Copertina
Autore Paolo Nencini
Titolo Ubriachezza e sobrietà nel mondo antico
SottotitoloAlle radici del bere moderno
EdizioneMuzzio, Nonte San Pietro (BO), 2009, Scienza , pag. 336, cop.fle., dim. 14x21x2,2 cm , Isbn 978-88-96159-22-4
LettoreGiangiacomo Pisa, 2010
Classe alimentazione , salute , storia antica , storia sociale
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Indice


Introduzione 9


Un prologo biologico 13

  Fermentazione alcolica e ormesi 13
  L'alcolismo innato 21
  L'adattamento culturale 24

Vino e birra nel Medio Oriente antico 31

  La preistoria 31
  Il Medio Oriente antico 37
    Il vino 37
    La birra 43
  L'ebbrezza alcolica nel Medio Oriente antico 53
  Il vino del popolo di Israele 58

La rivoluzione greca: il trionfo del vino 65

  Il Mediterraneo orientale nell'Età del Bronzo 65
    L'assenza della birra 65
    Il miele fermentato 70
    Mangiare e bere 71
    Il vino a Creta e Micene 75
  Il dono inevitabile del vino 85
  Il doppio dono del vino 93

L'ubriachezza e le sue conseguenze 99

  L'etilismo acuto 99
  L'etilismo cronico 103
  I rimedi all'ubriachezza 105
  Psicopatologia dell'ubriachezza 109
    La perdita di controllo 110
    Ottundimento delle capacità critiche 112
  Il comportamento sessuale 114
    L'impotenza 117
    La devianza 118
    Teratogenesi 120
  Vino e zoppia 124
  L'aggressività 127
    La guerra 133
    L'ubriachezza rende inermi 137
    Le ragioni della mancata fortuna del vino in battaglia 140

Gli ubriachi 143

  I centauri 144
  Polifemo 149
  I barbari 153
  Gli schiavi 161
  La donna 162
  L'ubriachezza strumentale 164
    Saggezza ed educazione 164
    Ubriachezza e ordine cosmico 166
    La mania poetica 168
  La finta ubriachezza 173
    Il menadismo 173

Dioniso orthos o della misura nel bere 183

  L'acquisizione del controllo 183
  Le feste del vino 186
    La cerimonia dell'aiora 189
  La comunicazione non verbale 196
  Diluire il vino 204
  Il cottabo 213
    L'erotismo 215
  La conversazione 217
  Brilli o ubriachi? 221

Bere a Roma: dal paganesimo al cristianesimo 227

  L'eredità greca 227
  La produzione vinicola a Roma 231
  Elementi di originalità nel bere romano 234
  Il bere femminile a Roma 239
  Il convivium 241
  Vino e politica a Roma 244
  Il ruolo del Cristianesimo 250
  Il superamento della tradizione ellenistico-romana 257

Epilogo 263


Note 269
Bibliografia 307
Indice analitico 321

 

 

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Pagina 9

Introduzione


L'idea che abbiamo delle cosiddette droghe è che ci siano state da sempre attorno e che da sempre ne abbiamo fatto quell'uso voluttuario che è croce e delizia del mondo contemporaneo. Eppure, quest'idea è in realtà un pregiudizio anacronistico di cui sarebbe bene liberarsi, se non altro perché ha generato l'altrettanto infondato pregiudizio di una ineluttabilità di tale uso voluttuario.

Già a un'analisi men che attenta, è facile rendersi conto che le civiltà che ci hanno preceduto, o le società isolate, antiche e moderne, non necessariamente hanno fatto un uso voluttuario delle sostanze psicoattive che avevano a disposizione. Prendiamo per esempio le civiltà del Mediterraneo antico: esse sono venute in contatto con un ristretto numero di materiali vegetali ad attività psicoattiva e, ciò nonostante, l'uso di alcuni di tali materiali è stato senz'altro rifiutato. Basti pensare alla cannabis che i Greci hanno lasciato volentieri dove ne avevano osservato l'uso: in Tracia. Dell'oppio è stato fatto certamente uso fin dalla civiltà cretese, ma a fini rituali e terapeutici, mai invece, per quanto ne sappiamo, per il piacere che si può ottenere dalla sua ingestione.

Ciò non significa tuttavia che l'uso voluttuario delle sostanze psicoattive sia una invenzione moderna. Se infatti restiamo nell'ambito del Mondo Antico, è alle bevande prodotte dalla fermentazione alcolica di alcuni materiali vegetali che tale mondo ha chiesto aiuto al fine di creare le condizioni più opportune per quelle intermittenti tregue dalle occupazioni e preoccupazioni che il fisiologico funzionare dell'individuo e della comunità richiede.

Questo aiuto ha conferito alle bevande alcoliche un'importanza sociale che è ben dimostrata dalla fitta trama di norme e consuetudini che hanno regolato a quel tempo il come, il quando e il quanto bere. Regole che non sono state certo le stesse per tutte le civiltà che si sono fronteggiate o succedute lungo le sponde del Mediterraneo, così come non c'è stata uniformità di preferenze per quanto riguarda quale o quali bevande adottare.

Sul come queste regole del bere si siano sviluppate e siano state applicate nei differenti contesti, molte e approfondite ricerche sono state condotte dagli antropologi che si dedicano allo studio del Mondo Antico: basti pensare a quali importanti contributi sono stati così forniti alla comprensione del simposio, momento centrale della socialità greca, o delle feste attiche dedicate a Dioniso. Eppure, per quanto rilevanti, o addirittura fondamentali, questi contributi lasciano sovente inevasa la domanda, che a un farmacologo sorge spontanea, di quanto l'elaborazione delle regole del bere si sia basata sulla consapevolezza empirica della molteplicità di effetti neuropsichici delle bevande fermentate, birra e vino.

