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| << | < | > | >> |Pagina 9 [ inizio libro ]La signora Kampf entrò nello studio chiudendosi la porta alle spalle così bruscamente che tutte le gocce di cristallo del lampadario, mosse dalla corrente d'aria, tintinnarono d'un suono puro e leggero di sonagli. Ma Antoinette aveva continuato a leggere, china sullo scrittoio tanto da sfiorare la pagina con i capelli. La madre la osservò un istante senza parlare, poi le si piantò davanti a braccia conserte.«Potresti anche scomodarti quando vedi tua madre, bambina mia!» la sgridò. «Non ti pare? Hai il didietro incollato alla sedia? Che modi raffinati... Dov'è Miss Betty?». Nella stanza accanto il rumore di una macchina per cucire ritmava una canzone, un What shall I do, what shall I do when you'll be gone away... cantato languidamente, con voce incerta e fresca. «Miss,» chiamò la signora Kampf «venga qui». «Yes, Mrs. Kampf». L'inglesina, guance rosse, occhi spaventati e dolci, uno chignon color del miele arrotolato sulla testolina rotonda, si insinuò attraverso la porta socchiusa. «L'ho assunta» prese a dire con severità la signora Kampf «per sorvegliare e istruire mia figlia, vero? Non perché si cucisse dei vestiti... Antoinette ignora per caso che ci si alza in piedi quando entra la mamma?». «Oh, Ann-toinette, how can you?» disse la miss con una specie di mesto balbettio. Antoinette ora stava in piedi e si dondolava goffamente su una gamba. Era una ragazzina di quattordici anni, lunga e magra con il volto pallido di quell'età, tanto smunto da apparire agli occhi degli adulti come una macchia rotonda e chiara, priva di lineamenti, le palpebre socchiuse, cerchiate, la boccuccia serrata... Quattordici anni, i seni che premono sotto l'abito stretto da scolara, che feriscono e impacciano il corpo debole, infantile... I piedi grandi e quelle lunghe bacchette con all'estremità due mani arrossate, dalle dita sporche d'inchiostro, che magari un giorno diventeranno le più belle braccia del mondo... Una nuca fragile, capelli corti, incolori, secchi e leggeri... «Antoinette, ragazza mia, che maniere sono queste? E una disperazione! Siediti. Entrerò di nuovo e tu mi farai il piacere di alzarti immediatamente, intesi?». La signora Kampf indietreggiò di qualche passo e aprì la porta per la seconda volta. Antoinette si drizzò con lentezza e con una malagrazia così evidente che la madre, stringendo le labbra in atteggiamento minaccioso, chiese piccata: «Le secca, per caso, signorina?». «No, mamma» disse Antoinette a voce bassa. «Allora perché fai quella faccia?». Antoinette accennò un sorriso con uno sforzo fiacco e penoso che le deformava dolorosamente il viso. A volte odiava gli adulti al punto che avrebbe voluto ucciderli, sfigurarli, oppure gridare: «Mi hai scocciato!» battendo i piedi; ma fin dalla più tenera infanzia aveva paura dei genitori. Un tempo, quando era più piccola, la madre la prendeva spesso sulle ginocchia e se la stringeva al cuore, coprendola di baci e di carezze. Ma questo Antoinette l'aveva scordato. Mentre nel più profondo di se stessa aveva serbato il suono, lo scoppio di una voce irritata che diceva dall'alto: «Questa marmocchia mi sta sempre tra i piedi... Mi hai di nuovo macchiato il vestito con le tue scarpe sudicie! Via, in castigo, ti servirà di lezione, mi hai sentito? Stupida!». E un giorno... Per la prima volta, quel giorno, aveva desiderato morire... All'angolo di una strada, durante una scenata, quella frase piena d'ira, gridata così forte che i passanti si erano girati: «Vuoi una sberla? Sì?» e il bruciore di uno schiaffo... In mezzo alla strada... Aveva undici anni, era alta per la sua età... I passanti, gli adulti, pazienza... Ma proprio in quell'istante alcuni ragazzi che uscivano da scuola l'avevano guardata