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| << | < | > | >> |Pagina 7Sto per morire. È una sensazione assurda. Non era questo il piano, almeno non il mio piano. È anche possibile che ci stessi arrivando senza saperlo. Ma non era il mio piano. Il mio era migliore. Aveva un significato.
Sto fissando la bocca di un fucile e so che sarà da lì che arriverà. Il
messaggero. Il traghettatore. C'è tempo per un'ultima
risata. Se vedi la luce nel tunnel, forse è la luce di un fiammifero. Avremmo
potuto fare qualcosa di bello di questa vita, tu
e io. Se avessimo seguito il nostro piano. Un ultimo pensiero.
Tutti si chiedono quale sia il significato della vita, ma nessuno si chiede
quale sia quello della morte.
L'uomo anziano fece venire in mente a Harry l'immagine di un astronauta. I piccoli passi ridicoli, i movimenti rigidi, lo sguardo buio e smorto e le suole delle scarpe che si trascinavano sul pavimento. Come se avesse paura di perdere il contatto con la terra e iniziare a volare nello spazio. Harry guardò l'orologio sulla parete di mattoni bianchi. Le 15,16. Fuori dalla finestra, in Bogstadveien, la gente, in preda allo stress del venerdì, camminava rapidamente. Il sole di ottobre, basso sull'orizzonte, si riflesse nello specchietto retrovisore di un'auto che si avviò e sparì nel traffico. Harry si concentrò sull'uomo anziano. Un cappello e un elegante cappotto grigio, che aveva chiaramente bisogno di un lavaggio a secco. Sotto: una giacca di tweed, camicia, cravatta e pantaloni grigi logori con una piega affilata come un rasoio. Scarpe lucidate con talloni consunti. Uno di quei pensionati che sembravano aver colonizzato Majorstua. Non era una sua ipotesi. Harry sapeva che August Schultz aveva ottantun anni, che aveva lavorato nel settore dell'abbigliamento e che aveva vissuto a Majorstua tutta la sua vita, salvo durante gli anni della guerra, che aveva passato in una baracca ad Auschwitz. E sapeva che la rigidità delle sue ginocchia era dovuta a una caduta da una passerella su Ringveien, sulla quale stava passando di ritorno da una visita dal medico. L'impressione che fosse un automa era rinforzata dalle braccia piegate ad angolo retto a livello dei gomiti che si staccavano dal corpo. Sull'avambraccio sinistro era appeso un bastone marrone e la mano destra stringeva un modulo di bonifico bancario che l'uomo aveva già presentato al giovane con i capelli corti allo sportello due. Anche se Harry non poteva vedere il suo viso, sapeva che stava fissando l'anziano con un misto di compassione e di irritazione. Erano le 15,17 e August Schultz era finalmente arrivato. Harry sospirò. Stine Grette era seduta allo sportello numero uno. Stava contando settecentotrentatré corone per un ragazzo con un berretto blu che le aveva appena dato un avviso di pagamento. Ogni volta che Stine metteva una banconota sul bancone, il diamante sul suo anulare sinistro scintillava. Harry non poteva vederla, ma sapeva che a destra del ragazzo, davanti allo sportello numero tre, c'era una donna che cullava quasi istintivamente un passeggino per far dormire il suo bambino. La donna stava aspettando di essere servita dalla signora Brænne che, al momento, era occupata a spiegare ad alta voce all'uomo con cui parlava al telefono, che non poteva pagare con un bonifico automatico a meno che il destinatario non avesse firmato il suo accordo in quel senso, e che lei lavorava nella banca e lui no, e quindi forse potevano mettere fine alla discussione. In quello stesso istante, la porta della banca si aprì e due uomini, uno alto e uno piccolo, vestiti con tute scure identiche, entrarono rapidamente nel locale. Stine Grette alzò gli occhi. Harry guardò il suo orologio da polso e iniziò a contare. Gli uomini si diressero verso l'angolo dove Stine era seduta. L'uomo alto si muoveva come se stesse camminando fra pozze d'acqua, mentre quello più piccolo aveva l'andatura barcollante di uno che ha i muscoli più grandi di quello che il suo corpo riesce a