È vero che la farmacologia antica era inesistente nei termini intesi dal pensiero scientifico moderno, come dimostra il fatto che gli interventi farmaco-terapeutici erano sovente assolutamente arbitrari; eppure, già a colpo d'occhio, la cultura del bere ci appare troppo complessa per ammettere che anche tali regole fossero farmacologicamente arbitrarie. Del resto è così stringente il nesso temporale tra assunzione della bevanda alcolica ed effetti psico-comportamentali dell'alcol che la causalità della relazione tra i due eventi è acquisibile senza alcun particolare strumento metodologico o tecnologico. Si può allora supporre che il razionale farmacologico di tali regole non avesse la mera funzione dicotomica di separare i sobri dagli ubriachi: oltre che dell'evoluzione tecnologica, l'etilometro è infatti il frutto di una cultura della responsabilità individuale che è tutta nostra e non trova corrispettivi nel Mondo Antico.

Inforcare gli occhiali del farmacologo per leggere il vasto corpus letterario, storico ed iconografico che documenta le situazioni in cui le bevande alcoliche, il vino soprattutto, erano assunte, può allora permettere di cogliere in tali regole ben più complesse esigenze che non quelle del mero evitamento dell'ubriachezza. O meglio, si può cogliere la capacità degli Antichi di discriminare, all'interno di quella che oggi chiamiamo ebbrezza alcolica, una serie di effetti farmacologici dell'alcol che costituiscono un danno per l'individuo e per la comunità, coinvolgendo, tra l'altro, la competenza cognitiva, la sfera sessuale e la sicurezza personale. Di qui una delocalizzazione di questi effetti dal buon cittadino a soggetti estranei alla comunità, ai quali far quindi carico del compito di una esemplificazione negativa riguardo i danni dell'ubriachezza. Ma si può cogliere anche la competenza degli Antichi riguardo le modalità che permettono la piena espressione delle proprietà positive dell'alcol, l'euforia e la facilitazione dei rapporti interpersonali, soprattutto: il simposio è la magistrale espressione di tale raffinata competenza empirica.

Naturalmente lo studio degli usi di una sostanza psicoattiva da parte di una comunità non può prescindere dall'esame dei codici culturali che quella comunità si è data, in quanto gli effetti stessi di tale sostanza sono filtrati e indirizzati in maniera psicobiologicamente oggettiva dai codici stessi, nel senso che certi effetti di un farmaco possono essere completamente obliterati in favore di altri a seconda dei contesti d'uso. Questa regola ben si applica anche al Mondo Antico come abbiamo avuto modo di evidenziare in un precedente studio dedicato all'uso materiale del papavero da oppio. Infatti, come sopra accennato, le proprietà euforizzanti dell'oppio mai hanno trovato allora un'applicazione nel comportamento d'uso ricreativo, mentre appare concreta la possibilità che le sue proprietà ipnotiche fossero sfruttate in contesti d'uso rituale a contenuto escatologico.

Evidentemente, in linea di principio, non vi è alcun effetto psicofarmacologico così prepotente da potersi imporre da solo ai codici culturali di una comunità. Al contrario, questi ultimi possono costituire il filtro di selezione dell'ampio ventaglio di effetti psicofarmacologici che ogni farmaco reca con sé.

Come vedremo, il modo di bere attestatosi nel Medio Oriente antico ben si adattava alla struttura piramidale di quelle società, così come il bere conviviale greco altrettanto bene si adattava alla democrazia ellenica. Tutto questo pone la duplice necessità che l'antropologia faccia un migliore utilizzo della matrice farmacologica di certi contesti d'uso delle sostanze psicoattive e che la psicofarmacologia tenga conto che il trasferimento delle informazioni dal contesto sperimentale all'umana quotidianità non può prescindere da una valutazione accurata dell'impatto che i codici culturali hanno sull'espressione degli effetti dei farmaci psicoattivi, le cosiddette "droghe", innanzi tutto.

Questo libro è la necessaria continuazione di quello dedicato all'uso materiale del papavero da oppio nel Mondo Antico e, mentre si propone di colmare l'indubbia lacuna sul lato farmacologico nello studio dell'uso delle bevande fermentate da parte di quelle civiltà, vuole porsi come stimolo ad affrontare, per quanto possibile, in maniera interdisciplinare il problema del radicamento delle sostanze psicoattive nelle comunità passate e presenti, dove per interdisciplinare si intende l'analisi della reciproca influenza tra farmaco e ambiente nel determinare quegli effetti farmacologici che costituiscono la motivazione per il radicamento di certi specifici impieghi e non altri. In questo libro si tornerà infatti ripetutamente sull'interazione tra il farmaco (drug), l'individuo con la sua costituzione biologica e il suo vissuto (set) e l'ambiente socio-culturale (setting), su cui si fondano i tentativi, ancora purtroppo rari, di costruire un corpus coerente di informazioni antropofarmacologiche.

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Un prologo biologico


Fermentazione alcolica e ormesi

Per fermentazione alcolica si intende il processo di trasformazione dello zucchero in alcol etilico a opera di microrganismi denominati genericamente lieviti o fermenti, ma più esattamente classificati come appartenenti al genere Saccaromyces. In natura questo processo si esercita a carico dei frutti quando, raggiunta la piena maturazione, espongono la polpa all'azione dei fermenti presenti nell'ambiente circostante, o sulla buccia, come nel caso dell'uva.

La fermentazione alcolica è quindi un fenomeno esteso quanto lo sono le specie vegetali che producono frutti dotati di una polpa (mesocarpo) che contenga almeno un 10% di zucchero.

