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| << | < | > | >> |IndiceParte prima 5 1. L'annegamento 11 2. Il buio chiarificatore 13 3. Hong Kong 28 4. Sex Pistols 40 5. Il parco 44 6. Ritorno a casa 53 7. Forca 56 8. Snow Patral 67 9. Il tuffo Parte seconda 73 10. Sollecito 81 11. Stampata 82 12. Scena del crimine 95 13. Ufficio 103 14. Reclutamento 109 15. Luci stroboscopiche 112 16. Speed King 124 17. Fibre 133 18. La Paziente [...] |
| << | < | > | >> |Pagina 51. L'annegamentoSi era svegliata. Batté le palpebre nell'oscurità impenetrabile. Spalancò la bocca e respirò con il naso. Batté di nuovo le palpebre. Senti scorrere una lacrima, la senti sciogliere il sale lasciato da altre lacrime. La saliva non le scendeva piú in gola, il cavo orale era secco e duro. La pressione interna tendeva le guance. Era come se il corpo estraneo che aveva in bocca fosse sul punto di farle esplodere la testa. Ma che cos'era, che cos'era? Il primo pensiero concepito al risveglio era stato che avrebbe voluto sprofondare di nuovo. Sprofondare in quell'avvolgente abisso buio e caldo. L'effetto dell'iniezione che l'uomo le aveva fatto non era ancora finito, ma lei sapeva che il dolore incombeva, lo capiva dai lenti, sordi colpi che scandivano le pulsazioni e dal flusso spasmodico del sangue nel cervello. Lui dov'era? Era proprio alle sue spalle? Trattenne il respiro, rimase in ascolto. Non udí nulla, però ne percepiva la presenza. Come un leopardo. Qualcuno le aveva detto che il leopardo è talmente silenzioso da riuscire ad avvicinarsi di soppiatto al buio, a regolare il proprio respiro su quello della preda. Trattiene il fiato ogni volta che tu trattieni il fiato. Le parve di sentire il calore del suo corpo. Che cosa stava aspettando? Riprese a respirare. E in quello stesso istante le sembrò di sentire l'alito di un'altra persona sul collo. Si girò di scatto, menò un colpo con la mano ma fendette solo l'aria. Si rannicchiò, cercando di farsi piccola, di nascondersi. Inutilmente. Per quanto tempo era rimasta priva di sensi?
L'anestetico allentò la presa. Appena per una frazione
di secondo. Ma bastò a darle un assaggio, una promessa.
La promessa di quello che la aspettava.
Il corpo estraneo che lui le aveva messo davanti sul tavolo era grande come una bilia di metallo lucido, e sulla sua superficie erano incisi piccoli fori, figure e segni. Da uno dei buchi spuntava un filo rosso che terminava in un cappio: l'aveva fatta automaticamente pensare all'albero di Natale a casa dei suoi che avrebbero decorato la sera dell'antivigilia, tra sette giorni. Con palle lucide, gnomi, piccoli cesti, candele e bandierine norvegesi. Tra otto giorni avrebbero cantato Deilig er jorden, «Bella è la terra», e lei avrebbe visto gli occhi scintillanti dei nipoti mentre aprivano i suoi regali. Tutto quello che avrebbe dovuto fare in modo completamente diverso. Tutti i giorni che avrebbe dovuto vivere con molta piú intensità, con molta piú autenticità, riempiendoli di gioia, di quiete e d'amore. I luoghi che si era limitata ad attraversare, i luoghi ai quali era diretta. Gli uomini che aveva incontrato, l'uomo che doveva ancora incontrare. Il feto di cui si era sbarazzata a diciassette anni, i figli che non aveva ancora avuto. I giorni che aveva buttato via per quelli che credeva di avere davanti a sé. Poi aveva smesso di pensare a qualunque cosa, se non al coltello che lui le aveva puntato contro. E alla voce mite che le aveva detto di infilarsi la sfera in bocca. Lo aveva fatto, ovviamente. Con il cuore che le martellava nel petto aveva aperto la bocca al massimo e ci aveva ficcato la sfera, facendo in modo che il filo pendesse fuori. Il metallo aveva un sapore amaro e salato, come le lacrime. Poi si era sentita tirare la testa indietro, e l'acciaio del coltello bruciare contro la pelle quando lui glielo aveva premuto di piatto sulla gola. Il soffitto e la stanza erano illuminati da una torcia elettrica appoggiata contro la parete, in un angolo. Grigio, nudo cemento. Oltre alla lampada, nella stanza c'erano un tavolo da campeggio di plastica bianca, due sedie, due bottiglie di birra vuote, due persone. Lui e lei. Lei aveva sentito l'odore del guanto di pelle quando con un indice lui aveva tirato appena appena il cappio rosso che le pendeva dalla bocca. E subito dopo le era sembrato che la testa le scoppiasse. La sfera si era espansa e premeva forte contro l'interno delle guance. Ma per quanto spalancasse le labbra la pressione era costante. Lui le aveva