sopportare. Il ragazzo con il berretto blu si girò lentamente e iniziò a dirigersi verso l'uscita, così occupato a contare i suoi soldi da non fare caso ai due uomini. «Salve» disse l'uomo più alto a Stine. Fece un passo in avanti e appoggiò una borsa nera sul bancone con un colpo. Il suo collega si tolse gli occhiali da sole, avanzò e mise una borsa identica vicino all'altra. «I soldi!» disse con una voce leggera. «Apri la porta!» Era come se qualcuno avesse schiacciato il tasto della pausa: tutti i movimenti si interruppero, come raggelati. L'unica cosa che indicava che il tempo non si era fermato era il traffico fuori dalla finestra. E la lancetta dell'orologio di Harry, che ora indicava che dieci secondi erano passati. Stine spinse un pulsante sotto al ripiano. Si udì uno scatto elettronico e l'uomo più piccolo spinse con un ginocchio la porta a battenti più vicina alla parete. «Dov'è la chiave?» chiese. «Forza, non abbiamo tutta la giornata!» «Helge!» gridò Stine al di sopra della spalla «Cosa?» La voce proveniva dall'interno della porta aperta dell'unico ufficio della banca. «Abbiamo visite, Helge!» Un uomo con una cravatta a farfalla e occhiali sulla punta del naso apparve sulla porta. «Questi due signori vogliono che tu apra il Bancomat» disse Stine. Helge Klementsen fissò con uno sguardo vuoto i due uomini con le tute che ora erano al di là del bancone. Quello più alto guardava nervosamente l'uscita mentre l'altro teneva lo sguardo fisso sul direttore della filiale. «Ah, sì, naturalmente» disse Helge Klementsen ansimando, come se si fosse improvvisamente ricordato di un appuntamento importante e poi emise una breve risata sonora. Harry non mosse un solo muscolo, lasciando soltanto che i suoi occhi registrassero tutti i dettagli dei movimenti e delle mimiche. Venticinque secondi. Il suo sguardo si fermò sull'orologio sopra la porta ma, con la coda dell'occhio, vide il direttore della filiale aprire il Bancomat dall'interno, estrarne due lunghe cassette metalliche e darle ai due uomini. Tutto si svolse rapidamente e in silenzio. Cinquanta secondi. «Questo è per te, papà!» disse l'uomo più piccolo prendendo dalla borsa due cassette identiche che porse a Helge Klementsen. Il direttore deglutì, fece un cenno con la testa, prese le due cassette pesanti e le mise nel Bancomat. «Buon week-end!» esclamò l'uomo più piccolo. Si raddrizzò e prese la borsa. Un minuto e mezzo. «Aspettate un attimo» li fermò Helge L'uomo più piccolo si irrigidì. Harry si succhiò le guance e cercò di concentrarsi. «La ricevuta...» disse Helge. 1 due fissarono a lungo quell'uomo con i capelli grigi. Poi, il più piccolo si mise a ridere. Una risata forte e acuta con un leggero tono isterico, un po' come le persone che ridono sotto l'effetto della droga «Non dirmi che credevi che avessimo intenzione di andarcene senza firmare! Lasciare due milioni senza ricevuta, suvvia!» «Va bene» disse Helge Klementsen «ma uno di voi stava per dimenticarsene la settimana scorsa.» «Oggi assumono troppi incompetenti per il trasporto di valuta, non è così?» scherzò l'uomo più piccolo mentre Klementsen e lui firmavano e separavano le copie. Prima di guardare nuovamente l'orologio, Harry aspettò che la porta dell'uscita si chiudesse alle spalle dei due uomini. Due minuti e dieci secondi. Attraverso il vetro delle porte, vide il furgone portavalori con la sigla «Nordea» mettersi in moto e partire. Le persone all'interno della banca ripresero a parlare. Harry non aveva bisogno di contarle ma lo fece ugualmente. Tre dietro al bancone e tre davanti, compresi il bambino e l'uomo con i pantaloni da falegname che era appena entrato, e si era seduto al tavolo al centro del locale per scrivere il suo numero di conto corrente su un modulo di pagamento che era destinato, come Harry sapeva, alla Saga Solreiser. «Arrivederci», disse August Schultz, iniziando a trascinare i piedi verso l'uscita.
Erano esattamente le 15.21.10 e fu allora che tutto ebbe
veramente inizio.
