essere da meno del padre, doveva soldi a un sacco di gente, a un fornitore di vino, a uno di formaggi, a uno di lane e penso che abbia abbandonato Genova in fretta e furia imbarcandosi su un veliero per sfuggire ai creditori, mentre il vecchio si rifugiava a Savona e vi apriva una osteria. È così che Colombo dev'essere diventato navigatore. Sotto la spinta dei debiti. | << | < | > | >> |Pagina 37Ho poca familiarità con il tempo. A casa mia eravamo troppo poveri per avere la candela che segna le ore e tanto meno la clessidra a sabbia o addirittura il calendario. Siamo sempre andati con il sole, quando il cielo non era coperto. Questo per dire che non sono affatto sicuro sulla data del mio malinconico ritorno tra i guerrieri di Castiglia. Credo comunque fosse l'autunno del 1491. Rimasi nella caserma di Ayamonte meno di una settimana. Mi assegnarono alla milizia a piedi, un reparto formato da un centinaio di contadini volontari per bisogno o raccolti con le buone e le cattive (più queste che quelle). Rimpiangevo i mesi trascorsi assieme ai pirati. Quella si che era gente perbene. Dei militari invece potevo ripetere: «Non militia sed malitia», come avevano insegnato in convento. Vedete che qualche cosa restava nella mia testa di quegli anni al San Domenico? «Malitia» infatti significa bassezza, inganno, disonestà. Fingevo con tutti di essere alle prime armi: per pura precauzione, non per il timore che qualcuno scoprisse che ero un disertore. Avrei rischiato la prigione unicamente se fossi incappato in un ufficiale che mi aveva conosciuto in divisa a Palos o nelle Canarie, cosa del resto impensabile. Chi altri potevo temere? Il mio nome non era mica scritto sui registri, dal momento che nelle caserme non esistono elenchi e a volte non sanno neppure chi sei, da dove vieni, come ti chiami. Io avevo detto di chiamarmi Juan Rodríguez e di venire da Triana, ma avrei potuto dire Garda de Gibraléon o Pedro el Viscaíno e sarebbe stato lo stesso. Un mattino prima dell'alba ci fanno partire. Gli ufficiali titulados a cavallo, quelli senza titoli nobiliari sul dorso d'asino, noi a piedi. Sono settimane di enormi fatiche. Camminiamo dodici, quattordici ore al giorno: da Ayamonte a Huelva, da Huelva a Pilas, da Pilas a Palomares del Río, al traghetto del Guadalquivir. Conosco bene questi posti, mi viene anche la tentazione di andarmene, disertare e raggiungere Triana per conto mio. Con la confusione che c'è tra le nostre file sarebbe la cosa più semplice. Ma che potrei combinare laggiù? I miei vecchi vivono in miseria, i barcaioli crepano di fame, un anno il fiume straripa affogando le campagne e un anno la siccità le brucia. Ho vissuto quell'esistenza da bestie, dove nelle capanne si apre la bocca soltanto per scambiare insulti e gli occhi servono solo per piangere. Dalle selve della Sierra Morena sono scesi sino alle paludi delle Marismas branchi di lupi famelici. Talmente feroci che non si accontentano di attaccare gli uomini ma anche gli altri animali selvatici: le linci, le volpi e addirittura gli orsi e i cinghiali calati anch'essi in pianura dalle foreste più lontane. Morire per morire, allora tanto vale farlo a pancia piena nell'assedio di Granada. Per chi leggerà in futuro queste pagine, se esse avranno la ventura di resistere nel tempo, converrà che io spenda qualche parola alla buona sull'evento al quale mi accadde di partecipare senza nessun entusiasmo, bensì con rassegnata riluttanza. La Reconquista della Spagna dopo otto secoli di occupazione araba non aveva restituito l'intera penisola alla dinastia e ai prelati cattolici. Da oltre cento anni restava incuneato nel territorio castigliano il piccolo reame di Granada in salde mani maomettane. Salde? Diciamo che lo erano state in passato. La guerra che aveva visto vincitori i re della Navarra e poi quelli di Castiglia e Aragona, si era fermata ai