Autore Jo Nesb๘
Titolo Il confessore
EdizioneEinaudi, Torino, 2014, Stile Libero Big , pag. 548, cop.fle., dim. 13,7x21,6x2,6 cm , Isbn 978-88-06-21844-7
OriginaleS๘nnen [2014]
TraduttoreMaria Teresa Cattaneo
LettoreGiovanna Bacci, 2014
Classe gialli , thriller












 

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Pagina 7

1.

Rover teneva gli occhi fissi sul bianco pavimento intonacato di quegli undici metri quadrati di cella. Si mordicchiò l'incisivo inferiore d'oro un po' troppo lungo. Era arrivato al punto piú difficile della confessione. L'unico rumore che si udiva nella cella erano le sue unghie che grattavano la madonna tatuata sull'avambraccio. Il ragazzo seduto a gambe incrociate sul letto di fronte non aveva detto una parola da quando lui era entrato. Si era limitato ad annuire e a sorridere con l'espressione beata di un Buddha, lo sguardo fisso su un punto della sua fronte. Lo chiamavano Sonny. Di lui si diceva che ancora adolescente avesse ammazzato due persone, che suo padre fosse stato un poliziotto corrotto e che avesse poteri speciali. Difficile capire se stesse ascoltando, i suoi occhi verdi e gran parte del viso erano nascosti dai capelli lunghi e sporchi, ma non era poi cosí importante. Infatti a Rover bastava ricevere l'assoluzione e l'abituale benedizione, cosí che l'indomani sarebbe potuto uscire dal carcere di massima sicurezza di Staten con la sensazione di essere purificato. Non che lui fosse religioso, ma una benedizione non poteva di certo nuocergli, visto che aveva deciso di cambiar vita e di provare a camminare sulla retta via. Inspirò profondamente:

— Credo fosse bielorussa. Minsk è in Bielorussia, vero? — Alzò lo sguardo per osservare rapidamente il ragazzo, ma questi non rispose.

— Nestor l'aveva soprannominata Minsk, — aggiunse. — E mi ordinò di ucciderla.

Il vantaggio di confessarsi da un tipo col cervello cosí devastato era che di certo non sarebbe stato in grado di memorizzare né nomi né fatti, un po' come parlare a sé stessi. Forse era per quel motivo che chi scontava la pena a Staten preferiva il ragazzo al prete o allo psicologo.

— Nestor la teneva prigioniera giú a Enerhaugen, dentro una gabbia insieme a otto altre ragazze. Alcune venivano dall'Europa dell'Est, altre erano asiatiche. Giovani. Adolescenti. Almeno spero fossero adolescenti. Ma Minsk era piú grande. Piú forte. Era riuscita a scappare, ad arrivare fino al parco di T๘yen prima che il cane di Nestor la scovasse. Un dogo argentino, hai presente?

Il ragazzo rimase impassibile, ma alzò una mano e prese a lisciarsi la barba. La manica della camicia, sudicia ed esageratamente larga, scivolò all'indietro scoprendo croste e segni di iniezione. Rover prosegui il suo racconto:

— Sono dei micidiali cani albini. Uccidono qualsiasi cosa il padrone gli indichi. E anche molto altro che non viene indicato. Beninteso, si tratta di una razza illegale in Norvegia. ศ importata dalla Cecoslovacchia da un canile di Rๆlengen che registra i cani come boxer bianchi. Io e Nestor eravamo andati là e avevamo comprato un cucciolo, pagandolo oltre cinquantamila corone in contanti. Era cosí carino che uno non si sarebbe mai immaginato che... — si interruppe di colpo. Sapeva che si stava dilungando solo per non parlare di ciò per cui era venuto.

— Comunque...