Quando la porta si aprì, Harry vide la testa di Stine Grette alzarsi dalle carte per poi abbassarsi nuovamente. Poi rialzò la testa, lentamente questa volta. Harry volse lo sguardo verso le porte. L'uomo che era entrato aveva già tirato giù la cerniera della tuta e aveva tirato fuori un fucile AG3 nero e verde oliva. Un passamontagna blu scuro gli copriva tutta la testa a parte gli occhi. Harry ricominciò a contare da zero. Come in una bambola, il berretto iniziò a vibrare nel punto in cui si trovava la bocca: «This is a robbery. Nobody moves». L'uomo non aveva parlato a voce particolarmente alta, ma nella piccola banca, calò il silenzio totale come dopo un colpo di cannone. Harry fissò Stine Grette. Al di sopra del rumore lontano delle automobili, sentì lo scatto metallico delle parti del fucile che si incastravano quando l'uomo tolse la sicura. La spalla sinistra di Stine si abbassò in modo quasi impercettibile. "È una donna coraggiosa" pensò Harry. "O forse è solo terrorizzata." Aune, l'esperto di psicologia alla scuola di polizia, aveva detto che quando la gente diventa sufficientemente terrorizzata, smette di riflettere e si comporta come se fosse stata programmata in precedenza. La maggior parte degli impiegati di una banca preme il pulsante dell'allarme antifurto silenzioso immediatamente dopo lo shock, affermava Aune, e raccontava che quando erano interrogati più tardi, non molti si ricordavano di averlo fatto scattare. Agivano come se avessero il pilota automatico. Esattamente come un rapinatore di banca che si è programmato in anticipo per sparare a tutti quelli che cercano di fermarlo, spiegava Aune. Più il rapinatore ha paura, meno sono le probabilità che qualcosa possa fargli cambiare idea. Harry non si mosse, cercando solo di concentrarsi sugli occhi dell'uomo mascherato. Azzurri. Il rapinatore lasciò cadere una borsa nera sul pavimento, fra il Bancomat e l'uomo con i pantaloni da falegname che teneva ancora la punta della penna premuta sulla carta per formare l'ultimo cerchio intorno al numero otto. L'uomo vestito di nero fece i sei passi che lo separavano dal bancone, si mise a sedere sul bordo, passò le gambe dall'altra parte e si posizionò proprio dietro Stine Grette, che era seduta in silenzio e guardava dritto davanti a sé. "Bene" pensò Harry. "Segue le istruzioni, evita di provocare una qualsiasi reazione fissando il rapinatore. L'uomo puntò il fucile contro il collo di Stine, si chinò in avanti e le mormorò qualcosa all'orecchio. La donna non era ancora in preda al panico, ma Harry poteva vedere il suo petto alzarsi e abbassarsi, era come se il piccolo corpo non riuscisse a trovare abbastanza aria sotto la camicetta bianca, diventata improvvisamente troppo stretta. Quindici secondi. La donna si schiarì la gola. Una volta. Due volte. Finalmente riuscì ad articolare un suono. «Helge. Le chiavi del Bancomat.» La voce era bassa e rauca, totalmente irriconoscibile, come se non potesse provenire dalla stessa persona che aveva pronunciato quasi le stesse parole tre minuti prima. Harry non lo vedeva, ma sapeva che Helge Klementsen aveva sentito la frase di apertura del rapinatore, ed era già sulla porta del suo ufficio. «Fai presto, altrimenti...» La voce della donna era appena percettibile e, durante la pausa che seguì, si udirono solo i tonfi delle scarpe di August Schultz sul pavimento, come un paio di fruste contro la pelle di un tamburo in un orribile lento strascico. «...mi spara.» Harry volse lo sguardo verso la finestra. Con tutta probabilità, da qualche parte lì fuori c'era un'auto con il motore acceso, ma non poteva vederla da quell'angolazione. Vedeva solo le auto e le persone che passavano, più o meno spensierate. «Helge...» La voce di Stine era supplicante. "Muoviti ora, Helge" pensò Harry. Harry conosceva bene l'anziano direttore della banca. Sapeva che aveva due barboncini reali, una moglie e una figlia incinta abbandonata di recente, che l'aspettavano a casa. Sapeva che avevano fatto le valigie e che erano pronte a partire per la loro casetta in montagna non appena Helge Klementsen fosse tornato a casa. Ma sapeva anche che, in quel momento, Klementsen si sentiva come se si trovasse sott'acqua in uno di quei sogni dove tutti i movimenti diventano lenti anche se si cerca in tutti i modi di affrettarli. E così emerse nel campo visivo di Harry. Il rapinatore aveva girato la sedia di Stine e rimaneva dietro di lei, ma ora era rivolto verso Helge. Come un bambino attanagliato dalla paura che deve domare un cavallo, Klementsen era rimasto immobile con il corpo inclinato all'indietro e con la mano con il mazzo di chiavi il più lontano possibile da sé. Il rapinatore mormorò qualcosa nell'orecchio di Stine Grette e alzò il fucile verso Klementsen che barcollò. Stine si schiarì la gola. «Dice che devi