confini della fiorente plaga granadina. Sull'Alhambra, sul Generalife, sulle torri e sui minareti e più in là sulle pendici boscose e sulle cime innevate della Sierra Nevada, sui tetti di Màlaga e Almería la bandiera verde dell'Islam continuava a sventolare come una beffa e un'offesa per i sentimenti degli spagnoli. Ma non di tutti gli spagnoli. Mi limito a riferire ciò che ho visto e sentito di persona, ciò che di persona ho vissuto. Sono pronto ad attestare che se i sovrani, la Corte, la nobiltà, il clero e forse anche i mercanti più ricchi soffrivano per quel cuneo piantato nel loro cuore, alla gente come me, gente comune dei campi e della costa, la presenza del re Boabdil a Granada, dei suoi guerrieri, delle popolazioni berbere e arabe nella grande regione tutto intorno non dava alcun fastidio e non provocava alcuno struggimento. Tutto sommato, noi andalusi eravamo quasi sempre andati d'accordo con loro. Certo, i più anziani ricordavano le battaglie dei cristiani contro i maomettani, le stragi vicendevoli di donne e bambini, come quella dei mozárabes di Córdoba da parte dei maomettani, quella dei mudéjares a Siviglia da parte dei cristiani, i saccheggi dei rispettivi villaggi. E la tragica battaglia di Río Salado, quando la cavalleria pesante castigliana aveva schiacciato le unità leggere maomettane impedendo loro di usare la tattica abituale, che consisteva nel fingere la fuga e poi accerchiare all'improvviso l'avversario. A Río Salado i cristiani fecero un massacro di mori, militari e civili. Follie che avevano suscitato in molti, lo ammetto, ma non in tutti, odio e disprezzo. I mori chiamavano i cristiani kafirun, vale a dire infedeli, con la stessa insolenza con la quale i cristiani definivano miscredenti i mori. Però solo in alcuni momenti i mori erano stati veramente nemici dei cristiani. Se non li si molestava con discorsi che offendevano la loro fede o se non li si provocava con atteggiamenti contrari ai loro costumi, i maomettani erano gente alla mano, allegra, tollerante, disposta ad aprire le porte delle case all'ospite forestiero, a offrirgli cibo e magari lavoro. Quanti andalusi, e parlo dell'Andalusia perché è la provincia che conosco, fossero cristiani o ebrei, hanno imparato un mestiere dagli amici arabi? Mestieri fini, come il cesellatore, l'intagliatore, il conciatore di pelli, il tintore di tessuti, il manipolatore di oro, l'incastonatore di gioielli, lo specialista nei ricami d'argento delle filigrane, il decoratore di palazzi e moschee, il miscelatore di profumi e le donne persino la danzatrice, la suonatrice di mandola, la sarta di mussole e veli, la cuoca di cuscus, di piccioni ripieni e di appetitosi bignè. Era tanto apprezzata tra i mori l'arte dell'oreficeria che i re di Granada avevano ordinato che l'oro e l'argento, se usati per realizzare gioielli, fossero esenti da ogni tassa. E non parlo degli studiosi arabi di Andalusia, cosa che tutti sanno ma non tutti sono disposti a riconoscere, i filosofi, i matematici, i medici, i geografi, gli astronomi, mica scarti di magazzino: no, cervelli fini, ammirati a Córdoba come a Toledo e a Valladolid. I miei vecchi raccontavano che, d'accordo, i mori erano mediocri contadini, però dai cristiani e dagli ebrei avevano a loro volta imparato mestieri come quello del calderaio, del carradore, del maniscalco, del soffiatore di vetro, dello scultore del marmo e della pietra, del suonatore di tromba e persino del pittore sulle ceramiche, pittore soltanto di fiori e ornamenti poiché l'Islam proibisce di riprodurre sembianze umane. Il Corano è tassativo e scrive che «gli angeli non entreranno in una casa ove ci sia una figura o un cane» e anche che «il giorno del Giudizio sarà punito severamente l'assassino di un profeta e l'artefice di immagini o figure». Ma ritorniamo alla nostra marcia di avvicinamento al fronte. Il comandante