esaminato la bocca aperta con un'espressione concentrata e assorta, come un dentista che controllasse di aver sistemato bene un apparecchio ortodontico. Un abbozzo di sorriso aveva lasciato intendere che era soddisfatto. Con la lingua lei aveva sentito che dalla sfera spuntavano tante piccole aste: erano quelle che premevano contro il palato, contro la carne morbida sotto la lingua, contro l'interno dei denti, contro l'ugola. Aveva provato a parlare. L'uomo aveva ascoltato pazientemente i suoni inarticolati che uscivano dalle sue labbra. E quando si era data per vinta lui aveva annuito e tirato fuori una siringa. La goccia sulla punta dell'ago aveva scintillato nella luce della lampada. Le aveva bisbigliato qualcosa all'orecchio: - Non toccare il filo. Poi l'aveva punta sul collo, di lato, e lei aveva perso i sensi nel giro di pochi secondi. | << | < | > | >> |Pagina 405. I1 parcoA Marit Olsen piaceva sciare in montagna. Ma detestava fare jogging. Detestava il fiatone che le veniva dopo appena cento metri, il tremore sismico della terra quando vi poggiava il piede, gli sguardi un po' sbalorditi delle persone a passeggio e le immagini che le apparivano quando si vedeva con i loro occhi: i doppi menti ballonzolanti, il corpo che ondeggiava di qua e di là nei rotoli della tuta e l'espressione impotente, boccheggiante come un pesce fuor d'acqua, che lei stessa aveva visto in faccia alle persone fortemente in sovrappeso che facevano moto. Questo era uno dei motivi per cui aveva scelto le dieci di sera e il parco di Frogner per le sue tre corse fisse settimanali: non c'era quasi nessuno. E quelli che c'erano, vedevano il meno possibile di lei mentre arrancava nell'assoluta oscurità tra i rari lampioni dei sentieri che attraversavano in lungo e in largo il piú grande parco della città. E tra quei pochi che la vedevano, erano comunque ancora meno a riconoscere la deputata al parlamento del Partito laburista per la circoscrizione di Finnmark. Anzi, «riconoscere» era un'esagerazione. Erano in pochissimi ad aver mai visto Marit Olsen. Quando si esprimeva - di solito a nome dei suoi conterranei - non suscitava quell'attenzione che tornava a vantaggio di certi suoi colleghi piú fotogenici. D'altro canto, non aveva né detto né fatto qualcosa di sbagliato nel corso dei suoi due mandati. Queste, almeno, erano le spiegazioni che si era data. La spiegazione del direttore del «Finnmark Dagblad», ossia che politicamente era un peso leggero, non era che un perfido gioco di parole sulla sua fisionomia. Comunque, il direttore non aveva escluso che un giorno avrebbe figurato in un governo laburista, dato che rispondeva ai requisiti piú importanti: non era istruita, non era di sesso maschile e non era di Oslo. Ebbene, quel giornalista poteva anche aver ragione sul fatto che il suo punto forte non erano i ragionamenti grandiosi, complessi e inconsistenti. Ma era una del popolo, una che sapeva come se la passavano la donna e l'uomo della strada, e poteva essere la loro voce lí, in mezzo a tutta la gente egocentrica e compiaciuta della capitale. Perché Marit Olsen non aveva peli sulla lingua. E questa era la sua grande qualità, la dote che malgrado tutto le aveva fatto fare tanta strada. Con la sua intelligenza verbale e il suo senso dell'umorismo, che gli abitanti del sud spesso definivano «nord-norvegese» e «caustico», si era assicurata la vittoria nei rari dibattiti a cui era riuscita a partecipare. Era solo questione di tempo e sarebbero stati costretti a notarla. Se almeno fosse riuscita a buttar giú qualche chilo. Secondo i sondaggi la gente aveva meno fiducia nelle persone in sovrappeso: il subconscio attribuiva questa caratteristica a una mancanza di autocontrollo. Arrivò a una salita, strinse i denti e ridusse la lunghezza delle falcate; forse, a essere sincera, passò piuttosto a una specie di camminata. Power-walking. Sí, era proprio questo. La marcia verso il potere. Il peso diminuiva, l'eleggibilità aumentava. Udí la ghiaia scricchiolare alle sue spalle e raddrizzò automaticamente la schiena, con le pulsazioni che aumentavano. Era lo stesso rumore che aveva udito mentre faceva jogging tre giorni prima. E due giorni prima ancora. Entrambe le volte qualcuno aveva corso dietro di lei per quasi due minuti, poi il rumore era sparito. L'ultima volta Marit si era girata e aveva visto una tuta e un cappuccio neri, come se quello che si allenava alle sue spalle fosse un soldato delle truppe speciali. Solo che nessuno, e tanto meno un soldato