aprire il Bancomat e mettere le due cassette nella borsa nera.» Helge Klementsen fissava l'arma puntata su di lui, come ipnotizzato. «Hai venticinque secondi prima che spari. A me. Non a te.» La bocca di Klementsen si aprì e si chiuse come se volesse dire qualcosa. «Adesso, Helge» disse Stine. Il meccanismo di apertura della porta scattò e Helge Klementsen attraversò con passo pesante il locale della banca. Erano trascorsi trenta secondi dall'inizio della rapina. August Schultz era quasi arrivato alla porta di uscita. Il direttore della filiale si inginocchiò davanti al Bancomat e guardò il mazzo di chiavi. Ce n'erano quattro. «Rimangono venti secondi» disse Stine Grette. I poliziotti di Majorstua, pensò Harry. Stanno arrivando con le loro auto. Otto isolati. L'ora di punta del venerdì. Con dita tremanti, Helge Klementsen scelse una chiave e la infilò nella serratura. A metà strada, la chiave si bloccò. Helge Klementsen spinse più forte. «Diciassette.» «Ma...» iniziò Helge. «Quindici.» L'uomo tirò fuori la chiave e provò con una delle altre. Entrava nella serratura ma non poteva girare. «Ma, buon Dio...» «Tredici. È quella con l'adesivo verde, Helge.» Helge Klementsen fissò il mazzo di chiavi come se non l'avesse mai visto prima. «Undici.» La terza chiave era quella giusta. Helge Klementsen aprì la porta della cassaforte e si voltò verso Stine Grette e il rapinatore. «Devo aprire un'altra serratura per poter estrarre le cass...» «No!» gridò Stine. Helge Klementsen si lasciò sfuggire un singhiozzo mentre premeva le dita contro le punte delle chiavi come se non potesse più vedere, e come se le punte fossero segni per i ciechi per indicargli quale era quella giusta. «Sette.» Harry stava ascoltando con attenzione. Ancora nessuna sirena della polizia. August Schultz mise la mano sulla maniglia della porta per uscire. Il mazzo di chiavi cadde sul pavimento sferragliando. «Cinque» mormorò Stine Grette. La porta si aprì e il rumore della strada invase il locale della banca. In lontananza, Harry ebbe l'impressione di riconoscere un suono lamentoso che conosceva bene. Che andava su e giù. Le sirene della polizia. Poi la porta si chiuse. «Due. Helge!» Harry chiuse gli occhi e contò fino a due. «Ecco!» Helge Klementsen aveva urlato. Aveva aperto l'ultima serratura ed era rimasto accovacciato mentre faceva slittare fuori le cassette, che sembravano bloccate. «Mi lasci solo tirare fuori i soldi! Io...» In quel preciso momento fu interrotto da un urlo acuto. Harry guardò dall'altra parte del locale, dove la cliente, terrificata, fissava il rapinatore che rimaneva immobile con il fucile contro il collo di Stine. La donna strizzò gli occhi due volte e fece un cenno silenzioso in direzione del passeggino mentre le grida del bambino diventavano sempre più forti. Quando la prima cassetta si staccò dalla guida di scorrimento per poco Helge Klementsen non cadde all'indietro. Tirò verso di sé lo zaino nero. In sei secondi, aveva messo le due cassette nello zaino. Seguendo gli ordini, chiuse la cerniera e andò vicino al bancone. Il tutto conformemente alle parole di Stine Grette la cui voce ora sembrava incredibilmente chiara e calma. Un minuto e tre secondi. La rapina era finita. | << | < | > | >> |Pagina 234[...] Quando si tratta di potere, le donne non sono vanitose come gli uomini. La donna non ha bisogno di un potere visibile, vuole solo un potere che possa farle ottenere tutto ciò che vuole. Sicurezza. Cibo. Piacere. Rivincita. Libertà. La donna è una persona dal potere razionale, pianificato, che pensa oltre la battaglia, oltre la festa della vittoria. E siccome ha la capacità innata di vedere le debolezze delle sue vittime, sa istintivamente quando e dove colpire. E quando deve lasciar perdere. E questo, un uomo non può impararlo, Spiuni.»«È per questo che sei in carcere?» Raskol chiuse gli occhi, ridendo in silenzio. «Posso risponderti, ma non dovresti credere a una sola parola di quello che ti dico. Sun Zi dice che il primo principio nella guerra è la tromperie, l'inganno. Credimi, tutti gli zingari mentono.» «Crederti, come nel paradosso greco?» «Guarda, guarda, uno sbirro che ha altre conoscenze oltre alla legge penale. Se tutti gli zingari mentono, e io sono uno zingaro, dunque è vero che io mento. Perciò, la verità è che dico la verità, e quindi è vero che tutti gli zingari mentono. Dunque mento. Un cerchio logico chiuso che è impossibile rompere. Questa è la mia vita ed è l'unica cosa vera.» Si mise a ridere con una risata dolce, quasi femminile. «Va bene. Ora hai visto la mia apertura. Adesso tocca a te.» Raskol guardò Harry. Poi fece un cenno con il capo. «Mi chiamo Raskol Baxhet. È un nome albanese, ma mio padre ha sempre negato che fossimo albanesi, diceva che l'Albania era il buco del culo dell'Europa. Quindi io e i miei