Comunque. Fissò il tatuaggio sull'altro avambraccio. Una cattedrale con due campanili. Uno per ogni condanna scontata, che comunque non avevano niente a che fare con l'episodio che stava per raccontare. Di solito forniva a un club di motociclisti armi che modificava nella sua officina. Era bravo. Troppo bravo. Cosí bravo che alla fine l'avevano notato e reclutato. E comunque cosí bravo che Nestor, quando lui era uscito dal carcere la prima volta, l'aveva accolto a braccia aperte. O meglio, l'aveva quasi soffocato col suo abbraccio. Gli aveva offerto una somma esorbitante perché fossero i suoi uomini, e non i motociclisti o altri concorrenti, ad avere le armi migliori. Per qualche mese di lavoro gli aveva dato piú denaro di quanto ne avrebbe mai visto in vita sua riparando motociclette nella sua piccola officina. Ma ciò che Nestor gli aveva chiesto in cambio era molto. Troppo.

— Lei era distesa a terra, tra i cespugli, con il sangue che le usciva a fiotti. Muta, immobile, ci fissava con gli occhi sbarrati. Il cane l'aveva azzannata e le aveva maciullato una parte del viso, le vedevi subito i denti —. Fece una smorfia. Stava per giungere al punto. — Nestor ci disse che era arrivato il momento di dare un esempio, di far capire alle altre ragazze cosa rischiavano. E che comunque Minsk era ormai inservibile, dato che il suo viso era... — deglutí. — Quindi mi chiese di finirla. In questo modo gli avrei dimostrato la mia lealtà. Avevo con me una vecchia Ruger MK II che avevo leggermente modificato. E io ero pronto a fare ciò che mi chiedeva. Davvero. Non era un problema...

Sentí che gli si seccava la gola. Quante volte gli erano tornati in mente i secondi di quella notte al parco di T๘yen, quante volte aveva rivisto la sequenza in cui lui, la ragazza e Nestor erano stati i protagonisti e gli altri i testimoni silenziosi? Persino il cane si era acquietato. Centinaia di volte? Migliaia? Eppure solo in quell'istante, la prima volta in cui raccontava ad alta voce ciò che era successo, si rese conto che non era stato un parto della sua fantasia. O, piú precisamente, sembrava che solo in quell'istante il suo corpo ne avesse preso coscienza: ecco perché aveva il voltastomaco. Inspirò profondamente attraverso il naso per placare la nausea.

— Ma non ce l'ho fatta, anche se sapevo che la ragazza sarebbe morta comunque. Erano pronti a sguinzagliare il cane, e pensai che personalmente avrei preferito di gran lunga una pallottola. Ma era come se il grilletto fosse diventato di cemento. Non riuscii a premerlo.

Gli sembrò che il ragazzo avesse fatto un debole cenno di assenso, ma non era chiaro se fosse rivolto al racconto o a una musica che sentiva solo lui.

— Nestor disse che non potevamo starcene lí in eterno, ci trovavamo pur sempre in un parco pubblico. Allora estrasse dal fodero il suo coltellino a serramanico, fece un passo in avanti, afferrò la ragazza per i capelli, le sollevò un po' la testa e le tagliò la gola come se stesse sfilettando del pesce. Il sangue usci a fiotti tre, quattro volte, poi basta, Minsk era già morta dissanguata. Ma sai cosa mi è rimasto piú impresso? Il cane. Avresti dovuto vedere come iniziò a ululare, a vedere tutto quel sangue.

Rover si chinò in avanti sulla sedia e appoggiò i gomiti sulle ginocchia. Si tappò le orecchie con le mani e prese a dondolarsi avanti e indietro.

— E io non feci niente. Rimasi li come un imbecille. Non feci un cazzo di niente. Immobile, come uno spettatore, mentre gli altri l'avvolgevano in una coperta e la mettevano in auto. La portammo su a ุstmarksetra, dove c'è la foresta. La scaricammo e la facemmo rotolare giú per una scarpata, verso il laghetto di Ulsrud. Ci sono un sacco di persone che vanno lí a passeggiare con il cane, quindi la trovarono il giorno dopo. Ed era proprio quello che voleva Nestor, no? Che il cadavere venisse scoperto, che le foto uscissero sui giornali in modo che si vedesse cosa le avevano fatto, che le ragazze imparassero la lezione.

Rover si tolse le mani dalle orecchie.