delle truppe speciali, avrebbe provato soddisfazione a fare jogging con la lentezza di Marit Olsen. Ovviamente, non poteva essere sicura che si trattasse della stessa persona, ma in qualche modo il rumore dei passi le diceva che era cosí. Mancava poco alla fine della salita e al Monolito, poi il terreno digradava dolcemente, verso casa, verso Skøyen, il marito e un rassicurante rottweiler, brutto e ipernutrito. I passi si avvicinarono. E di colpo non le fece piú tanto piacere che fossero le dieci di sera nel parco buio e deserto. Marit Olsen aveva paura di diverse cose, ma soprattutto aveva paura degli stranieri. Certo, si rendeva conto che quella fobia si scontrava con il programma del suo partito, ma in fondo avere paura di ciò che è estraneo è una saggia strategia di sopravvivenza. In quel preciso istante rimpianse di non aver votato contro tutte le proposte di legge a favore degli immigrati di cui il suo partito si era fatto promotore, di non aver parlato anche in quelle occasioni un po' di piú col suo famoso muso duro. Il suo corpo avanzava decisamente con troppa lentezza, i muscoli delle cosce bruciavano, i polmoni invocavano aria a gran voce, e si rese conto che di lí a poco non sarebbe piú riuscita a muoversi. Il suo cervello cercava di combattere la paura, cercava di dirle che non era esattamente la vittima ideale di uno stupro. La paura l'aveva spinta fino alla cima, e adesso riusciva a vedere l'altro versante del colle, in direzione di Maserud Allé. Un'automobile usci in retromarcia dal passo carraio di una villa. Ce la poteva fare, le mancavano poco piú di cento metri. Marit Olsen si mise a correre sull'erba scivolosa, giú per il pendio, riuscendo a stento a tenersi in equilibrio. Dietro di sé non udiva piú il rumore di passi, il suo respiro copriva tutto il resto. Ormai l'auto aveva raggiunto la strada, e il cambio grattò da far spavento quando il conducente tolse la retromarcia. Marit Olsen era arrivata in fondo al pendio, le mancavano pochi metri alla strada, alla salvezza dei coni di luce davanti alla macchina. Il peso considerevole del suo corpo aveva guadagnato un piccolo vantaggio durante la discesa, e adesso la spingeva inesorabilmente in avanti. A quel punto le gambe non ce la fecero piú a tenere il passo e lei cadde in avanti, sulla carreggiata, nella luce. La sua pancia, fasciata di poliestere fradicio di sudore, colpi l'asfalto, e un po' scivolando un po' rotolando Marit Olsen cadde a faccia in giú. Infine giacque immobile, con l'amaro sapore di polvere della strada in bocca e i palmi scorticati dai sassolini. Qualcuno apparve sopra di lei. L'afferrò per una spalla. Ansimando lei si girò su un fianco parandosi con le braccia. Non era un soldato delle truppe speciali, solo un anziano col cappello. La portiera dell'automobile era spalancata alle sue spalle. - Tutto a posto, signorina? - Secondo te? - chiese di rimando Marit Olsen sentendosi invadere dalla collera. - Aspetta! Io ti ho già vista! - Ma guarda un po', - disse lei, poi, scansando la mano che l'uomo aveva teso per aiutarla, si alzò in piedi ansimando. - Non partecipi a quel programma di intrattenimento? - Di questo, - rispose lei fissando l'oscurità vuota e silenziosa del parco massaggiandosi il fegato, - te ne devi strafregare, nonno. | << | < | > | >> |Pagina 19327. Buona, ladra e tirchia- Mi trovavo nei paraggi, - disse Harry. - Ma forse stavi per uscire? - No, no, - rispose Kaja sorridendo sulla porta infagottata in un piumino. - Ero seduta in veranda. Entra. Mettiti quelle pantofole là. Harry si tolse le scarpe e la segui attraverso il soggiorno. Nella veranda si sedettero ciascuno in un'enorme poltrona di legno. Lyder Sagens gate era silenziosa e completamente deserta, fatta eccezione per una solitaria auto parcheggiata. Ma al piano superiore della casa di fronte, sul lato opposto della strada, Harry intravide la sagoma di un uomo dietro una finestra illuminata. - Quello è Greger, - spiegò Kaja. - Ha ottant'anni. Se ne sta seduto là e segue tutto quello che succede in questa strada dai tempi della guerra, credo. Mi piace pensare che mi protegga. - Già, ne sentiamo il bisogno, - disse Harry tirando fuori il pacchetto di sigarette. - Di pensare che qualcuno ci protegga. - Hai il tuo Greger anche tu? - No, - rispose Harry. - Posso scroccartene una? - Una sigaretta? Kaja rise. - Ogni tanto fumo. Mi... calma, credo. - Mhm. Hai pensato a cosa farai? Cioè, quando saranno passate queste ultime quarantott'ore? Kaja scosse la testa. - Tornerò