fratelli abbiamo imparato che eravamo nati in Romania, battezzati in Bulgaria e circoncisi in Ungheria.» Raskol spiegò che la sua famiglia apparteneva probabilmente ai Mecari, il più grande gruppo di zingari albanesi. La famiglia era fuggita dal Paese quando Enver Hoxhas aveva scatenato la persecuzione contro gli zingari. Avevano attraversato le montagne e raggiunto il Montenegro, e poi avevano proseguito verso est. «Dovunque arrivavamo, ci scacciavano. La gente sosteneva che rubavamo. Certo lo facevamo anche, ma loro non si preoccupavano neppure di trovare delle prove; l'unica prova era che eravamo zingari. Ti racconto questo perché per capire uno zingaro devi renderti conto che è nato con un marchio sulla fronte, il marchio delle caste più basse. Siamo stati perseguitati da ogni regime in tutta Europa, non c'è stata nessuna differenza fra i nazisti, i comunisti o i democratici. I nazisti erano solo un po' più efficienti. Gli zingari non hanno nessuna relazione particolare con lo sterminio perpetrato durante la Seconda guerra mondiale perché non era così diverso da quello a cui erano abituati prima. Ho l'impressione che tu non mi creda.» Harry scrollò le spalle. Raskol incrociò le braccia. «Nel 1589, la Danimarca introdusse la pena di morte per i capitribù zingari» riprese. «Cinquant'anni più tardi, gli svedesi decisero che tutti gli uomini zingari dovevano essere impiccati. In Moravia, tagliavano l'orecchio sinistro delle donne zingare, in Boemia quello destro. L'arcivescovo di Mainz proclamò che tutti gli zingari dovevano essere giustiziati in quanto il loro modo di vivere era vietato; nel 1725, in Prussia decisero che tutti gli zingari maggiori di diciotto anni dovevano essere giustiziati senza processo, ma in seguito cambiarono la legge, abbassando il limite di età a quattordici anni. Quattro dei fratelli di mio padre morirono nei lager. Uno solo di loro morì in guerra. Devo continuare?» Harry scosse il capo. «Ma anche questo è un cerchio logico chiuso» disse Raskol. «Il motivo per il quale siamo perseguitati e sopravviviamo è lo stesso. Siamo – e vogliamo essere – diversi. Nello stesso modo in cui voi non ci lasciate entrare nella vostra società, noi non lasciamo entrare i Gadzo nella nostra. Lo zingaro è l'estraneo misterioso e minaccioso di cui non si sa nulla, ma sul cui conto corrono tutti i generi di dicerie. Per molte generazioni, la gente ha creduto che gli zingari fossero cannibali. Dove sono cresciuto – a Balteni, vicino a Bucarest – la gente affermava che eravamo parenti di Caino e quindi condannati per l'eternità. I nostri vicini Gadzo ci davano denaro per tenerci lontani da loro.» Raskol lasciò scorrere lo sguardo sulle pareti senza finestre. «Mio padre era un fabbro, ma non c'era lavoro per i fabbri in Romania in quegli anni. Siamo stati costretti ad andare a vivere nella discarica fuori dalla città, dove vivevano gli zingari kalderas. In Albania, mio padre era stato bulibas, cioè il capotribù e un mediatore locale ma lì, fra gli zingari kalderas, era solo un fabbro che non aveva lavoro.» Raskol sospirò profondamente. «Non dimenticherò mai l'espressione nei suoi occhi quando è tornato a casa con un piccolo orso bruno addomesticato che tirava dietro di sé con un collare. L'aveva comprato con i suoi ultimi soldi da un gruppo di Ursari. "Sa ballare" disse mio padre. I comunisti pagavano per gli animali danzanti. Li facevano sentire meglio. Stefan, mio fratello, provò a dar da mangiare all'orso, ma l'orso non voleva mangiare, e mia madre chiese a mio padre se fosse malato. Mio padre rispose che erano venuti a piedi da Bucarest e che doveva solo riposarsi un po'. Quattro giorni dopo, l'orso morì.» Raskol chiuse gli occhi con un sorriso triste. «Quello stesso autunno, Stefan e io siamo scappati. Due bocche in meno da sfamare. Siamo andati verso nord.» «Quanti anni avevate?» «Io avevo nove anni, mio fratello dodici. Il nostro piano era di arrivare in Germania Occidentale. A quell'epoca, facevano entrare rifugiati da tutto il mondo e davano loro da mangiare, era il loro modo di espiare i peccati. Stefan riteneva che più giovani eravamo, più c'era la possibilità che ci accettassero. Ma siamo stati fermati al confine polacco. Siamo andati a Varsavia dove abbiamo passato la notte sotto un ponte, ciascuno sotto la sua coperta, all'interno della zona recintata di Wschodnias, la stazione ferroviaria occidentale. Sapevamo che lì potevamo trovare uno schlepper, qualcuno che aiuta la gente a passare di nascosto il confine con la Germania. Dopo diversi giorni di ricerca, abbiamo incontrato un uomo che parlava romani e che si faceva chiamare "guida di confine". Ci promise di farci entrare in Germania Occidentale. Non avevamo soldi per pagarlo, ma ci disse che potevamo permettercelo, conosceva alcuni uomini che pagavano