— Smisi di dormire, avevo incubi in continuazione. Sognavo la ragazza senza guancia che mi sorrideva scoprendo tutti i denti. Allora andai da Nestor e gli dissi che intendevo smettere. Che ero stufo di modificare Uzi e Glock, che volevo tornare a riparare le mie motociclette. Vivere in santa pace senza dover pensare tutto il tempo agli sbirri. Nestor mi rispose che andava bene, se n'era accorto che non avevo la stoffa del delinquente. Ma mi spiegò per filo e per segno cosa mi sarebbe successo se avessi parlato. Pensavo fossimo a posto cosí. Rifiutai tutte le offerte, anche se avevo ancora alcune Uzi che erano la fine del mondo. Ma avevo sempre la sensazione che stesse per capitarmi qualcosa, mi capisci? Che prima o poi mi avrebbero fatto la festa. Quindi mi sentii quasi sollevato quando gli sbirri mi arrestarono e mi sbatterono di nuovo dietro le sbarre, al sicuro. Si trattava di una vecchia storia in cui avevo avuto un ruolo secondario, ma avevano fermato due tizi, ed entrambi avevano raccontato che ero stato io a fornirgli le armi. Confessai su due piedi.

Rise sgangheratamente. Tossi. Si chinò in avanti:

— Fra diciotto ore uscirò di qua. Non so cosa cazzo mi aspetti. So solo che Nestor ne è informato, anche se esco con quattro settimane d'anticipo. Lui è al corrente di tutto ciò che succede qua dentro e nella polizia. Da quanto ho capito ha occhi e orecchie ovunque. Quindi mi sono detto che se voleva farmi fuori, poteva farmi ammazzare anche qui, senza aspettare che uscissi. Tu cosa ne pensi?

Attese una sua risposta. Silenzio. Sembrava che il ragazzo non avesse opinioni.

— E comunque, - prosegui, - una piccola benedizione di certo non mi farà male, vero?

Nel sentire la parola «benedizione» Sonny sembrò risvegliarsi, alzò la mano destra e gli fece segno di avvicinarsi e di inginocchiarsi. Rover si mise sul tappetino davanti al letto. Franck non consentiva a nessun altro carcerato di tenere un tappeto, era una delle norme del modello svizzero che usavano a Staten; niente oggetti superflui in cella. Potevano avere fino a venti cose. Se per esempio volevi un paio di scarpe, dovevi rinunciare a due paia di mutande o a due libri. Rover guardò il ragazzo inumidirsi le labbra secche e screpolate con la punta della lingua. Aveva una voce sorprendentemente limpida, e anche se parlò piano le sue parole si capirono benissimo:

— Tutti gli dèi della Terra e del Cielo abbiano misericordia di te e perdonino i tuoi peccati. Un giorno morirai, ma la tua anima di peccatore pentito salirà in paradiso. Amen.

Rover chinò il capo. Senti la mano sinistra di Sonny sulla sua testa calva. Il ragazzo era mancino, ma non c'era bisogno di essere dei geni per prevedere che avrebbe vissuto meno della maggior parte delle persone che non lo erano. Sarebbe potuto morire di overdose l'indomani oppure di li a dieci anni, impossibile saperlo. Però lui, Rover, non credeva a quello che dicevano sulle capacità taumaturgiche della sua mano. Né, a dire il vero, all'effetto della sua benedizione. E allora perché era andato dal ragazzo?

Mah... La religione per lui era un po' come l'assicurazione antincendio, non ci credi sul serio finché non ti serve; se però tutti sostenevano che il ragazzo era in grado di prendere su di sé le sofferenze altrui, perché rinunciare a un po' di pace interiore?

Ciò che lo lasciava sconcertato era come un tipo cosí potesse aver ammazzato a sangue freddo. C'era qualcosa che non gli tornava. Forse era vero il detto secondo cui il diavolo sa scegliersi i travestimenti migliori.

— Salām 'alaykum, - disse Sonny finendo di impartire la benedizione.

Rover rimase li seduto a capo chino. Passò la punta della lingua dietro la parete liscia del dente d'oro. Adesso era pronto? Pronto a incontrare il Creatore, se era quello il suo destino? Alzò il capo. - So che non vuoi mai essere pagato, ma...