alla sezione. I piedi sulla scrivania. Ad aspettare un omicidio abbastanza irrilevante perché la Kripos non ce lo soffi. Harry estrasse due sigarette, se le infilò tra le labbra, le accese entrambe e ne porse una a Kaja. - Perdutamente tua, - disse lei ridendo. - Ehm... ehm... Come si chiamava il tipo che lo faceva? - Henreid, - rispose Harry. - Paul Henreid. - E la tipa a cui accende la sigaretta? - Bette Davis. - Gran film. Vuoi una giacca piú pesante? - No, grazie. A proposito, perché te ne stai sul terrazzo? Non è certo quella che si definirebbe una notte tropicale. Kaja alzò un libro. - Il mio cervello è piú lucido all'aria fredda. Harry lesse la copertina. - Monismo materialistico. Mhm. Mi fa venire in mente l'esame propedeutico di filosofia. - Esatto. Secondo il materialismo tutto è materia ed energia. Tutto quello che succede fa parte di un grande calcolo, di una reazione a catena, è la conseguenza di qualcosa che è già successo. - E il libero arbitrio è un'illusione? - Sí. Le nostre azioni vengono decise dalla composizione chimica del nostro cervello, che viene decisa da chi decide di fare figli con chi, che a sua volta viene deciso dalla composizione chimica del suo cervello. E cosí via. Per esempio, è possibile ricondurre tutto al Big bang o addirittura piú indietro nel tempo. Perfino il fatto che questo libro sia stato scritto, e ciò che stai pensando in questo preciso istante. - Me la ricordo questa storia, - disse Harry annuendo e soffiando il fumo nella notte novembrina. - Mi fa venire in mente il meteorologo secondo il quale sarebbe bastato avere tutte le variabili rilevanti per poter prevedere che tempo avrebbe fatto di lí all'eternità. - E potremmo impedire gli omicidi prima che fossero commessi. - E immaginare che poliziotte scroccatrici di sigarette se ne stiano sedute su verande fredde con costosissimi volumi di filosofia. Kaja rise. - Non l'ho comprato io questo libro, l'ho trovato di là in uno scaffale -. Tirò una boccata dalla sigaretta sporgendo le labbra e le andò il fumo negli occhi. - Io non compro mai i libri, li prendo in prestito. O li rubo. - Non ti ci vedo proprio come ladra. - Nessuno mi ci vede, ecco perché non mi colgono mai in flagrante, - disse lei posando la sigaretta nel portacenere. Harry si raschiò la gola. - E perché rubi? - Rubo soltanto alla gente che conosco e che se lo può permettere. Non perché sono avida, ma perché sono un po' tirchia. Quando studiavo, rubavo i rotoli di carta igienica dai gabinetti dell'università. A proposito, ti sei poi ricordato il titolo di quel libro di Fante che era tanto bello? - No. - Mandami un Sms quando ti viene in mente. Harry fece una breve risata. - Spiacente, non scrivo Sms. - E come mai? Harry si strinse nelle spalle. - Non lo so. Non mi piace l'idea. Un po' come quegli indigeni che non vogliono farsi fotografare perché sono convinti che perderebbero parte dell'anima. - Ci sono! - esclamò Kaja infervorata. - Non vuoi lasciare fonti. Tracce. Prove incontrovertibili che dimostrino chi sei. Vuoi essere sicuro di sparire, completamente. - Hai colto nel segno, - disse Harry in tono pungente e aspirò. - Vuoi rientrare? - Indicò con un cenno della testa le mani che Kaja si era infilata sotto le cosce. - No, ho soltanto freddo alle mani, - rispose lei sorridendo. - Il mio cuore è caldo. E tu? Harry guardò oltre il recinto del giardino l'auto che era parcheggiata in strada. - E io cosa? - Sei come me? Buono, ladro e tirchio? - No, io sono cattivo, onesto e tirchio. E tuo marito? Harry lo disse con voce più dura di quanto non fosse nelle sue intenzioni, come se volesse metterla a posto perché... perché cosa? Perché era seduta là, era bella, le piacevano le stesse cose che piacevano a lui e gli aveva prestato le pantofole di un uomo che faceva finta non esistesse. - Cosa? - domandò lei con un sorrisetto. - Ha i piedi grandi, se non altro, - si sorprese a dire Harry, e fu subito colto dall'impulso di sbattere la testa contro il piano del tavolo. Kaja scoppiò a ridere. La sua risata si propagò nel silenzio nero di Fagerborg che si stendeva sopra le case, i giardini, i garage. I garage. Tutti avevano il garage. In strada era parcheggiata soltanto una macchina. Ovviamente, potevano esserci mille motivi per cui era parcheggiata lí. - Non ce l'ho un marito, - rispose lei. - Allora... - Le pantofole che hai ai piedi erano di mio fratello. - E quelle sulla scala... - ... anche quelle sono del mio fratello maggiore, e stanno li perché mi illudo che un