A fronte delle poche migliaia di anni di fermentazione controllata da parte dell'uomo sta quindi il tempo indefinito della fermentazione spontanea nell'ambiente naturale. Alla luce di questa semplice constatazione, è lecito chiedersi: quali conseguenze adattative può aver avuto sulle specie animali questa fermentazione spontanea? In altre parole, produce abbastanza alcol da costituire un elemento di pressione ambientale in grado a sua volta di indurre, nelle specie esposte, il processo di selezione darwiniana?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzi tutto chiederci quali vantaggi ne trae chi subisce la fermentazione – cioè la pianta che ha generato i frutti. La polpa dolce dei frutti ha la funzione di attrarre e quindi gratificare il comportamento ingestivo delle specie frugivore, quelle che si alimentano principalmente di frutta. Il vantaggio per la pianta è evidente: l'ingestione della frutta fa sì che i semi in essa contenuti vengano trasportati lontano dalla pianta stessa, permettendo quindi la diffusione della specie.

In un'ottica evoluzionista, anche la fermentazione alcolica potrebbe svolgere un ruolo adattativo in favore della pianta, poiché i prodotti della fermentazione, in quanto volatili, possono disperdersi nell'ambiente circostante, svolgendo la funzione di stimoli olfattivi potenzialmente capaci di orientare verso la pianta il comportamento di ricerca dell'individuo frugivoro. Pur così plausibile, questa ipotesi mostra alcuni punti deboli. Innanzi tutto, il numero di sostanze volatili (aldeidi, esteri, alcoli ecc.) presenti nella frutta matura è incredibilmente elevato e si ritiene, per esempio, che ben duecento composti siano necessari per formare il profumo delle fragole.

Sebbene l'etanolo sia comunque l'alcol a maggior concentrazione nei frutti maturi, questo fatto non costituisce una prova che esso sia l'attrattante nei confronti delle specie frugivore. Basta infatti considerare che i primati, in quanto frugivori, sono attratti dalla frutta matura ma non troppo ed evitano, per quanto possibile, quella guasta, che è poi quella che contiene alcol in quantità apprezzabili. Lo stesso rifiuto della frutta guasta è stato osservato in una specie frugivora di pipistrelli. Recentemente è stata tuttavia individuata una nicchia ecologica nella quale l'alcol svolgerebbe questa funzione di attrattante. Un piccolo mammifero, la tupaia dalla coda piumata (Ptilocercus lowii), costituisce il principale impollinatore della Eugeissona tristi, una palma della foresta tropicale della Malaysia Occidentale. I fiori di questa palma emanano un evidente odore di alcol e in effetti il nettare subisce una fermentazione così intensa da raggiungere concentrazioni alcoliche del 3,8%. Sulla base del contenuto di un metabolita dell'etanolo (etilglucuronide) nel pelo dell'animale, si è calcolato che questo piccolo mammifero arrivi a ingerire l'equivalente di nove bicchieri di vino.

Se scendiamo nella scala zoologica, incontriamo una specie frugivora che senza dubbio trae un vantaggio dalla frutta guasta: è il moscerino del vino (Drosophila melanogaster), in quanto capace di sfruttare appieno le proprietà caloriche dell'alcol etilico, utilizzandolo quindi come nutriente. È stato così osservato che la massima longevità, nonché la massima capacità riproduttiva, per i soggetti appartenenti a questa specie si ha quando sono mantenuti in un'atmosfera al 3% di etanolo. In altre parole, piuttosto che all'aria libera questi moscerini vivono meglio in presenza di una quantità ottimale di una sostanza che a più alte concentrazioni diventa ovviamente tossica.

Questo dato empirico costituisce uno dei punti di forza del concetto di ormesi, secondo il quale gli organismi viventi traggono benefici dalla esposizione a piccole concentrazioni di sostanze altrimenti tossiche. Concetto questo che si applicherebbe, oltre che all'etanolo, anche ai metalli pesanti e, addirittura, alle radiazioni ionizzanti. In definitiva, l'ormesi sarebbe un fenomeno biologico attraverso il quale gli organismi si adatterebbero a utilizzare le risorse anche potenzialmente tossiche disponibili nell'ambiente, facendo, per così dire, di necessità virtù.

È importante notare che, così formulato, il concetto di ormesi espande notevolmente le capacità adattative degli organismi verso i cosiddetti xenobiotici, capacità che altrimenti si ritengono circoscritte all'inattivazione delle tossine di origine vegetale attraverso lo sviluppo di opportuni sistemi enzimatici intestinali ed epatici. Pur se tale estensione delle capacità adattative degli organismi è concettualmente plausibile, recenti studi hanno tuttavia confutato l'ormesi come principio generale. Nella maggior parte dei casi, infatti, quella che viene chiamata ormesi sarebbe in realtà il risultato della sommatoria di due o più effetti indipendenti, ognuno dei quali si manifesterebbe a dosaggi diversi. In altre parole, l'ormesi consisterebbe in una mera coincidenza farmacodinamica e sarebbe quindi priva d'ogni particolare significato adattativo. Il suo uso, sia teorico che empirico, può ingenerare pertanto confusione, attribuendo alla pressione evolutiva lo sviluppo della proprietà di generare curve dose-risposta di tipo bifasico (effetti inibitori seguiti da effetti eccitatori o viceversa), proprietà che sono invece intrinseche a innumerevoli farmaci, anche di origine sintetica.

Vi è tuttavia la possibilità che, nel caso dell'alcol, l'applicazione del concetto di ormesi resista alle confutazioni che abbiamo appena esposto. L'applicabilità del concetto agli eventuali benefici dell'alcol nelle specie frugivore superiori, inclusi i primati umani e non, implica che almeno due requisiti siano soddisfatti. In primo luogo, è necessario che anche in queste specie, così come dimostrato nel moscerino del vino, l'utilizzo di piccole quantità di etanolo fornisca vantaggi evolutivi. In secondo luogo, è necessario che l'esposizione alla sostanza non sia del tutto occasionale, ma sufficientemente continuativa da costituire un elemento rilevante di pressione ambientale.

Per quanto riguarda il primo punto, il fatto che il valore calorico dell'etanolo sia superiore a quello dei carboidrati (7,1 contro 4,1 chilocalorie per grammo di sostanza) potrebbe sembrare una ragione più che sufficiente ad affermare il valore ormetico dell'etanolo stesso.