ridendo: «Te la passi male, bellezza...». Oh, quei sorrisetti di scherno che la perseguitavano mentre camminava, a testa bassa, per la strada scura d'autunno... Le luci danzavano attraverso le lacrime. «Basta piagnucolare... Che brutto carattere!... Se ti punisco è per il tuo bene, ti pare? E attenta a non farmi innervosire un'altra volta, sai...». Brutti schifosi... E adesso, ancora, lo facevano apposta a tormentarla, torturarla, umiliarla, con accanimento, da mane a sera: «Come tieni la forchetta?» (davanti ai domestici, Dio mio) e «Sta' dritta. Almeno cerca di non sembrare gobba». Aveva quattordici anni, era una giovanetta e, nei suoi sogni, una donna amata e bella... Gli uomini l'accarezzavano, l'ammiravano, come nei libri Andrea Sperelli accarezza Elena e Maria, e Julien de Suberceaux, Maud de Rouvre... L'amore... Trasalì. La signora Kampf stava concludendo: «... E se credi che ti paghiamo un'istitutrice inglese perché tu abbia modi del genere ti sbagli, mia cara...». Poi, a voce più bassa, mentre rialzava una ciocca di capelli che pendeva sulla fronte della figlia: «Dimentichi sempre che ora siamo ricchi, Antoinette...». E girandosi verso l'inglese: «Miss, avrò molte commissioni per lei, questa settimana... Il 15 do un ballo...». «Un ballo» mormorò Antoinette spalancando gli occhi. «Ma certo,» disse la signora Kampf sorridendo «un ballo...». Guardò Antoinette con un'espressione d'orgoglio, poi inarcò le sopracciglia accennando di nascosto all'inglese. «Non le hai detto niente, spero». «No, mamma, no» disse Antoinette con foga. Sapeva bene quale fosse la preoccupazione costante della madre. All'inizio – erano passati due anni da allora –, quando avevano lasciato la vecchia rue Favart in seguito al geniale colpo in Borsa che aveva dato loro la ricchezza (dopo aver scommesso sul ribasso del franco, Alfred Kampf aveva poi, nel 1926, speculato su quello della sterlina), Antoinette veniva convocata ogni mattina nella camera dei genitori: la madre, ancora a letto, si limava le unghie, mentre nel bagno attiguo il padre, un piccolo ebreo scarno dagli occhi di fuoco, si radeva, si lavava, si vestiva con quella folle rapidità di tutti i suoi gesti che un tempo aveva spinto i colleghi della Borsa, gli ebrei tedeschi, a soprannominarlo Feuer. Era andato su e giù lungo la scalinata della Borsa per anni e anni... Antoinette sapeva che prima era stato impiegato alla Banca di Parigi, e prima ancora usciere alla porta della banca, in livrea blu... Quando lei stava per nascere aveva sposato la sua amante, la signorina Rosine, dattilografa del capo. Per undici anni avevano abitato in un piccolo appartamento buio, dietro l'Opéra Comique. Antoinette si ricordava di quando la sera ricopiava i compiti sul tavolo della sala da pranzo, mentre la domestica, in cucina, lavava rumorosamente i piatti, e la signora Kampf leggeva romanzi china sotto la lampada, un grande globo di vetro smerigliato dove brillava il getto vivido del gas. Qualche volta la madre emetteva un profondo sospiro di irritazione, così forte e brusco che Antoinette sobbalzava sulla sedia. Kampf domandava: «Che cos'hai ancora?» e Rosine rispondeva: «Mi si stringe il cuore pensando a quanta gente vive bene, è felice, mentre io passo gli anni migliori della mia vita in questo lurido buco a rammendarti i calzini...».
Kampf alzava le spalle senza rispondere. Allora, quasi sempre, Rosine si
girava verso Antoinette. «E tu, che cos'hai da ascoltare? Non è affar tuo quel
che si dicono gli adulti!» gridava con stizza. Poi concludeva: «Eh già, figlia
mia, se aspetti che tuo padre faccia fortuna, come promette da quando siamo
sposati, puoi aspettare, ne passerà di acqua sotto i ponti... Crescerai e te ne
starai lì, come tua madre, ad aspettare...».
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