paio di scarpe da uomo numero quarantasei riescano a spaventare i malintenzionati. Lanciò un'occhiata significativa a Harry, il quale scelse di pensare che il doppio senso fosse involontario. - Quindi tuo fratello abita qui? Kaja scosse la testa. - È morto. Dieci anni fa. Questo appartamento era di mio padre. Negli ultimi anni, quando Even era iscritto all'università a Blindern, viveva qui insieme a papà. - E tuo padre? - È morto poco dopo Even. E allora io mi ero già trasferita qui, cosí ho preso possesso dell'appartamento. Kaja tirò su le gambe, appoggiò la testa contro le ginocchia. Harry guardò il suo esile collo, la nuca, dove i capelli raccolti tiravano e qualche ciocca sciolta ricadeva sulla pelle. - Pensi spesso a loro? - le chiese Harry. Kaja sollevò la testa dalle ginocchia. - Soprattutto a Even, - rispose. - Papà ci lasciò quando eravamo piccoli, e mamma viveva in una bolla tutta sua, cosí Even mi fece da madre e da padre. Mi aiutava, mi incoraggiava, mi educava, era il mio modello. Ai miei occhi non sbagliava mai. Quando due persone sono state unite come noi due, il legame non si allenta mai. Mai. Harry annui. | << | < | > | >> |Pagina 20929. KluitEra una serata insolitamente mite a Hong Kong. I grattacieli gettavano lunghe ombre su The Peak, alcune arrivavano quasi fin su alla villa dove Herman Kluit era seduto sul terrazzo con un Singapore sling rosso sangue in una mano e il telefono nell'altra. Ascoltava, e intanto guardava i fari dei serpentoni di auto avanzare come tante lucciole giú, giú in basso. Harry Hole gli era simpatico, gli era rimasto simpatico fin dal primo istante in cui aveva visto quel norvegese alto, atletico ma evidentemente alcolizzato mettere piede a Happy Valley per puntare i suoi ultimi soldi sul cavallo sbagliato. Qualcosa nel suo sguardo bellicoso, nella postura arrogante, nel linguaggio non verbale guardingo gli ricordava se stesso quando era un giovane mercenario in Africa. Herman Kluit aveva combattuto ovunque, su tutti i fronti, al servizio di quei signori che pagavano. In Angola, Zambia, Zimbabwe, Sierra Leone, Liberia. Tutti paesi dal passato fosco e il futuro ancora piú fosco. Ma non piú fosco che nel paese di cui gli aveva chiesto Harry. Il Congo. Era stato là che alla fine avevano trovato la vena d'oro. Sotto forma di diamanti. E di cobalto. E di coltan. Il capo villaggio apparteneva ai Mai-Mai, i quali credevano che l'acqua li rendesse invulnerabili, ma per il resto era un uomo assennato. In Africa non c'era niente che non si potesse accomodare con una mazzetta di banconote o, al bisogno, un carico di kalashnikov. Nel giro di un anno Herman Kluit era diventato ricco. Nel giro di tre, ricco sfondato. Una volta al mese raggiungevano la città piú vicina, Goma, e dormivano nei letti invece che sulla nuda terra della giungla, dove ogni notte una coltre di strane mosche succhiasangue si levava da buche nel terreno cosí che al risveglio si ritrovavano ridotti a cadaveri mangiucchiati. Goma. Lava nera, soldi neri, bellezze nere, peccati neri. Nella giungla la metà degli uomini si era presa la malaria, l'altra malattie di cui nessun medico bianco era a conoscenza e che andavano sotto la definizione comune di febbre della giungla. Herman Kluit era affetto da questa malattia e, sebbene lo lasciasse in pace per lunghi periodi, non se ne sarebbe mai liberato completamente. L'unico rimedio che conosceva era il Singapore sling. Quel drink gli era stato presentato a Goma, da un belga che possedeva una villa magnifica costruita, a quanto sembrava, da re Leopoldo ai tempi in cui il paese si chiamava Libero Stato del Congo ed era il campo giochi e la cassaforte personale del monarca. La villa sorgeva in riva al lago Kivu, che vantava donne e tramonti di tale bellezza da far dimenticare per un momento la giungla, i Mai-Mai e le mosche terricole. Era stato il belga a mostrare a Herman Kluit la piccola camera del tesoro del re nella cantina. Là aveva collezionato di tutto, dagli orologi piú sofisticati del mondo ad armi rare, da fantasiosi strumenti di tortura a pepite d'oro, da diamanti grezzi a teste umane imbalsamate. Ed era stato là che Kluit aveva visto per la prima volta la cosiddetta mela di Leopoldo. A quanto sembrava era stata messa a punto da uno degli ingegneri belgi del re per essere usata sui capitribú restii che si rifiutavano di rivelare dove si trovavano i diamanti. Fino ad allora avevano utilizzato i bufali. Spalmavano il capotribú di miele, lo legavano a un albero e gli mettevano