del battaglione sembra avere poca fretta di portarci alla guerra. Più che adattare il nostro passo a quello del suo cavallo ha deciso di adattare quello del cavallo al nostro. Soltanto per arrivare a Siviglia impieghiamo nove giorni. La sosta nella città dura tre giorni e io li trascorro quasi senza dormire, passeggiando per piazze e strade che mi sono familiari, essendo venuto al mondo sull'altra sponda del Guadalquivir. Vi manco da non so quanti anni e ai miei occhi, che l'hanno sempre considerata la città più grande e bella e disordinata della Terra – dice il proverbio: «Quien no ha visto Sevilla, no ha visto maravilla» –, appare ancora più smisurata e assordante. È diventato difficile e malsicuro camminare per le strade fetide e fangose in cui scorrono fiumi di liquame, congestionate da una quantità incredibile di carri, asini, carrozze, carretti, lettighe e cavalli, venditori, compratori, contadini con cesti di frutta, suonatori, soldati, preti, monaci, torme di mendicanti che esibiscono le loro infermità, malandrini, tagliaborse e tagliagole, qualche lebbroso sfuggito alla reclusione nel lazzaretto fuori dalle mura, donne giovani e belle, stagionate e rivoltanti, ragazze da marito e ragazze da letto, prostitute che si offrono, lavandaie che stendono la biancheria da un capo all'altro dei vicoli, bancarelle delle botteghe, panche e tavoli degli artigiani, campagnoli che si aggirano smarriti, sfaccendati che insultano i poveracci legati al palo della gogna e aspettano che incominci lo spettacolo gratuito del supplizio, teatrini ambulanti dove buffoni cantano o urlano versi incomprensibili unendosi al chiasso inaudito, saltimbanchi, chierici che portano in giro le reliquie per supplicare la grazia di Dio, ammaestratori che tengono l'orso al guinzaglio, giocolieri con o senza la scimmia, predicatori che inveiscono contro i nostri peccati. Come fosse sempre giorno di festa. Avevo dimenticato certe stradine intorno alla Plaza de la Laguna o sotto le mura antiche. Talmente strette che due asini affiancati non possono passare, le donne che si affacciano alle finestre mettono la testa dentro la finestra opposta, un uomo a cavallo rischia di far scorticare il fianco del suo destriero contro le case a destra e a manca. Per annunciarsi e farsi largo i mercanti con i loro piccoli carretti a mano urlano come ossessi e urlano le comari, urlano i cavalieri, urlano tutti. Da una passeggiata in questo inferno uno come me, che della vita di una città ha perso l'abitudine, esce stordito. | << | < | > | >> |Pagina 75¡Nada menos! Ho usato questa espressione di meraviglia prima di tutto perché a Palos nessuno si aspettava di incontrarlo, Colombo. Quelli che anni prima lo avevano conosciuto quando era arrivato alla Rábida pensavano fosse morto, inghiottito dai vortici dell'Inquisizione o fuggito anche lui (sebbene sia amico di frati e di preti non è, come dicono, un ebreo anche se converso?). Completamente cambiato. Dovevate vederlo. Zoppicante per l'artrite e con l'aspetto più vecchio dei suoi quarant'anni o giù di lì, scavato in volto, il naso aquilino ancora più sottile, le labbra gonfie, le guance pallide per essere uno che naviga da una vita, bianchi i capelli un tempo biondi e la barba che si è lasciata crescere, gli occhi azzurri un po' appannati ma attenti a tutto ciò che accade intorno, si pavoneggia in un abito scarlatto di stoffa pregiata, sotto un cappello di velluto scuro con un pennacchio di struzzo, al braccio di Martín Pinzón, l'uomo che tiene in pugno la città. Pinzón, padrone di vascelli e di cantieri, navigatore di prim'ordine, è appena ritornato da Napoli dove ha venduto un carico di resine e vernici. I due sono seguiti da un giovane in livrea, un domestico, dato che Colombo ora porta il titolo di Capitán Generál in attesa di insignirsi di quello di Grande Ammiraglio del mare Oceano. Chi