bene per zingari belli e giovani. Io non capivo di che cosa stesse parlando, ma Stefan lo aveva capito immediatamente. Prese l'uomo in disparte e iniziarono a discutere a voce alta mentre la guida mi indicava. Stefan scosse la testa più volte e alla fine l'uomo aprì le braccia e si arrese. Stefan mi ordinò di aspettare il suo ritorno e accompagnò la guida in auto. Feci quello che mi aveva detto, ma le ore passavano. Arrivò la notte e mi misi a dormire. All'inizio mi svegliavo per il rumore stridente dei freni quando i treni merce entravano in stazione, ma le mie giovani orecchie impararono presto che non erano rumori per i quali dovevo stare in guardia. Quindi mi addormentai e mi svegliai soltanto quando sentii dei passi silenziosi nella notte. Era Stefan. Si infilò sotto la coperta e si strinse contro la pietra umida della volta del ponte. Lo sentivo piangere ma feci finta di niente e chiusi forte gli occhi. E dopo un po' sentivo solo i treni.» Raskol alzò la testa. «Ti piacciono i treni, Spiuni?» Harry annuì. «La guida tornò il giorno dopo. Aveva bisogno dí più soldi. Stefan lo seguì di nuovo in macchina. Quattro giorni più tardi mi svegliai al mattino presto e vidi Stefan. Era stato via tutta la notte. Era steso con gli occhi aperti a metà come faceva sempre, e potevo vedere il suo alito alzarsi nell'aria fredda del mattino. Aveva sangue all'attaccatura dei capelli e il labbro spaccato. Presi con me la coperta e andai alla stazione dove una famiglia di zingari kalderas si era installata fuori dalle toilette in attesa di partire per l'ovest. Parlai con il ragazzo più grande. Mi raccontò che l'uomo che credevamo fosse uno schlepper era un comune ruffiano che girovagava intorno alla stazione ferroviaria. Aveva offerto trenta zloty a suo padre per portare via con sé i due ragazzi più giovani. Feci vedere la coperta al ragazzo. Era spessa e morbida, l'avevamo rubata da una corda per il bucato a Lublin. Piacque al ragazzo. Dicembre era vicino. Gli chiesi se potevo vedere il suo coltello. Lo portava sotto alla camicia.» «Come sapevi che aveva un coltello?» «Tutti gli zingari hanno un coltello. Per mangiare. Nemmeno i membri di una stessa famiglia dividono le posate, possono prendersi la mahrime, essere contaminati da qualcosa. Ma il ragazzo fece un buon affare. Il suo coltello era piccolo e spuntato. Fortunatamente riuscii ad affilarlo nella fucina dell'officina delle ferrovie.» Raskol si passò l'unghia lunga e appuntita del mignolo lungo il dorso del naso. «Quella sera stessa, dopo che Stefan si era seduto nell'auto, chiesi al ruffiano se aveva un cliente anche per me. Sogghignò e mi chiese di aspettare. Quando tornò, io ero sotto il ponte e stavo guardando i treni che scivolavano dentro e fuori dalla stazione. "Vieni, sinti" gridò l'uomo. "Ho un buon cliente. Un uomo politico ricco. Vieni adesso, non abbiamo tempo!" Risposi: "Dobbiamo aspettare il treno da Cracovia". Si avvicinò e mi prese per il braccio. "Vieni adesso, hai capito?" Gli arrivavo al petto. "Eccolo che arriva" dissi puntando con il dito. L'uomo lasciò la presa e alzò la testa. La lunga carovana di vagoni in acciaio passò davanti a noi, con visi pallidi che ci fissavano. Poi arrivò quello che stavo aspettando. Lo stridore dell'acciaio contro l'acciaio quando i freni entrano in azione. Un rumore che copriva tutto.» Harry socchiuse gli occhi come se fosse più facile scoprire se Raskol stesse mentendo. «Quando gli ultimi vagoni passarono lentamente davanti a noi, vidi il viso di una donna che mi guardava da uno dei finestrini. Sembrava un fantasma. Assomigliava a mia madre. Alzai il coltello insanguinato e glielo feci vedere. E sai una cosa, Spiuni? È l'unico momento in tutta la mia vita in cui mi sono sentito assolutamente felice.» Raskol chiuse gli occhi come se cercasse di rivivere quell'istante. «Koke per koke. Testa per testa. È un'espressione albanese per la vendetta. E la sbornia migliore e più pericolosa che Dio abbia dato all'uomo.» «Cosa successe dopo?» Raskol aprì gli occhi. «Sai che cosa significa baxt, Spiuni?» «Nessuna idea.» «Destino. Successo e karma. È quello che dirige la nostra vita. Quando ho tirato fuori il portafoglio del ruffiano, conteneva tremila zloty. Stefan mi ha raggiunto, abbiamo portato il cadavere dall'altra parte delle rotaie e l'abbiamo gettato in uno dei vagoni merce in partenza verso est. Poi siamo andati verso nord. Due settimane più tardi, a Danzica, siamo saliti di nascosto a bordo di una nave che ci ha portati fino a Göteborg. Da lì, siamo arrivati a Oslo. Abbiamo trovato un pezzo di terreno a Tøyen, dove c'erano quattro roulotte. In tre di queste vivevano zingari. La quarta era vecchia, l'assale era danneggiato ed era stata abbandonata. È stata la nostra casa per cinque anni. Abbiamo festeggiato i miei nove anni alla