Guardò il piede nudo del ragazzo. Vide i segni delle iniezioni nella grande vena sopra il dorso. - L'altra volta ero a Botsen, e là riuscivano tutti a procurarsi la droga, no problem, ma quello non è un carcere di massima sicurezza. Si dice invece che qui Franck sia riuscito a bloccare ogni via di accesso. Però... - Rover s'infilò una mano in tasca, - non è del tutto vero.

Tirò fuori un oggetto delle dimensioni di un cellulare, un aggeggio dorato che sembrava una pistola. Premette il mini grilletto. Ne usci una piccola fiamma.

— Ti è già capitato di vederne? Sono sicuro di sí. Di certo l'avevano già visto i poliziotti che mi hanno perquisito quando sono arrivato qua. Mi hanno detto che se mi interessava potevano procurarmi sigarette di contrabbando a poco prezzo e mi hanno lasciato tenere quest'accendino. Evidentemente non avevano dato un'occhiata alla mia fedina penale. Non è straordinario che questo Paese funzioni anche se la gente lavora con i piedi?

Rover soppesò l'accendino che aveva in mano.

- Otto anni fa ne ho fabbricati due. Non credo di esagerare quando dico che nessun altro, in questo Paese, sarebbe stato capace di fare un lavoro cosí perfetto. Ho ricevuto l'incarico da un intermediario; il cliente finale desiderava un'arma che sembrasse tutt'altra cosa, che non andasse nemmeno nascosta. Cosí mi sono inventato l'accendino. La gente ragiona in modo strano. La prima cosa a cui pensa quando se lo trova davanti, ovviamente, è che si tratti di una pistola. Ma non appena le fai vedere che lo si può usare per accendere una sigaretta, dimentica che potrebbe essere un'arma. Non esclude l'idea che possa essere uno spazzolino da denti o un cacciavite, ma di certo non una pistola. Eppure...

Rover girò una vite che si trovava nella parte inferiore del calcio.

— Si usa con due proiettili da nove millimetri. L'ho battezzata «l'ammazzacoppie» -. Rover la puntò contro il ragazzo. - Uno per te, cara... - poi la puntò contro la propria tempia. - E uno per me... - La sua risata riecheggiò solitaria nella piccola cella.

— Tornando a noi, io avrei dovuto fabbricare un solo accendino, il committente non voleva che qualcun altro conoscesse il segreto di questa mia piccola invenzione. Ma io ne feci un secondo e me lo sono portato dietro per precauzione, nel caso in cui Nestor avesse deciso di farmi fuori qui dentro. Visto però che domani esco di qua e che non mi servirà piú, lo do a te. Aspetta un attimo...

Rover tolse un pacchetto di sigarette dall'altra tasca. - L'accendino dà nell'occhio se non hai niente da fumare, non credi? - V'infilò un biglietto da visita ingiallito su cui c'era scritto «Officina Rover».

— Cosí hai il mio indirizzo, se dovessi riparare una moto o ti servisse una Uzi... Come ti ho già detto, ne ho ancora qualcuna...

La porta si apri e si udí una voce stentorea: - ศ ora di tornare in cella, Rover!

Si girò. L'agente sulla soglia aveva i pantaloni un po' calati a causa del pesante portachiavi che gli pendeva dalla cintura, seminascosto dalla pancia che debordava come della pasta in lievitazione. - Sua santità ha visite. Si direbbe da parte di un parente stretto -. L'agente proruppe in una risata cavallina, poi si rivolse alla persona che attendeva dietro di lui. - Senza offesa, vero Per?

Rover nascose la pistola e il pacchetto di sigarette sotto il piumone del ragazzo, si alzò e lo guardò un'ultima volta. Poi s'affrettò a uscire.

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Pagina 71

9.