A questa constatazione si potrebbe facilmente obiettare che l'etanolo fornisce esclusivamente calorie e quindi un'alimentazione ricca di alcol non è in grado di soddisfare il fabbisogno alimentare di un individuo, in termini di aminoacidi essenziali, vitamine ecc. Ciò in realtà suona conferma riguardo l'applicabilità del concetto di ormesi all'alcol, in quanto sono proprio le piccole concentrazioni della sostanza, e non le alte, a conferire vantaggi all'individuo; quelle concentrazioni, cioè, che aggiungono calorie senza tuttavia sottrarre quegli elementi nutritivi indispensabili al mantenimento dello stato di salute e che provengono dall'assunzione dei tradizionali macronutrienti. Se infatti prendiamo in considerazione l'attesa di vita delle popolazioni esposte all'alcol, si osserva che questa si dispone lungo una curva a campana rispetto alle dosi di alcol assunte giornalmente. In altre parole, il bevitore sobrio è avvantaggiato, in termini di durata della vita, non solo rispetto ai forti bevitori ma anche agli astemi. A determinare questo vantaggio sembrano contribuire principalmente la riduzione della mortalità per patologie cardiovascolari, riduzione che sarebbe a sua volta da ascriversi al rallentamento del processo aterosclerotico e alla ridotta aggregabilità piastrinica, effetti entrambi indotti dalle piccole dosi di alcol. Come la Drosophila, quindi, anche l'uomo vive più a lungo in presenza di piccole concentrazioni di alcol.

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Vi è poi la questione degli effetti psicoattivi dell'alcol. È presumibile infatti che la scoperta della fermentazione alcolica assistita abbia dato corso a un periodo di sperimentazione per l'acquisizione del controllo dello stimolo, o, in altre parole, per imparare a bere senza ubriacarsi. È altresì ragionevole pensare che questo e non il bere eccessivo e continuato (quello che ora chiamiamo alcolismo) sia stato, almeno inizialmente, la preoccupazione preminente delle comunità nelle quali era praticata la fermentazione alcolica controllata. Stanti le modalità di conservazione dei fermentati praticate all'epoca, è assai improbabile che la bevanda fosse disponibile durante l'intero corso dell'anno, o quanto meno al di fuori della cerchia ristretta dei detentori del potere. È possibile quindi che molte energie siano state spese per stabilire una serie di regole che minimizzassero le conseguenze negative che l'ebbrezza alcolica degli individui poteva avere sul buon funzionamento della comunità; è parimenti comprensibile che tali regole, così come l'introduzione stessa di bevande tanto attraenti quanto pericolose, dovessero provenire dal di fuori della comunità, dall'altrove mitologico. Nasce insomma una cultura del bere, anzi, come vedremo, nascono più culture del bere, poiché la necessità fondamentale del controllo del comportamento d'assunzione trova soluzioni diverse a seconda delle civiltà in cui tale necessità si pone. Come vedremo, le civiltà medio-orientali troveranno soluzioni profondamente diverse rispetto a quelle fornite dalla civiltà greco-romana.

È bene tuttavia precisare che il passaggio dalla natura alla cultura segnato dalla scoperta della fermentazione alcolica controllata non implica la necessità di abbandonare il modello darwiniano di adattamento agli effetti dell'alcol. Anzi, è possibile fornire argomenti piuttosto solidi a sostegno della tesi che le regole del bere costituiscono un ulteriore affinamento di tale processo adattativo. A questo proposito, dobbiamo innanzi tutto tenere presente che la pratica del bere non può essere considerata una faccenda del tutto privata e questo perché gli effetti psicofarmacologici dell'alcol, pur esercitandosi ovviamente sull'individuo, hanno conseguenze importanti, sia nel bene che nel male, per la comunità alla quale tale individuo appartiene.

Se adattamento vi è stato agli effetti dell'alcol, questi debbono essere pertanto ricercati in una ottimizzazione degli effetti socializzanti dell'alcol stesso e, per contro, in una minimizzazione di quelli potenzialmente antisociali. Si potrebbe tuttavia obiettare che per ottenere tutto ciò non c'è bisogno di scomodare Darwin, basta l'analisi delle dinamiche sociali e dei sistemi di regole attraverso gli strumenti della sociologia e dell'antropologia. Partendo tuttavia dalla constatazione della straordinaria capacità della specie umana di formare comunità all'interno delle quali gli individui mostrano un elevato livello di cooperazione, alcuni studiosi, alla ricerca delle basi psicobiologiche dei comportamenti sociali, hanno esteso l'applicazione del concetto di fitness darwiniana (intesa come la capacità di sopravvivere e di riprodursi in un determinato ambiente) dall'individuo alla comunità. Ponendosi in una prospettiva strettamente evoluzionistica, ci si è chiesto, per esempio, perché mai un individuo dovrebbe cooperare a beneficio di soggetti estranei e senza trarne profitto esso stesso, essendo questo un comportamento apparentemente in netto contrasto con il principio del vantaggio individuale di un'azione. Gli studi sinora condotti hanno dimostrato che il comportamento altruistico umano è fondato su un solido sostrato psicologico, che certamente può subire modificazioni adattative geneticamente trasmissibili, ma solo sul lungo periodo. I comportamenti sociali umani richiedono tuttavia un elevato livello di plasticità adattativa, che può essere garantita solo da meccanismi evolutivi attivi sul più breve periodo. Inoltre, tali meccanismi debbono operare, oltre che sugli individui all'interno dei gruppi, anche tra i gruppi stessi. Nel caso delle società umane, poiché ciò che tiene assieme gli individui sono le norme che ne regolano i rapporti, sarebbe l'evoluzione culturale a selezionare la comunità dotata di maggior fitness darwiniana.