l'avrebbe detto! Uno così sprigiona un'aura di mistero, no? Perciò molti volevano sapere, e io tra loro, che cosa gli fosse successo di tanto miracoloso in questi pochi anni. Un contributo per sciogliere l'enigma l'ha portato anche il sottoscritto. Non per niente ho trascorso quell'interminabile periodo nel convento di Jeréz. Mi era stato dunque facile entrare in amicizia con un vecchio frate chiacchierone della Rábida e farlo parlare. Ho avuto la fortuna che questo religioso, fray Lorenzo, non lo poteva soffrire. Dovevano avere litigato per qualche ragione che non seppi mai. Venni a sapere invece che il genovese ha una straordinaria abilità nel circuire i religiosi, meglio se altolocati. Già in Portogallo, secondo le maldicenze della cognata Violanta, era stato un canonico di Santarém a presentarlo ai parenti della donna che avrebbe poi sposato, i Perestrel. Mettendo insieme tutte le informazioni e le voci raccolte viene fuori un racconto forse non esatto al cento per cento ma che rende un'idea dell'individuo. In Portogallo Colombo era sbarcato due volte. La prima in seguito alla battaglia navale e al relativo naufragio al largo di capo San Vicente: e allora, soccorso da gente caritatevole, aveva trovato ingaggio su una caracca commerciale che faceva rotta verso il Nord dell'Europa. Anche a noi, durante quella maledetta spedizione nell'ignoto da lui capitanata, descriveva con abbondanti dettagli queste navigazioni del suo passato, vere o false, più false che vere. Falsa sicuramente quella che diceva di avere compiuto per il buon re Renato, sovrano di Napoli e Sicilia, di Gerusalemme, di Maiorca e di Aragona, duca di Angiò, di Lorena e di Bar, marchese di Pont, conte di Guisa, di Barcellona, di Provenza e di Forcalquier, signore di Loudun, Saumur, Angers, Tarascon, e qui mi fermo, nella quale avrebbe avuto il comando di un galeone da guerra: se i conti sono giusti, a quell'epoca Colombo doveva essere un bambino di circa otto anni. Falsa quindi l'impresa compiuta sempre per conto del re Renato, che gli aveva imposto di impadronirsi di una galeazza catalana e quando la ciurma si era rifiutata di proseguire la navigazione, egli l'avrebbe ingannata manipolando abilmente l'ago della bussola sicché, fingendo di far prua verso Marsiglia, s'era diretto invece a Tunisi dove, incrociata la nave, l'aveva assalita, presa e portata al sovrano angioino. Falso il periodo di pirateria che sosteneva di avere trascorso con il celebre Scarinchio, padrone di dodici galere specializzate nel depredare i velieri napoletani carichi di spezie: anche qui, fatti i calcoli, il nostro navigante aveva appena compiuto i dieci anni. Vero, probabilmente, il viaggio all'isola di Chio che era possedimento di Genova nel mare della Grecia, ma come mozzo e non comandante, a caricare mastice e piante aromatiche. Chissà se vero anche quello dall'Inghilterra ai confini del mondo, alla favolosa isola di Thule «oltre la quale» diceva lui «si stende il mare congelato e d'estate il sole resta visibile ventiquattr'ore al giorno». Sulla bravura di marinaio di Colombo, niente da eccepire. Benché quel suo ripetere fino alla nausea «Io ho navigato tutto ciò che sino a oggi è stato navigato» fosse chiaramente una panzana, devo riconoscere che alla prova si rivelò un marinaio abile ed esperto. Sapeva dominare i venti, destreggiarsi con le vele, maneggiare con facilità quadranti, bussole e astrolabi, conosceva l'uso di strumenti che nessun marinaio comune può conoscere, leggeva nelle nuvole e nelle stelle, al timone era un pilota senza pari. Ma come uomo, spregevole. E non solo per quel che fece a me. Avreste dovuto chiedere in giro. Se c'erano di mezzo i quattrini, era meglio stargli assolutamente alla larga. Per un mezzo ducato sarebbe stato capace di compiere qualsiasi delitto. Non voglio anticipare i tempi di questo racconto, però so