vigilia di Natale, con biscotti e un bicchiere di latte, sotto la sola coperta che ci era rimasta. Il giorno dopo abbiamo fatto il nostro primo furto in un'edicola e ci siamo resi conto che eravamo arrivati nel Paese giusto.» Raskol sogghignò ampiamente. «Era come rubare i dolci ai bambini.» I due uomini rimasero in silenzio a lungo. | << | < | > | >> |Pagina 279Fred Baugerstad aveva mal di testa dopo la sbornia. Aveva trentun anni, era separato e aveva un lavoro duro ed esigente sulla piattaforma Statfjord B. Era un impiego difficile, dove non era neppure possibile bere una birra, ma lo stipendio era buono, nella cabina c'era la televisione, cibo di ottima qualità e la cosa migliore, dopo tre settimane di lavoro, aveva quattro settimane libere. Alcuni andavano a casa dalle loro mogli e rimanevano con lo sguardo fisso sulle pareti, alcuni guidavano un taxi o facevano lavori in casa per non crollare in depressione e altri facevano come Fred: andavano in un Paese caldo e cercavano di sbronzarsi. A volte, Fred scriveva una cartolina a Karmøy, sua figlia, o "bambina mia" come continuava a chiamarla anche se aveva dieci anni. O forse erano undici? In ogni caso, era l'unico contatto che aveva ancora con la terraferma, e bastava. L'ultima volta che aveva parlato con suo padre, questi si era lamentato di sua madre che si era di nuovo fatta beccare mentre rubava un pacchetto di biscotti per Rimi. «Prego per lei» aveva detto suo padre. Aveva chiesto a Fred se aveva con sé una Bibbia norvegese quando era all'estero. «Questo libro mi è necessario come la prima colazione, padre» aveva risposto Fred. Il che era vero in quanto Fred non mangiava mai prima di pranzo quando era a d'Ajuda. A meno che la caipirinha non si potesse definire cibo. Era una questione di definizione in quanto Fred metteva almeno quattro cucchiaini di zucchero in ogni drink. Fred Baugerstad beveva caipirinha perché aveva un gusto veramente pessimo. In Europa, la bevanda aveva una reputazione ingiustamente buona perché era fatta a base di rum o di vodka invece che di cachaca, l'acquavite di canna da zucchero brasiliana grezza e amara, che trasformava la bevuta in una penitenza che Fred credeva di meritarsi. Il suo nonno materno e quello paterno erano stati alcolisti e, con una tale predisposizione genetica, Fred pensava che la cosa migliore fosse di scegliere il peggiore dei mali e di bere qualcosa che aveva un gusto così cattivo da non permettergli di diventare dipendente. Oggi si era trascinato fino da Muhammed a mezzogiorno e aveva preso un espresso e un cognac prima di uscire e camminare lentamente nel calore estivo, lungo la strada stretta e dissestata che passava fra le piccole case basse, più o meno bianche. La casa che Fred affittava con Roger era una delle meno bianche. Le mura erano scrostate e all'interno, le pareti grigie non intonacate erano così corrose dal vento umido dell'Atlantico che, tirando fuori la lingua, si poteva sentire il gusto amaro della salsedine. D'altra parte perché avrebbe dovuto farlo! pensò Fred. La casa andava bene così com'era. Tre camere da letto, due materassi, un frigorifero, una cucina. E anche un divano e un tavolino su due blocchi di calcestruzzo nella stanza che chiamavano il "salone", in quanto la parete era dotata di un'apertura quasi rettangolare che chiamavano "finestra". Avrebbero dovuto fare le pulizie più spesso. La cucina brulicava di formiche gialle velenose con un morso che incuteva rispetto: i brasiliani le chiamavano lava pe. Da quando avevano spostato il frigorifero nel salone, però, Fred non entrava spesso in cucina. Ora era sdraiato sul divano e stava pregustando la sua prossima mossa per quel giorno quando Roger entrò. «Dove sei stato?» chiese Fred. «Alla farmacia in centro» disse Roger con un sorriso che faceva tutto il giro del suo viso largo e rubicondo. «Non puoi immaginare quello che vendono al banco lì. Cose che in Norvegia non ti danno neppure con una ricetta.» Vuotò il contenuto del sacchetto di plastica sul tavolo e si mise a leggere ad alta voce le etichette. «Tre milligrammi di denzodiazetpin. Due milligrammi di flunitrazepam. Cristo, Fred, è praticamente come il Rohypnol.» Fred non rispose. «Ti senti male?» chiese Roger. «Non hai ancora mangiato niente, non è vero?» «Não. Solo un caffè da Muhammed. Del resto, c'era un tipo strano nel bar. Stava chiedendo di Lev a Muhammed.» Roger alzò rapidamente lo sguardo dalle medicine. «Cercava Lev? Che tipo era?» «Alto, capelli biondi, occhi azzurri. Sembrava norvegese.» «Cristo, non devi spaventarmi con queste cose, Fred.» Roger continuò a leggere. «Cosa vuoi dire?» «Lascia solo che ti dica che se fosse stato alto, magro con capelli scuri, sarebbe stato il momento di svignarsela da d'Ajuda. Assomigliava a uno sbirro?» «A cosa assomiglia uno