vicino un bufalo rosso catturato appositamente che cominciava a leccare il miele. Tutto questo perché il bufalo aveva una lingua talmente ruvida che gli staccava la pelle e la carne. Ma catturare un bufalo richiedeva tempo, e capitava che fosse difficile fermarlo una volta che aveva cominciato a leccare. Di qui la mela di Leopoldo. Non tanto per la sua efficacia dal punto di vista strettamente tecnico come strumento di tortura, dato che per giunta impediva al prigioniero di parlare. Ma l'effetto sugli indigeni presenti, che vedevano cosa succedeva quando il responsabile dell'interrogatorio tirava la cordicella la seconda volta, era soddisfacente sotto ogni punto di vista. L'uomo successivo che si sentiva chiedere di aprire la bocca per ricevere la mela, parlava a raffica. Con un cenno della testa Herman Kluit ordinò alla sua cameriera filippina di prendere il bicchiere vuoto. - Ricordi bene, Harry, - disse Herman Kluit. - È ancora sulla mensola del mio camino. Per fortuna ignoro se sia mai stata usata. Un souvenir. Non mi fa dimenticare quel che c'è nel cuore di tenebra. È sempre utile, Harry. No, non mi risulta che sia mai stata usata altrove. Vedi, è un congegno tecnologico complicato, con tutte quelle molle e punte. Per costruirle ci vuole una lega speciale. Il coltan, esatto. Sí, certo. Molto raro. La persona da cui ho acquistato la mia mela, Eddie Van Boorst, mi ha detto che ne sono state realizzate soltanto ventiquattro, e che lui ne possedeva ventidue, di cui una d'oro a ventiquattro carati. Esatto, hanno anche ventiquattro aghi. Come facevi a saperlo? Pare che il numero ventiquattro avesse a che fare con la sorella dell'ingegnere, non ricordo in che modo. Ma forse Van Boorst me lo ha detto solo per alzare il prezzo: è belga, giusto? La risata di Kluit cedette alla tosse. Quella maledetta febbre. - In ogni caso, dovrebbe avere un prospetto su dove si trovano le mele. Abitava in una bellissima villa a Goma, nel Kivu settentrionale, quasi al confine con il Ruanda. L'indirizzo? - Kluit tossi di nuovo. - A Goma spunta una nuova strada ogni giorno, e di tanto in tanto mezza città viene sepolta dalla lava, perciò gli indirizzi non esistono, Harry. Ma l'ufficio postale sa dove trovare i musi bianchi. No, non so se viva ancora a Goma. O se sia vivo, se è per questo. In Congo l'aspettativa di vita è poco piú di trent'anni, Harry. Anche per i bianchi. E poi Goma è praticamente sotto assedio. Appunto. No, certo che non hai saputo di quella guerra. Nessuno lo ha saputo. | << | < | > | >> |Pagina 21430. Registro degli ospitiUn cartello sul muro di una modesta stazione gialla annunciava che erano arrivati a Ustaoset. Kaja consultò l'orologio per controllare che fossero in orario: 10.44. Guardò fuori. Il sole splendeva sulle distese innevate e sui monti bianchi come porcellana. A parte un grappolo di case e un albergo a tre piani, Ustaoset era vera e propria montagna brulla. Certo, era cosparsa di piccole baite e di qualche arbusto disorientato dall'alta quota, ma restava comunque una zona desolata. Accanto all'edificio della stazione, quasi sulla banchina, c'era un solitario Suv con il motore acceso. Dall'interno della carrozza sembrava che fuori non spirasse un alito di vento. Ma appena scese dal treno Kaja ebbe l'impressione che l'aria le trapassasse i vestiti: la biancheria termica, la giacca a vento, le scarpette da fondo. Una figura saltò giú dal Suv e le venne incontro. Aveva il basso sole invernale alle spalle. Kaja strizzò gli occhi. Una camminata agile, sicura di sé, un sorriso bianco e una mano tesa. Kaja si irrigidí: era Even. - Aslak Krongli, - si presentò l'uomo salutandola con una vigorosa stretta mano. - Polizia rurale. - Kaja Solness. - Fa freddo, sí. Non è come giú in pianura, eh? - Già, - rispose Kaja, ricambiando il sorriso. - Oggi non posso salire allo Håvass. C'è stata una valanga, una galleria è chiusa e dobbiamo deviare il traffico -. Senza chiedere prese gli sci di Kaja, se li mise in spalla e si diresse verso il Suv. - Però ho chiesto al custode del rifugio di accompagnarti. Odd Utmo. Va bene? - Va benissimo, - rispose Kaja, soddisfatta della soluzione. Magari cosí si sarebbe risparmiata tante domande sul perché di punto in bianco la polizia di Oslo indagasse su una persona scomparsa di Drammen. Krongli l'accompagnò per i cinquecento metri scarsi che li separavano dall'albergo. Sul piazzale coperto di neve davanti all'ingresso un uomo sedeva in sella a una motoslitta gialla. Indossava una tuta