In questa prospettiva psicobiologica, possiamo affermare che le sostanze psicotrope presenti nell'ambiente sono certamente in grado di influire profondamente sui comportamenti sociali dell'uomo ed è quindi plausibile che gli effetti di tali sostanze abbiano generato a livello collettivo risposte adattative di natura meramente culturale. L'uso sciamanico degli allucinogeni, per esempio, costituisce un chiaro esempio di sfruttamento ai fini collettivi di effetti farmacologici così intensi e peculiari da risultare assai utili per rappresentare il ricongiungimento con il sovramondano da parte dell'iniziato, ma che, nel caso di una loro sperimentazione generalizzata, avrebbero conseguenze indubbiamente negative sul funzionamento della comunità.

Più recentemente, le risposte adattative sono consistite nell'introduzione di regole la cui unica funzione è di impedire senza tanti distinguo l'assunzione delle sostanze psicotrope ed è bene ricordare che gli erogatori e custodi primari di sistemi morali, le grandi religioni monoteistiche, hanno sempre mantenuto posizioni di intransigente contrasto su questo punto. Vi è tuttavia un'importante eccezione a tanta intransigenza ed è il caso dell'atteggiamento della tradizione giudaico-cristiana nei confronti dell'assunzione di bevande alcoliche. In questo caso, infatti, le regole sembrano indirizzate a stabilire un comportamento d'assunzione sobria che conduce a un pieno sfruttamento non solo delle proprietà alimentari dell'alcol, ma anche della sua capacità di facilitare la socializzazione.

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Insomma, per quanto sparsi, questi esempi testimoniano di come, in Mesopotamia e in Egitto, la birra sia stata la bevanda fermentata della quotidianità. Anzi, per la popolazione generale era l'unica bevanda fermentata accessibile. Che il vino non sia stato in grado di intaccare questa centralità è un dato di fatto che potrebbe essere facilmente spiegato con la sproporzione nella disponibilità materiale dei due beni. La ridotta offerta di vino ne manteneva alto il prezzo, rendendolo un prodotto di lusso indisponibile al di fuori della ristretta cerchia della classe dominante. Ciò che tuttavia sorprende è che a lungo in quelle antiche società nulla si faccia perché il vino si possa scrollare di dosso l'etichetta di bevanda elitaria e questo "non tanto perché il vino non riuscì mai ad uscire da un circuito ristretto di fruitori, ma perché la sua funzione sociale rimase nel tempo sostanzialmente inalterata, costretta all'interno di usi rituali e cerimoniali scarsamente dinamici". Lo status del vino nelle antiche civiltà medio-orientali ha insomma qualche analogia con quanto poi avvenne nell'alto Medio Evo in seguito alla crisi economica connessa con la fine del Mondo Antico: da bevanda di largo consumo, il vino tornò a essere simbolo di prestigio per l'élite dominante, in quanto "la riqualificazione economica della viticultura coincise con una ridefinizione delle valenze simboliche del vino, mediate soprattutto dal ruolo della Chiesa". Sebbene si colgano qui le somiglianze sociali tra la diffusione del vino nel mondo mediorientale e quanto avverrà in Europa dopo la caduta dell'Impero Romano, bisogna tuttavia notare che nel primo caso non è accaduto quanto Braudel constata con ironia riguardo la diffusione di sostanze psicoattive e spezie in Europa tra Medio Evo ed Età Moderna: "I ricchi sono così condannati a preparare la vita futura dei poveri. È dopo tutto la loro giustificazione: fanno la prova di piaceri di cui la massa si impadronirà prima o poi". Come vedremo, questa opera di democratizzazione del vino sarà autentico privilegio della civiltà greca.

La ultra-millenaria staticità delle funzioni del vino nelle società mediorientali si scioglierà verso più estese e flessibili forme di utilizzo solo nel primo millennio con l'avvento degli Assiri e con la pratica, da loro introdotta, della viticoltura estensiva. Lo dimostra, tra l'altro, la disponibilità dei quasi centomila litri di vino utilizzati per innaffiare il pantagruelico banchetto di ben 69.574 coperti che, attorno all'870 a.C., il re assiro Assur-nasir-apal II offre al suo popolo. Bisogna tuttavia notare che in queste società il vino non si sostituirà alla birra, ma piuttosto il suo consumo si andrà ad aggiungere a quello già rilevante della birra, conferendo quindi plausibilità alla reputazione di smodatezza nel bere che verrà attribuita al "barbaro" dal mondo greco-romano.

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L'ubriachezza e le sue conseguenze


Tra le tante cose di cui le tematiche dionisiache parlano ai Greci dobbiamo dunque includere senza alcuna incertezza le regole del bere, aventi il fine di evitare il conseguimento dell'ebbrezza alcolica. Il Greco si pone infatti per la prima volta, almeno per quanto riguarda le civiltà del Mediterraneo antico, il problema di come sperimentare le proprietà gratificanti del vino senza essere sopraffatto da quegli effetti della bevanda che risultano debilitanti sia sul piano fisico che psichico. Perché questo problema possa essere affrontato, è necessario che tali effetti siano descritti con accuratezza. Tali effetti, è evidente, consistono nell'ubriachezza e dipendono, nell'ambito della variabilità individuale, dalla quantità di alcol effettivamente assorbito.

In effetti, lungo tutta l'antichità, sul problema dell'ubriachezza si sono esercitate in profondità sia l'osservazione medica che la speculazione filosofica. A questo tema dedicano trattati Aristotele, Teofrasto, Ieronimo di Rodi e se questi trattati sono andati perduti, ci resta invece quello, allegorico, di Filone Alessandrino e ci resta una lettera' di Seneca dedicata all'ebbrezza. È poi un fiorire di aneddoti e relative interpretazioni, entrambi preziosissimi per i fini del presente studio nella misura in cui colgono aspetti rilevanti dell'ebbrezza alcolica.