sbirro?» «Be' scordatelo, uno che fa il nostro lavoro?» «Sembrava che avesse sete. Se non altro, so a cosa assomiglia uno che ha sete.» «Okay. Forse è un amico di Lev. Pensi che dobbiamo aiutarlo?» Fred scosse il capo. «Lev ha detto che abita qui completamente in, è quella parola in latino che significa in segreto. Muhammed ha dato l'impressione di non avere mai sentito parlare di Lev. Quel tipo riuscirà a trovarlo solo se sarà Lev a volerlo.» «Scherzavo. A proposito, dov'è Lev? Non l'ho visto da diverse settimane.» «Da quello che ho sentito, doveva fare un giro in Norvegia» disse Fred, cercando di alzare la testa con cautela. «Forse ha rapinato una banca e se n'è andato» esclamò Roger, sorridendo a quel pensiero. Non perché voleva che Lev si facesse beccare, ma perché il solo pensiero di rapinare banche lo faceva sempre sorridere. Lui lo aveva fatto tre volte ed erano state esperienze molto stimolanti. Veramente, le prime due volte, si erano fatti prendere, ma l'ultima volta, aveva fatto tutto nel modo giusto. Quando descriveva quella rapina, dimenticava generalmente di parlare di una circostanza favorevole: le telecamere di sorveglianza erano temporaneamente fuori servizio, ma comunque il bottino era stato tale che ora poteva godersi il suo otium – e a volte oppium – qui a d'Ajuda. Il piccolo villaggio, situato a sud di Porto Seguro, che fino a poco tempo prima aveva ospitato la più grande selezione di individui ricercati in quel continente a sud di Bogotà. Il fenomeno era iniziato negli anni Settanta quando d'Ajuda era diventato un luogo di raduno per gli hippy e per i vagabondi che vivevano suonando per strada e vendendo gioielli e accessori in Europa durante i sei mesi estivi. Questo si traduceva in redditi supplementari molto graditi per d'Ajuda e, a dire il vero, non disturbava nessuno. Quindi le due famiglie brasiliane che detenevano il monopolio dell'industria e del commercio del villaggio, avevano concluso un accordo con il capo della polizia locale perché facesse finta di non vedere che si fumava marijuana sulla spiaggia, nei caffè, nei bar e, in seguito, anche per strada e dovunque.
Ma c'era un problema: una fonte importante di introiti
per la polizia – che riceveva solo una paga da fame dallo
stato – a d'Ajuda, come in altre città, erano le multe inflitte ai turisti per
aver fumato marijuana in pubblico e per
violazioni di leggi più o meno sconosciute. Per far sì che
sia i turisti sia la polizia potessero convivere pacificamente, le famiglie
furono perciò costrette a intervenire per
garantire alla polizia introiti alternativi. Iniziò con un
sociologo americano e il suo amante argentino, che si
occupavano della produzione e vendita locale di marijuana. Fu loro chiesto
gentilmente di pagare una commissione al capo della polizia per garantirsi la
sua protezione e per mantenere il monopolio, vale a dire che i potenziali
concorrenti furono rapidamente arrestati e consegnati alla
polizia federale con tanto di fanfara. Nel piccolo e approssimativo apparato
amministrativo il denaro circolava dall'alto al basso e tutto era libertà e
allegria fino a quando
non spuntarono tre messicani che si dichiarano disposti a
pagare una commissione superiore, e una domenica mattina, l'americano e
l'argentino furono consegnati alla polizia
federale con tanto di fanfara sulla piazza principale,
davanti al posto di polizia. Con il tempo, l'efficace sistema
che regolava il mercato dell'acquisto e della vendita della
protezione continuò a svilupparsi, e presto d'Ajuda si
riempì di criminali ricercati in tutte le parti del mondo, in
quanto lì potevano assicurarsi un'esistenza relativamente
sicura a un prezzo decisamente inferiore a quello che
avrebbero dovuto pagare alla polizia a Pattaya e in molte
altre città. Negli anni Ottanta, tuttavia, questa bella perla
quasi intatta, con le sue lunghe spiagge, í suoi tramonti
rossi e la sua marijuana eccellente, fu scoperta dagli avvoltoi turistici,
quelli con gli zaini. Erano talmente tanti e con
una tale voglia di consumare erba che le due famiglie del
posto furono costrette a riconsiderare il tasso di redditività di d'Ajuda come
rifugio per i fuorilegge. Gradualmente
i bar piacevolmente poco illuminati cambiarono, e i caffè
dove gli abitanti di d'Ajuda avevano ballato la lambada
nella vecchia cara maniera tradizionale, iniziarono a organizzare feste
Wild-Wild-Moon,
e succedeva sempre più
spesso che la polizia locale effettuasse razzie lampo nelle
case bianche più piccole, trascinando le prede che protestavano violentemente,
fino alla piazza. Ma per il momento, d'Ajuda continuava a essere uno dei posti
più sicuri dove un criminale poteva vivere in relativa tranquillità,
anche se la paranoia si era infilata sotto la pelle di tutti,
non solo di Roger.
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