Einar Harnes non aveva mai avuto l'ambizione di salvare il mondo, ma solo una piccola parte. Piú precisamente, la sua. Quindi aveva studiato Giurisprudenza, ma solo una piccola parte. Piú precisamente, il minimo che gli serviva per superare gli esami. Era stato assunto in uno studio legale che operava nei bassifondi del mondo avvocatizio di Oslo, vi aveva lavorato fino a superare l'esame di Stato e aveva avviato un suo studio con Erik Fallbakken, giurista di una certa età, semialcolizzato. Insieme si erano creati una nuova nicchia. Avevano accettato i casi piú impossibili, perdendoli tutti, ma, strano a dirsi, si erano guadagnati la fama di difensori dei derelitti. In quel modo si erano procurati una clientela che, quando andava bene, pagava lo studio legale Harnes & Fallbakken intorno alla data in cui lo Stato erogava i sussidi. Einar Harnes aveva capito ben presto di non operare nel settore della giustizia, ma di essere un'alternativa solo un po' piú costosa a coloro che andavano in giro a riscuotere i crediti, agli uffici degli assistenti sociali e alle cartomanti. Dietro compenso minacciava questo o quello di intentargli causa, assumeva i piú inetti della città versando loro lo stipendio minimo e quando incontrava dei clienti potenzialmente solventi pronosticava loro, senza eccezione, la vittoria in tribunale. Tuttavia aveva un unico, vero cliente, e quello era il solo motivo per cui lo studio legale continuava a sopravvivere. Non c'erano pratiche su di lui in archivio, se si poteva definire archivio il caos totale che regnava negli armadi affidati alle cure di una segretaria quasi sempre in malattia. Ma si trattava di un cliente affidabile, che di solito pagava in contanti e che raramente chiedeva fattura. Non gliel'avrebbe chiesta nemmeno per queste ore.

Sonny Lofthus era seduto sul letto con le gambe incrociate e un'assoluta disperazione negli occhi. Dalla famosa udienza erano trascorsi sei giorni ed era probabile che fossero stati giorni molto difficili. Eppure il ragazzo era riuscito a resistere piú a lungo del previsto. Il rapporto che Harnes aveva ricevuto da altri detenuti con cui aveva contatti era davvero sorprendente. Sonny non solo non aveva cercato di procurarsi della droga, ma anzi aveva rifiutato le offerte di speed e hashish. Era stato visto in palestra, dove aveva corso sul tapis roulant per due ore di fila e sollevato pesi per un'altra ora. Di notte si erano udite urla provenire dalla sua cella. Eppure aveva tenuto botta. Un drogato che per dodici anni aveva fatto uso di eroina. Harnes aveva sentito dire che l'unico modo per riuscire in un'impresa del genere era trovare un'alternativa forte quanto la droga, qualcosa in grado di stimolare e motivare quanto l'euforia data da un'iniezione. E l'elenco di chi ce l'aveva fatta non era lungo. Qualcuno aveva avuto una rivelazione religiosa, qualcun altro si era innamorato o aveva fatto un figlio. I motivi erano tutti lí. In altre parole, queste persone trovavano all'improvviso un obiettivo che dava un nuovo, diverso significato alla loro vita. Nel caso di Sonny poteva però trattarsi semplicemente dell'ultima risalita in superficie di chi sta per affogare. L'unica cosa che Einar Harnes sapeva con certezza era che il suo cliente pretendeva una risposta. Anzi, non una risposta, ma dei risultati.

— Hanno in mano dei rilievi tecnici, quindi verrai condannato comunque, che tu confessi o no. Perché prolungare questa inutile sofferenza?

Nessuna risposta.

Harnes si passò la mano con tale impeto tra i capelli pettinati all'indietro da avvertire quasi un dolore all'attaccatura. — Posso procurarti una bustina di superboy nel giro di un'ora, perché tante storie? Mi serve solo la tua firma qui —. Con l'indice indicò un punto sui tre fogli formato A4 che aveva tolto dalla valigetta e appoggiato sulle gambe.

Il ragazzo provò a inumidirsi le labbra secche e screpolate con una lingua cosí bianca che Harnes si chiese se non secernesse sale. — Grazie. Prenderò in considerazione la tua offerta.

Grazie? In considerazione? Stava offrendo della droga a un povero tossico sfinito dall'astinenza! Il ragazzo non era piú soggetto alla forza di gravità?

— Sonny, ascoltami...

— E grazie per la visita.

Harnes scosse la testa e si alzò. Il ragazzo non ce l'avrebbe fatta. Lui gli avrebbe concesso ancora un giorno, poi non ci sarebbe stato piú spazio per i miracoli.