L'etilismo acuto

La descrizione dei sintomi dell'intossicazione alcolica che ne risulta è minuziosa, ancorché disordinata nello sviluppo e ideologizzata nei nessi di causalità più prossimi al sintomo. Si prenda per esempio la descrizione che dello stato di ubriachezza ci fornisce Plutarco:

[... ] tremito, pesantezza, pallore, convulsioni respiratorie, incertezze di linguaggio, tensione alle estremità dei nervi e torpore, nella maggior parte dei casi l'ubriachezza termina nella paralisi, qualora il vino abbatta e spenga completamente il calore.

Lucrezio non è da meno in accuratezza nel cogliere altri aspetti dell'intossicazione: allorquando

[...] un uomo è invaso dalla forza di un vino generoso, il cui calore si è sparso e distribuito nelle vene, le membra diventano pesanti (gravitas membrorum), le gambe impacciate e il passo barcollante (praepediuntur crura vacillanti), la lingua pastosa (tardescit lingua), l'intelligenza ingarbugliata (madet mens), gli occhi fluttuanti (nant oculi).

Non è certo un caso che questa descrizione sia inserita nella parte del poema dedicata alla morte e che Lucrezio la faccia seguire dalla trattazione dell'epilessia: entrambi gli esempi sono infatti portati a sostegno della tesi che l'anima, al pari del corpo, è mortale. L'ebbrezza alcolica può quindi condurre a morte e Plutarco ce ne fornisce un esempio concreto descrivendo una gara di bevuta. A indirla è Alessandro il Grande e a competere sono suoi generali e amici. Le conseguenze sono dunque tragiche per il vincitore che, avendo bevuto l'enorme quantità di quattro cogni di vino (circa quattordici litri), ne muore tre giorni dopo. Ma, in questa gara, anche per gli sconfitti le cose non vanno meglio e infatti degli altri partecipanti alla gara ne morirono quarantuno, espostisi, in stato di ubriachezza, a intenso freddo. Osservazione questa d'indubbio interesse perché testimonia della già acquisita consapevolezza di quanto l'etilismo acuto concorra ad aggravare l'ipotermia indotta dalle avverse condizioni climatiche, conducendo quindi l'intossicato a morte.

Non sorprende che Alessandro avesse indetto una gara di bevuta, essendo diffusa tra gli Antichi la diceria che il giovane condottiero, da buon macedone, fosse un gran bevitore. Le sue sbornie sarebbero state infatti colossali, tanto che, secondo Plutarco, nelle effemeridi reali si poteva frequentemente leggere che Alessandro "in quel giorno ha dormito dopo il simposio" e in alcuni casi si precisa che il sonno si è protratto "anche il giorno successivo". Anche la sua morte prematura è stata attribuita a una intossicazione acuta, come ci riferisce Ateneo:

[...] Alessandro, una volta che pranzava dal Tessalo Medeo, brindò a tutti e venti i partecipanti il simposio e rispose ad altrettanti brindisi proposti da tutti loro, quindi lasciò il simposio e dopo non molto tempo morì.

Come siano andate in realtà le cose nessuno, ovviamente, potrà mai dirlo, ma resta il fatto, fondamentale in questa sede, che gli Antichi erano perfettamente consapevoli che l'intossicazione acuta da eccessiva ingestione di vino è potenzialmente fatale.

Fortunatamente, allora come oggi, le conseguenze di una sbornia erano più frequentemente banali, ancorché spiacevoli. La cefalea del giorno dopo, innanzi tutto:

Se prima di ubriacarci, il mal di testa della sbornia
ci piombasse addosso, nessuno mai del vino
vorrebbe bere più della giusta misura [...]

Oppure, come scrive Plinio, consapevole evidentemente dell'azione amnesica del vino bevuto in eccesso:

Il giorno dopo l'alito sa di botte, ogni cosa è stata dimenticata e la memoria è come morta.

Questo passo di Plinio nota anche con disgusto un'altra caratteristica dell'ubriacone: l'alito vinoso.

Su questo segno si sofferma con particolare efficacia Marziale:

Chi crede che Acerra puzzi di vino del giorno prima si sbaglia: beve sempre fino all'alba Acerra.

Inutile cercare di nasconderlo:

Per non puzzare del vino bevuto ieri, Fescennia, ingoi senza ritegno pastiglie di Cosmo e

suol puzzare fortemente di vino Mirtale, ma per trarci in inganno mastica alloro e al vino mescola astutamente, invece dell'acqua, delle foglie.

Tutto inutile, evidentemente, e infatti, come vedremo, su questo segno, valutato attraverso il bacio, si basava il metodo romano di controllo del bere della donna (vedi il capitolo "Bere a Roma: dal paganesimo al cristianesimo").

Il vomito è un'ovvia conseguenza dell'intossicazione alcolica acuta e la sgradevolezza del fenomeno è sfruttata a fini pittorici già dall'epica omerica nell'episodio di Polifemo, su cui avremo modo di tornare più approfonditamente: "[...] e dalla gola il vino gli usciva, e pezzi di carne umana; vomitava ubriaco". L'immagine, truculenta e disgustosa, è ripresa da Ovidio per dare ulteriore colore alla rissa tra centauri e Lapiti:

[...] dallo squarcio e dalla bocca vomitando fiotti di sangue insieme a cervello e vino, lungo disteso scalcia sull'intrisa polvere.

Virgilio non è da meno nell'episodio di Eurialo e Niso, dove così ci descrive la fine di Reto:

Purpurea lui vomita l'anima e misto col sangue, morendo vomita il vino.

Che dire poi della matrona che Giovenale, al massimo della sua feroce misoginia, descrive nella VI satira: "[... ] come una lunga biscia caduta in fondo a un tino, lei beve e vomita"; o della lesbica descritta da Marziale che prima di cena ha già vomitato sette coppe da mezzo litro di vino schietto. O, infine, dell'umiliante compito dello schiavo che "curvo sotto il divano, raccoglie gli avanzi degli ubriachi". Spostandoci nella vita reale, ci imbattiamo in Antonio, che all'indomani di un banchetto nuziale, è colto da nausea nel bel mezzo dell'esercizio delle sue funzioni di magister equitum e imbratta di vomito, cibo misto a vino, il tribunale. Episodio che rimase nell'immaginario collettivo romano se ancora Marziale in un suo epigramma, nell'elencare i vizi di un certo Gauro, afferma che l'abitudine di vomitare gli proveniva da Antonio.