bene che era stata l'avarizia a fargli imbarcare cibo scarso (e anche avariato!) nel primo tratto della nostra spedizione: e quando un marinaio veniva preso dal voltastomaco o dalla febbre o dai dolori all'intestino, metteva a tacere il cerusico e urlava: «Dategli un cucchiaio di olio e se dovesse peggiorare, preparategli il telo». Capito? Il telo per avvolgere la salma e gettarlo tra le onde. Ma fosse soltanto quello... Ho sentito io stesso Martin Alonso Pinzón imprecare perché i conti tenuti da Colombo non tornavano mai: «Quel dannato pensa al denaro, al denaro, solo al denaro!». E dove mettere la sua ossessione per l'oro? Nessuno mi toglie dalla testa che la spinta per avventurarsi nei mari sconosciuti gliel'avesse data l'ardore di allungare le grinfie sui giacimenti di metalli e minerali preziosi più che l'ansia di scoprire nuove terre. Un giorno, durante il viaggio di ritorno dalle Indie, a Pinzón scappò detto che la regina avrebbe dovuto fare perquisire l'ammiraglio, non appena avesse messo piede in Castiglia, per togliergli le pepite di oro che nascondeva nei calzoni. E gli schiavi? Non era stato Colombo, per arrotondare il bottino di valore trovato nelle isole, non era stato proprio lui a progettare la cattura dei selvaggi più prestanti per venderli sui mercati dell'Andalusia? Aveva cura degli schiavi più che di noi della ciurma. Certo, perché dagli schiavi sperava di ricavare un guadagno. Da noi no. Ma sto correndo troppo e devo ritornare a Palos. È possibile che nel corso dei suoi viaggi Colombo, che non era un imbecille e mostrava predisposizione per le scienze e le matematiche (specialmente quelle contabili, dove c'erano di mezzo i soldi), avesse cominciato a concepire il progetto dell'impresa oltre il mare Oceano. Dopo il secondo sbarco a Lisbona, di ritorno dal Nord, il progetto prende corpo. Il matrimonio con la nobildonna Felipa, sedotta e sposata in tutta fretta, lo innalza nel bel mondo lusitano. Il suocero Bartolomeu Perestrel era stato il potente governatore dell'isola di Porto Santo, sua suocera Isabel Moniz era imparentata con la famiglia reale portoghese e a un cognato il sovrano aveva affidato addirittura il governo di Madeira, che per un nobile era il massimo. È nelle case del vecchio Perestrel che il genovese scova e studia documenti introvabili e mappe inedite, portolani, antichi libri greci e arabi su tutte le rotte possibili e impossibili, e il volume mezzo rosicchiato dai topi di un missionario francescano maiorchino, Ramón Llull, grande navigatore che, oltre a trovare la prova logica dell'esistenza di Dio, aveva fatto un'osservazione geniale: perché le acque del mare Oceano erano mosse dal flusso e dal riflusso? Semplice: le onde si frangevano contro le coste di un lontano continente sconosciuto e tornavano sulla sponda opposta, che erano il Portogallo, la Francia, l'Inghilterra e, più giù, l'Africa. La cosa intriga Colombo che ci pensa su. Aggiungete che nei ricevimenti nobiliari incontra e ascolta navigatori sperimentati, che da Madeira dove per qualche mese va ad abitare scende alle Canarie, compie traversate, tipo quelle che nel mio piccolo ho compiuto anch'io, in Guinea, a Capo Verde e lungo la costa africana. Per dire che in un modo o nell'altro si è fatto la mano a navigare, a compiere osservazioni nautiche, a chiedersi se non fosse il caso di spingere la curiosità più oltre verso ponente, dove andavano a infrangersi le onde e vi era di sicuro, diciamo quasi di sicuro, una profusione di posti da scoprire. Una di questi poteva essere la mitica Antilia, la conoscete? Io no. Ne ho sentito parlare per la prima volta da fray Lorenzo. Sembra che al di là delle isole Azzorre esista questo luogo detto anche delle Sette città, che alcune spedizioni avrebbero raggiunto per poi scomparire nel nulla. Antilia, avamposto delle Indie, diventa per Colombo l'equivalente