rossa, un berretto di pelo con i paraorecchie, una sciarpa legata sopra la bocca e grossi occhiali da neve. Quando alzò gli occhiali e mormorò il suo nome, Kaja notò che aveva un occhio coperto da una membrana bianca e opalescente, come se ci fosse stato versato sopra del latte. L'altro occhio la scrutò spudoratamente da capo a piedi. La postura eretta dell'uomo sarebbe potuta appartenere a un giovane mentre il suo viso era quello di un vecchio decrepito. - Kaja. Grazie per la disponibilità, nonostante il poco preavviso, - gli disse. - Mi pagano per questo, - ribatté Odd Utmo, poi consultò l'orologio, abbassò la sciarpa e sputò. Kaja vide l'apparecchio ortodontico scintillare tra i denti tinti di marrone dal tabacco da masticare. Lo sputo formò una stella nera sul ghiaccio .- Spero che tu abbia mangiato e fatto pipí. Kaja rise, ma Utmo aveva già inforcato la motoslitta e le dava le spalle. Intanto Krongli aveva infilato i suoi sci e bastoncini sotto le cinghie, fissandoli in orizzontale lungo i fianchi della motoslitta insieme a quelli di Utmo, a un fascio di cilindri che sembravano candelotti di dinamite rossi e a una carabina con cannocchiale di mira. Kaja si girò verso di lui. Il poliziotto rurale si strinse nelle spalle e le rivolse ancora una volta il suo sorriso da ragazzo. - Buona fortuna, spero che trove... Il resto della frase fu coperto dal rombo del motore della motoslitta. Kaja montò di corsa. Con sollievo vide che c'erano delle maniglie cui aggrapparsi, cosí se non altro poteva evitare di abbracciare quel vecchio decrepito dall'occhio bianco. I fumi di scarico li circondarono, poi la motoslitta parti di scatto. Utmo stava in piedi con le ginocchia leggermente piegate e usava il peso del corpo per bilanciare il veicolo: superò l'albergo, un cumulo di neve e poi si inoltrò in quella fresca salendo in diagonale su per il primo, dolce pendio. Arrivati sulla cima, da dove si godeva il panorama verso nord, Kaja vide una distesa infinita di bianco. Utmo si girò, fece un cenno interrogativo. Kaja annui per comunicargli che andava tutto bene. Poi lui accelerò. Kaja si voltò e tra gli spruzzi di neve che si alzavano dietro i cingoli vide sparire l'abitato. Aveva spesso sentito dire che le distese innevate facevano venire in mente il deserto. A lei facevano pensare ai giorni e alle notti passati con Even nella barca a vela d'altura del fratello maggiore. La motoslitta solcava il maestoso paesaggio deserto. La neve e il vento avevano cancellato di concerto i contorni, li avevano smussati, spianati fino a farlo sembrare un immenso mare in cui la grande montagna, lo Hallingskarvet, si innalzava come una minacciosa onda gigantesca. Non c'erano movimenti bruschi, la sofficità della neve e la pesantezza della motoslitta li addolcivano, li attutivano. Kaja si strofinò con prudenza il naso e le guance per accertarsi che il sangue li irrorasse a sufficienza. Aveva visto in quale stato potevano ridurre un viso congelamenti anche relativamente lievi. Il rombo monotono della motoslitta e l'uniformità tranquillizzante del paesaggio le avevano fatto venire sonno quando si riscosse di soprassalto e si accorse che il motore taceva ed erano fermi. Guardò l'ora. Il suo primo pensiero fu che il motore fosse in panne e si trovassero ad almeno quarantacinque minuti di motoslitta dalla civiltà. Quanto ci avrebbero impiegato con gli sci? Tre ore? Cinque? Non ne aveva la piú pallida idea. Utmo era già smontato e aveva tirato giú gli sci dallo scooter. - Qualche problema al... - fece per dire lei, ma si interruppe quando Utmo si rialzò indicandole la piccola conca davanti alla quale si erano fermati. - Il rifugio Håvass, - le disse. Kaja strizzò gli occhi dietro gli occhiali da sole. E, infatti, ai piedi della montagna scorse un piccolo rifugio nero. - Perché non andiamo con la motoslitta... - Perché la gente è stupida, e perciò dobbiamo avvicinarci al rifugio quatti quatti. - Quatti quatti? - domandò Kaja e si sbrigò ad agganciarsi gli sci seguendo l'esempio di Utmo. Lui indicò il fianco della montagna con il bastoncino. - Se entri in una valle cosí stretta con una motoslitta, il rumore rimbalza avanti e indietro. La neve fresca... - Valanghe, - disse Kaja. Ricordò qualcosa che le aveva detto il padre dopo uno dei suoi viaggi sulle Alpi. Che lassú durante la Seconda guerra mondiale erano morti oltre sessantamila soldati sotto le valanghe, provocate per la maggior parte dalle onde sonore del fuoco d'artiglieria. Utmo si fermò un momento e la