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Quali sono dunque i motivi che hanno indotto i Greci a innovare completamente le modalità del bere rispetto ai loro vicini mediorientali? Il costume di assumere vino annacquato durante il simposio ha, in effetti, sollevato grandi perplessità tra i commentatori, evidentemente influenzati dal gusto moderno, che considera del tutto riprovevole una pratica che inevitabilmente ottunde le proprietà organolettiche della bevanda. È stato tuttavia suggerito che allungare il vino con acqua avesse la funzione di alleviare i retrogusti sgradevoli che si manifestavano in prodotti enologicamente tutt'altro che perfetti.

Tale ipotesi ha una sua plausibilità, stante la probabile alta variabilità qualitativa del vino, dovuta alla mancanza di procedure standardizzate sia nel processo di vinificazione che nella successiva conservazione della bevanda. In effetti, il processo di vinificazione era sottoposto all'alea di numerose contingenze sfavorevoli legate al basso livello della tecnologia disponibile. Inoltre, anche quando tale processo si fosse svolto senza intoppi, il risultato di una fermentazione avvenuta all'aria aperta e fermata con l'aggiunta di acqua di mare, polvere di marmo, pece o resina, era un liquido sciropposo e abboccato, dalle proprietà organolettiche assai diverse da quelle del vino che noi conosciamo.

La gradazione alcolica era poi influenzata dal fatto che il vino veniva lasciato nei doli aperti e il liquido era quindi sottoposto a evaporazione in una misura che variava da caso a caso secondo le specifiche condizioni microclimatiche. Nel caso si fosse ottenuto, per evaporazione, un aumento della gradazione alcolica, il prodotto, una volta filtrato e sigillato nelle anfore vinarie, godeva del vantaggio di una potenziale lunga conservazione. In effetti, vi è chi ha affermato che gli standard di conservazione sarebbero stati abbastanza elevati finché si mantenne la pratica di commerciare il vino in anfore vinarie sigillate; nel primo secolo d.C., invece, l'introduzione dei barili di legno, incapaci di impedire il contatto del vino con l'aria, avrebbe portato a uno scadimento della conservabilità del prodotto con la conseguente urgenza di bere il vino entro l'anno di produzione.

A parte il problema del trasporto nei barili, è comunque difficile ammettere che tutte le centottanta qualità di vino, che Plinio sostiene che esistessero al suo tempo, rispondessero agli standard minimi di qualità oggi richiesti per la commercializzazione. È plausibile quindi che aggiungere acqua, resina, miele o quant'altro avesse lo scopo di migliorare la qualità del vino, mascherandone i cattivi sapori.

Una seconda ipotesi vuole che l'aggiunta d'acqua avesse lo scopo di ridurre una gradazione alcolica troppo elevata. In effetti, a una prima esperienza, alte gradazioni alcoliche, come quelle oltre i 30 volumi che sono raggiunte dai distillati, generano disgusto per l'azione irritante dell'alcol sulle mucose e disforia per il brusco aumento dell'alcolemia; nelle successive esperienze, tuttavia, questi effetti, genericamente definiti come avversivi, si attenuano progressivamente attraverso il ben noto meccanismo farmacologico della tolleranza. Poiché in tale fase la tolleranza è selettiva per gli effetti avversivi, il bevitore comincerà a sperimentare pienamente gli effetti euforizzanti dell'alcol, particolarmente se le proprietà organolettiche della bevanda sono gradevoli e parimenti lo sia il contesto di assunzione.

Superato quindi con relativa facilità l'iniziale gradiente di avversività, lo sperimentatore diventa un regolare consumatore e in effetti i distillati hanno conquistato il gradimento dei mercati fin dalla loro introduzione a cavallo dell'Età Moderna, senza che alcuno si sognasse di berli annacquati. Tanto meno, ciò è necessario per il vino. Come abbiamo già visto, infatti, la fermentazione alcolica cessa quando la concentrazione di etanolo raggiunge i 15-16 gradi, rimanendo quindi ben al di sotto della gradazione raggiunta dagli attuali distillati. Insomma, anche se il vino dei Greci avesse avuto la gradazione dei moderni passiti, i suoi effetti avversivi sarebbero stati minimi e rapidamente annullati dal processo di tolleranza precedentemente descritto per i distillati. È quindi assai improbabile che il vino dei Greci fosse annacquato per la sua alta gradazione. È probabile invece che il costume di annacquare il vino si sia fondato sull'acquisizione empirica dei suoi vantaggi psicofarmacologici, che infatti appaiono colti perfettamente in una splendida metafora attribuita a Socrate:

Se il dio le bagna [le piante] con troppa abbondanza, non riescono a stare erette né a dispiegarsi quand'è il momento; se invece bevono solo quando a loro piace, crescono belle dritte e giungono in piena fioritura alla stagione dei frutti. Lo stesso anche per noi: se buttiamo dentro troppo vino, in breve tempo il corpo e la mente vacilleranno, e non saranno capaci neppure di tirare il fiato, tanto meno di dir parola; se invece i servi [... ] ci verseranno solo una pioggerella, poche gocce in piccoli calici, non saranno trascinati a viva forza dal vino in uno stato di ubriachezza, ma per effetto di gentile persuasione arriveranno a una maggiore allegria.

Il problema del bevitore sociale, allora come oggi, è infatti quello di gestire il proprio stato di impregnazione alcolica in funzione del fine di socializzazione del bere, nella consapevolezza che il superamento di certi livelli di alcolemia implica il sorgere di effetti dell'alcol incompatibili con il soddisfacimento di tale fine, mentre, rimanendo al di sotto di tali livelli, l'alcol svolge in maniera ottimale la funzione di social lubricant.