dell'oro, delle pietre preziose, delle spezie rare, in una parola dell'Eden. Come arrivarci, giurava di saperlo. Messo a punto il progetto, si trattava però di realizzarlo. E a farlo doveva essere lui, e nessun altro. Dato che una impresa di quel genere oltre che un salto nel buio è molto ma molto costosa, soltanto le risorse di un sovrano sono in grado di sostenerla. In cambio chi dà il denaro può godere di tutti i probabili vantaggi della scoperta. Insomma, il furbacchione brigò tanto che riuscì a farsi ricevere da re Giovanni II, quello che chiamavano «O Perfeito», l'Ineguagliabile e a esporgli il concetto. Penso sia superfluo ricordare in questi fogli il piano del nostro navigante. Troppo se ne è parlato e del resto io non sono del mestiere. Dirò solo che, per quel che so, l'idea che la Terra sia rotonda e che quindi si potesse verosimilmente buscar el Levante navegando por el Poniente, aveva ben poco di originale. Anche a noi marinai, ignoranti e scettici, assicurava che, parole sue, «la Terra, badate, è una sfera perfetta, che può essere da oriente in occidente percorsa, camminando gli uomini per quella finché venissero a star piedi contro piedi gli uni con gli altri in qual si voglia luogo che all'opposto si trovasse». Il discorso non sembra molto chiaro ma è arcinoto, ce lo dicevano persino al monastero di Jeréz che fin dai tempi di Aristotele e di Strabone, di Plinio, di san Tommaso e di decine di altri dopo di loro, gli studiosi davano per certo che la Terra fosse rotonda, mentre prima erano sicuri che fosse un disco piatto abitato soltanto su una delle due facce. Nel periodo in cui Colombo a Lisbona implorava il re di fornirgli soldi e mezzi per il suo progetto, in tasca teneva una copia della mappa disegnata da un famosissimo astronomo di Firenze, certo Toscanelli o Toscanuzzi, con la spiegazione del modo di raggiungere con il tragitto più breve l'India, che si trova a oriente e sinora era stata raggiunta solo per la via di terra, facendo rotta a occidente più o meno lungo il parallelo di Lisbona. Copia (su questo fray Lorenzo è perentorio) sottratta da Colombo all'archivio di un prelato portoghese, consigliere del sovrano, che era in corrispondenza con Toscanelli o Toscanuzzi. Di suo, Colombo ci metteva l'ostinazione. Era convinto che la distanza tra l'estremità dell'Europa, cioè la Spagna e il Portogallo, e la costa del favoloso continente nominato il Cataio presso il quale si troverebbero Antilia e quell'altra regione altrettanto favolosa detta Cipangu, fosse molto piccola: piccola per modo di dire, dato che egli azzardava la cifra di quattromila miglia, «e una nave sospinta da venti favorevoli li può compiere in poche settimane»» e chiedeva che gli facessero fare la prova. Se lo lasciavate discorrere delle Indie, del Cataio, di Antilia e di Cipangu, da pallido che era diventava paonazzo, gli occhi azzurri incominciavano a mandare faville e i capelli gli si rizzavano sulla testa, le mani cominciavano a tremare. Entrava, come un matto, in uno stato di esaltazione pericolosa.
Che cosa chiedeva Colombo in cambio del grazioso regalo
che voleva fare al Portogallo? Quisquilie. Tre o quattro velieri
con i relativi equipaggi, forniti di mercanzie adatte a essere
scambiate con gli abitanti di quei luoghi, il titolo di Grande
Ammiraglio e tutti i privilegi spettanti al grado, il Vicereame
delle terre scoperte e un sesto dei prodotti, minerali e vegetali,
che se ne sarebbero ricavati. Re Giovanni rimane sbalordito di
fronte a tanta faccia tosta. Respinge l'offerta, all'insaputa di Colombo arma
subito una nave da guerra e manda un suo capitano a verificare fin dove
possibile se il progetto sia attuabile: con
il proposito di realizzarlo in proprio. Quindi caccia dalla Corte
l'insolente che si è permesso di protestare per la bocciatura.
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