guardò di nuovo. - Questi amanti della natura di città pensano di essere furbi costruendo i rifugi sottovento. Ma è solo una questione di tempo e la neve si prenderà anche quello. - Anche? - domandò Kaja. - Lo Håvass esiste solo da tre anni. E questo è il primo anno di vera e propria neve da slavina. E presto ne arriverà altra. Indicò verso ovest. Kaja si riparò gli occhi con la mano. Sull'orizzonte di neve vide quello a cui Utmo alludeva. Pesanti cumulonembi grigio bianchi si innalzavano in formazioni a fungo sullo sfondo azzurro. - Nevicherà per tutta la settimana, - disse lui, poi staccò la carabina dalla motoslitta e se la mise a tracolla. - Se fossi in te mi sbrigherei. Ed eviterei di gridare. Imboccarono la valle in silenzio, e Kaja sentí scendere la temperatura quando furono in ombra, dove il freddo si posava negli avvallamenti. Davanti al rifugio trattato con il mordente nero si sganciarono gli sci e li appoggiarono contro il muro. Utmo si cavò di tasca una chiave e la infilò nella toppa. - Come fanno a entrare gli ospiti? - domandò Kaja. - Comprano la chiave universale. Apre tutti e quattrocento i rifugi turistici del paese -. Utmo girò la chiave, abbassò la maniglia e spinse. Non accadde nulla. Imprecò sottovoce, puntò la spalla contro la porta e spinse. Il battente si staccò dagli stipiti con un gridolino stizzito. - Con il freddo i rifugi rimpiccioliscono, - borbottò. L'interno era semibuio e odorava di cherosene e di riscaldamento a legna. Kaja ispezionò il rifugio. Sapeva che il regolamento era semplicissimo. All'arrivo ci si iscriveva nel registro degli ospiti, si prendeva un letto, oppure un materasso se i letti erano tutti occupati, si accendeva il camino, si cucinava il cibo portato al sacco nella cucina fornita di stufa e utensili e - se si attingeva alle provviste degli armadietti - si mettevano i soldi in una cassetta. La stessa cassetta serviva per pagare il pernottamento, altrimenti si compilava la delega. Tutti i pagamenti dipendevano dal senso di responsabilità e dell'onore di ciascuno. Il rifugio aveva quattro camere da letto, ognuna esposta a nord, ognuna a quattro posti con due letti a castello. Il soggiorno era esposto a sud e ammobiliato in maniera tradizionale, ossia con pesanti mobili di pino. C'erano sia un grande camino, per l'effetto accogliente, sia una stufa, per assicurare un riscaldamento piú efficace. Kaja calcolò che al tavolo potevano stare sedute dodici, quindici persone, e il doppio a dormire, se ci si stringeva e si utilizzavano i materassi e il pavimento. Immaginò la luce delle candele e del camino guizzare su visi noti e sconosciuti mentre si chiacchierava del percorso fatto e di quello dell'indomani davanti a una birra o a un bicchiere di vino rosso. Il viso rubizzo di Even la guardò ridendo e brindò in uno degli angoli quasi completamente bui. - Il registro degli ospiti è in cucina, - disse Utmo indicando una porta. Immobile davanti all'ingresso, ancora con il berretto e i guanti indosso, aveva l'aria impaziente. Kaja posò la mano sul saliscendi e fece per aprirlo, quando ebbe un flash. Il poliziotto rurale, Krongli. La sua somiglianza era impressionante. Kaja sapeva che quel pensiero le sarebbe tornato in mente, solo che non sapeva quando. - Potresti aprirmi la porta? - domandò. - Come? - È incastrata, - rispose Kaja. - Il freddo. Chiuse gli occhi mentre lo udiva avvicinarsi. La porta si apri senza far rumore, e lei si senti addosso lo sguardo sbalordito di Utmo. Poi riapri gli occhi ed entrò. La cucina aveva un leggero odore di grasso rancido. Il cuore prese a batterle piú forte mentre il suo sguardo correva sul lavello, sugli armadietti, fino a trovare il registro rilegato in pelle nera sul piano da lavoro sotto la finestra. Era fissato al muro da una cordicella di nylon azzurra. Kaja fece un respiro profondo. Si avvicinò al registro. Lo sfogliò. Una pagina dopo l'altra di nomi scritti a mano, dagli stessi ospiti. La maggior parte aveva ottemperato alla regola di indicare la tappa successiva. - In realtà, sarei passato di qui nel fine settimana e avrei potuto controllare per voi, - risuonò la voce di Utmo alle sue spalle. - Ma non potevate aspettare, immagino.
- No, - disse Kaja scorrendo le date. Novembre. 6 novembre. 8 novembre.
Tornò indietro. Poi di nuovo in avanti. Non c'era. Il 7 novembre era sparito.
Aprí al massimo il registro. Lungo il margine spuntavano i resti del foglio
strappato. Qualcuno lo aveva preso.
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