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Bere a Roma: dal paganesimo al cristianesimo


L'eredità greca

Bere vino nella società greca dell'età arcaica e classica era dunque attività regolata da norme che lasciano intendere una notevole competenza in merito agli effetti psico-comportamentali provocati dalla bevanda. Dall'ampio ventaglio di tali effetti furono così selezionati quelli che apparvero in grado di ottimizzare l'attività ricreativa di una società che era ad assoluta preminenza maschile, ma che allo stesso tempo era basata sul principio affatto nuovo dell'eguaglianza tra cittadini – anche se questa condizione non aveva quel carattere di universalità a cui noi oggi, almeno nei principi, aspiriamo.

Quell'eguaglianza assume espressione visiva nella topografia stessa del simposio dove infatti tutti i partecipanti si dispongono, o meglio si sdraiano, senza apparenti distinzioni di rango sulle klinai che arredano lo spazio disponibile. Come abbiamo osservato, si tratta di una discontinuità (che apparirà come irreversibile per il mondo occidentale) rispetto al banchetto orientale, dove l'assolutismo politico si esprimeva nella solitudine in cui era rappresentato il monarca nell'atto del bere. Nella misura in cui era funzionale a tale solitudine, l'ebbrezza alcolica collideva con le esigenze di socializzazione di un gruppo di eguali. Ne abbiamo ampiamente illustrato i motivi psicofarmacologici. Basti ricordare il rilascio del comportamento aggressivo, che poteva certamente servire a ribadire il potere del sovrano, o di chi per lui, nel banchetto orientale, ma che avrebbe intrinsecamente minato un simposio tra pari, trasformandolo in rissa. Al contrario, la rilassatezza e il buon umore del bere moderato e ben distribuito nel tempo contribuivano a ottimizzare l'interazione sociale positiva che è tipica dell'incontro conviviale tra pari.

Ai Greci dobbiamo dunque la scoperta delle modalità di adattare il bere alle esigenze sociali di una comunità democratica: nel loro caso, bere "a piccole coppe" vino annacquato. Dobbiamo riconoscere che anche gli Ebrei avevano adottato modalità di bevuta simili (vedi p. 58 e sgg.), ma le esigenze sociali che ne costituivano la motivazione erano profondamente diverse, se non altro perché, per quanto il contesto fosse profano, il bere degli Ebrei era sempre e comunque sotto il rigido controllo prescrittivo della religione.

Dove ci sono regole ci sono inevitabilmente violazioni, ma se queste nel mondo ebraico erano implacabilmente sanzionate, quelle del bere nel mondo greco erano trattate con molta più indulgenza. Abbiamo infatti visto come vi fossero occasioni nelle quali l'alba vedeva i partecipanti al simposio immersi nel sonno profondo conseguente agli effetti ipnotici del troppo vino, ma ciò non era evidentemente un problema sociale. Lo erano invece le allegre brigate di giovanotti ubriachi che nella notte sciamavano per la città a far danno e il precetto platonico di escludere i giovani dal vino non è quindi il frutto di moralismo bacchettone, piuttosto della consapevolezza del pericolo sociale insito nel formarsi di quello che oggi chiamiamo il branco. Non a caso infatti Platone usa l'espressione "non aggiungere fuoco al fuoco", cogliendo la vulnerabilità psicocomportamentale intrinseca a un periodo della vita biologicamente predisposto all'esplorazione dell'ambiente e al confronto con i consimili: non è forse questa l'età della riproduzione e quindi della competizione per l'accoppiamento?

Tuttavia, al di fuori della polis utopica di Platone, era evidentemente inattuabile il divieto assoluto ai giovani di accedere al vino, se, dopo tutti questi secoli, ci si trova ancora a discutere delle conseguenze nella storia di Atene del caso delle erme spezzate o di quanto sacrilego fosse stato rappresentare una parodia dei misteri eleusini; ma, in fondo in fondo, fatti di tale risonanza potrebbero benissimo essere archiviati come ragazzate di giovani ubriachi. Insomma, almeno a quell'età, Alcibiade non era un eversore, ma solo un enfant gâté a cui capitava di bere troppo e di agire secondo quella miopia alcolica nella quale ci siamo ripetutamente imbattuti.

Nella loro episodicità, queste violazioni, per quanto gravi, rappresentavano l'inevitabile prezzo che una società aperta è costretta a pagare se non vuole entrare in insanabile contraddizione con se stessa. Tra i cittadini ateniesi vigeva infatti la libera circolazione del vino e pertanto l'unica possibilità di prevenire simili episodi sarebbe stata estendere ai giovani i divieti che in maniera vessatoria colpivano le donne e gli schiavi – snaturando il principio democratico su cui si fondava la società ateniese.

La soluzione greca al problema di conciliare la libertà del cittadino con l'ordinato funzionamento della comunità è stata l'esercizio di un controllo sociale fondato su un comune atteggiamento nei confronti dell'ebbrezza alcolica: per il buon cittadino la mancanza di decoro dell'ubriaco e il suo regredire verso comportamenti disdicevoli sul piano delle relazioni sociali hanno evidentemente svolto una funzione di deterrente più che sufficiente a impedire l'uso incontrollato del vino. Che poi qualcuno qualche volta abbia violato questo codice di comportamento è cosa che, rientrando nell'ordine naturale delle dinamiche sociali, non sembra avere intaccato più di tanto il valore generale della regola.

Verrebbe da dire che il compromesso raggiunto nell'Atene di venticinque secoli fa sia lo stesso che regola il nostro attuale bere sociale: possiamo infatti affermare con una certa sicurezza che nasce in quel periodo la figura del social drinker che è oggi modello di riferimento del bere corretto sia da un punto di vista medico che socio-antropologico. Bere in piccole coppe, non bere mai la mattina e mai in solitudine: non sono forse queste le regole del bere sobrio che, oggi come allora, il social drinker applica con scrupolo?

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