Quando l'agente penitenziario ebbe richiuso con i chiavistelli tutte le porte alle sue spalle e lui ebbe chiesto alla reception di chiamargli un taxi, si domandò cosa avrebbe detto il suo cliente. O meglio, che cosa avrebbe fatto se lui non avesse salvato il mondo, piú precisamente la sua parte di mondo.


Geir Goldsrud si sporse in avanti sulla sedia e fissò il monitor.

— Cosa cazzo sta facendo?

— Sembra che stia chiamando qualcuno, — disse un altro agente nella sala comandi.

Goldsrud guardò il ragazzo. La lunga barba fluttuava sul torso nudo. Era salito su uno sgabello, si era messo davanti alla telecamera e picchiava con la nocca dell'indice sulla lente mormorando alcune parole incomprensibili.

— Finstad, vieni con me, — disse Goldsrud alzandosi.

Passarono davanti a Johannes che stava fregando il pavimento in corridoio. Goldsrud ripensò a una qualche scena che forse aveva visto in un film. Scesero al pianterreno, chiusero la porta, superarono la cucina ed entrarono nel corridoio, dove trovarono Sonny seduto sullo sgabello sul quale prima era salito.

Goldsrud, guardando il torso nudo e le braccia del ragazzo, notò che si era appena allenato, i muscoli e le vene guizzavano sotto la pelle. Aveva sentito dire che alcuni dei tossici piú incalliti facevano dei curl con i manubri nella palestra di pesistica prima di iniettarsi la droga. Le anfetamine e i diversi tipi di pasticche circolavano liberamente, ma Staten era una delle poche, anzi forse l'unica prigione in Norvegia in cui vigeva un certo controllo sull'introduzione di eroina. Ciò nonostante, sembrava che Sonny non avesse mai fatto fatica a procurarsi quello che gli serviva. Tranne adesso. Goldsrud si rese conto, vedendo come tremava, che il ragazzo da un po' di tempo era senza la sua medicina. Ovvio che fosse disperato.

— Aiutatemi, — sussurrò Sonny quando li vide arrivare.

— Certamente, — rispose Goldsrud strizzando l'occhio a Finstad. — Duemila per un quartino.

Era uno scherzo, ma il suo collega lo guardò con aria perplessa.

Il ragazzo scosse la testa. Anche i muscoli della gola e del collo erano in tensione. Goldsrud aveva sentito dire che Sonny era stato un wrestler promettente. Forse è proprio vero che in età adulta si riescono a riallenare nel giro di un paio di settimane i muscoli che uno ha sviluppato prima dei dodici anni.

— Chiudetemi dentro.

— Sai che non chiudiamo le celle prima delle dieci, Lofthus.

— Per favore.

Goldsrud si fece pensieroso. Succedeva a volte che i detenuti chiedessero di essere rinchiusi in cella perché, a ragione o a torto, avevano paura di qualcuno. L'angoscia era un effetto collaterale piuttosto frequente in chi aveva condotto una vita criminale. O era il contrario? Ma Sonny probabilmente era l'unico detenuto a Staten a non avere un solo nemico, anzi, a essere considerato un intoccabile. E poi non gli era mai apparso angosciato, probabilmente sapeva affrontare la tossicodipendenza meglio di molti altri sia da un punto di vista fisico che psicologico. Quindi perché mai...

Il ragazzo si grattò una crosta in uno dei punti del braccio in cui si era iniettato la droga e Goldsrud, all'improvviso, ebbe come un'illuminazione. Quelle braccia erano piene di croste. Non c'era segno di iniezioni recenti. Aveva smesso. Ecco perché voleva essere rinchiuso in cella. Era divorato dal bisogno compulsivo di assumere droga e sapeva che non sarebbe riuscito a resistere alla prossima offerta, qualunque fosse stata.

— Vieni, — gli disse Goldsrud.

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Pagina 129

14.

Johnny Puma si girò nel letto e guardò il suo nuovo compagno di stanza. Non aveva idea di chi avesse inventato l'espressione «compagno di stanza», ma li a Ila, nel pensionato, era quanto di meno azzeccato potesse esserci. «Nemico di stanza» sarebbe stato molto piú appropriato. Non c'era nessuno di quelli con cui aveva condiviso la camera che non avesse tentato di derubarlo e che lui non avesse tentato di derubare. Per questo motivo custodiva tutti i suoi averi, ovvero un portafoglio impermeabile con tremila corone e un doppio sacchetto di plastica con tre grammi di anfetamina, fissati con lo scotch all'esterno della coscia, dove la peluria era cosí fitta che se qualcuno avesse cercato di portarglieli via si sarebbe svegliato di soprassalto anche se dormiva della grossa. Perché quelli erano stati gli ingredienti della vita di Johnny Puma negli ultimi vent'anni: anfetamine e dormite. Per spiegare la personalità di uno come lui, che preferiva far festa invece di lavorare, attaccar briga e scopare invece di metter su famiglia e crescere dei ragazzini, drogarsi invece di condurre una vita tranquilla e mortalmente noiosa, erano state usate tutte le diagnosi di moda dagli anni Settanta in poi. Ma l'ultima diagnosi era stata quella definitiva. ME. Encefalomielite mialgica. Affaticamento cronico. Johnny Puma affaticato? Sembrava una barzelletta. Johnny Puma, il sollevatore di pesi, l'anima delle feste, il traslocatore piú richiesto di Lillesand, capace di tirar su da solo un pianoforte. La malattia si era manifestata con un problema a un'anca; all'inizio gli antidolorifici non avevano fatto effetto, poi erano diventati fin troppo efficaci, e da allora non aveva piú potuto farne a meno. Ormai la sua vita era un susseguirsi di lunghe giornate in cui riposava a letto alle quali si alternavano brevi, intensi periodi di attività in cui doveva canalizzare tutta l'energia per procurarsi la roba oppure il denaro per pagare il debito già enorme nei confronti del barone della droga del pensionato, un trans lituano semi operato che si faceva chiamare Coco.

E guardando la sagoma davanti alla finestra capí che anche il suo nuovo compagno di stanza si stava preparando per fare un colpo. La solita, eterna caccia infernale. La ricerca compulsiva. La lotta.

— Puoi tirare di nuovo le tende, amico?

L'altro ubbidí e la stanza ripiombò piacevolmente nell'oscurità.

— Di cosa ti fai?

— Eroina.

Eroina? Lí dentro usavano altri termini per definirla. Shit, scag, horse oppure dust. O anche boy. Oppure superboy, se si trattava della nuova polvere miracolosa che si poteva comprare giú a Nybrua da quel tipo che sembrava Pisolo, uno dei nanetti di Biancaneve. Eroina era il termine usato dai carcerati o dai pivelli. Se erano dei veri pivelli forse l'avrebbero chiamata china white, mexican mud o qualche altra stronzata che si sente nei film.

— Io te ne posso procurare di ottima e a buon mercato, non hai bisogno di andare in giro -. Johnny notò un movimento della sagoma nel buio. Aveva visto altre volte i drogati in piena crisi d'astinenza sballare solo a sentirsi promettere della droga, da alcuni test erano risultate delle modifiche del sistema dopaminergico pochi secondi prima di farsi una pera. Con una cresta del quaranta percento sulla droga che avrebbe acquistato da Hovdingen, alla stanza 306, sarebbe riuscito a comprare tre o quattro bustine di speed anche per sé. Meglio che derubare di nuovo il vicinato.

— No, grazie. Se vuoi dormire, io esco.

La voce che proveniva dalla finestra era cosí bassa e cosí carezzevole che Johnny non capiva come si potesse udirla in mezzo a quell'insistente baccano fatto di feste, urla, musica, mercanteggiamenti e traffici. Quindi il suo «compagno» stava aspettando che si addormentasse per poterlo rapinare oppure trovare la droga che si era appiccicato alla coscia con lo scotch.

— Io non dormo mai, io chiudo solo gli occhi. Hai capito, amico?

Il tizio annui. - Io esco.

Una volta che la porta si fu richiusa dietro il nuovo nemico di stanza, Johnny Puma si alzò. Ci impiegò meno di due minuti a controllare l'armadietto e il letto sopra di lui. Niente. Nada de nada. Il tipo non era quindi uno sprovveduto come sembrava, visto che si era tenuto addosso tutto.

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