Autore Jo Nesb๘
Titolo Sole di mezzanotte
EdizioneEinaudi, Torino, 2016, Stile Libero Big , pag. 204, cop.fle., dim. 13,8x21,6x1,7 cm , Isbn 978-88-06-21807-2
OriginaleMere blod [2015]
TraduttoreEva Kampmann
LettoreGiovanna Bacci, 2016
Classe gialli , thriller , noir












 

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Pagina 3

I.

Da dove vogliamo cominciare questo racconto? Mi piacerebbe poter dire dal principio. Ma il fatto è che non so dove inizi. Come tutti, non conosco i reali rapporti di causa ed effetto della mia vita.

Forse comincia dal momento in cui capii di essere solo il quarto calciatore piú bravo della classe? O da quando Basse, mio nonno, mi mostrò i disegni - fatti da lui - della Sagrada Família? O quando presi la prima boccata da una sigaretta ascoltando per la prima volta un pezzo dei Grateful Dead? O quando studiavo Kant all'università e credevo di averlo capito? O quando vendetti il primo tocchetto di hashish? Oppure ebbe inizio quando baciai Bobby - che in realtà è una ragazza - o quando vidi per la prima volta quella minuscola creatura tutta rughe che poi si sarebbe chiamata Anna urlarmi contro a squarciagola? O forse quando, avvolto nel puzzo del retrobottega del Pescatore, lui mi disse cosa voleva farmi fare? Non lo so. Ci fabbrichiamo storie con un capo e una coda, con una logica inventata per dare una parvenza di senso alla vita.

Perciò, tanto vale che cominci da qui, in mezzo alla confusione, in un luogo e in un momento in cui il destino sembrava prendersi una pausa, trattenere il respiro. Da quando, per un attimo, pensai di essere in viaggio e allo stesso tempo giunto a destinazione.


Scesi dall'autobus a notte fonda. Strinsi le palpebre per riparare gli occhi dal sole che a nord arrancava sopra un'isola al largo. Rosso e spento. Come me. Dietro, altro mare. E dietro ancora, il Polo nord. Magari lassú non mi avrebbero trovato.

Mi guardai intorno. Negli altri tre punti cardinali basse colline digradavano verso di me. Erica rossa e verde, roccia e rari gruppi di betulle stentate. A est la terra si gettava in mare piatta e pietrosa, mentre a sudovest sembrava tagliata con un coltello nel punto d'incontro. Circa cento metri sopra quella distesa d'acqua immobile partiva un vasto tavolato che si addentrava verso l'interno. L'altopiano del Finnmark. Ecco, come diceva mio nonno, quello era il limite.

Uno sterrato dal fondo indurito conduceva a un grappolo di case basse. Solo il campanile della chiesa svettava leggermente. Mi ero svegliato sull'autobus mentre superavamo un cartello con la scritta «Kๅsund», giú vicino al lago, accanto al ponte di legno. Mi ero detto: «Perché no?» e avevo tirato la cordicella davanti al finestrino, accendendo l'insegna di fermata sopra l'autista.

Mi ero infilato la giacca del completo, avevo preso la borsa di pelle e mi ero incamminato. La pistola nella tasca sbatteva sull'anca. Proprio contro l'osso, ero sempre stato troppo magro. Mi ero fermato per abbassare la cintura portasoldi sotto la camicia in modo che le banconote attutissero i colpi.

Non c'era neanche una nuvola nel cielo, e l'aria era cosí limpida che avevo l'impressione di vedere lontano. A perdita d'occhio, come si dice. Si dice pure che l'altopiano del Finnmark è bello. Una cazzata, secondo me. Non è quello che si dice a proposito dei luoghi inospitali? Per darsi un'aria brusca, di persona navigata, superba, proprio come ci si vanta di amare la musica incomprensibile o la letteratura illeggibile? Lo avevo fatto anch'io. Convinto che forse cosí sarei riuscito a compensare almeno qualcuna delle mie manchevolezze. Oppure magari vuole essere solo una consolazione per quei pochi che sono costretti a viverci: «ศ bellissimo qui». In effetti, cos'ha di tanto bello un paesaggio del genere, piatto, monotono, brullo? Sembra Marte. Un deserto rosso. Inabitabile e brutto. Il nascondiglio ideale. Sperabilmente.

Davanti a me, i rami di un gruppo di alberi lungo la strada si mossero. Poco dopo qualcuno scavalcò il fosso con un salto atterrando sul ciglio. La mia mano cercò d'istinto la pistola, ma la bloccai subito, l'uomo non era uno di loro. Sembrava un jolly uscito da un mazzo di carte.

— Buonasera! — gridò.

Mi venne incontro con uno strano passo ondeggiante, lo spazio tra le gambe arcuate talmente grande da permettermi di vedere la strada che proseguiva verso l'abitato. Quando si avvicinò notai che in testa non portava un berretto da buffone di corte, ma un copricapo sami. Blu, rosso e giallo, mancavano solo i campanellini. Indossava un paio di stivali di pelle chiara, e una giacca piumino blu cosparsa di pezzetti di nastro adesivo nero e di squarci da cui usciva un materiale giallastro piú simile a ovatta termica che a piume.

— Scusa se te lo chiedo, — disse. — Ma tu chi sei?

Era piú basso di me di almeno due teste. Aveva la faccia larga, il sorriso largo e gli occhi un po' obliqui, come un asiatico. Se si fossero messi insieme tutti gli stereotipi che gli abitanti di Oslo hanno riguardo all'aspetto di un sami, si sarebbe ottenuto quell'uomo.

— Sono arrivato con l'autobus, - risposi.

— L'ho visto. Io sono Mattis.

— Mattis, - ripetei lentamente per guadagnare qualche secondo e inventarmi la risposta alla sua successiva, inevitabile domanda.

— E tu, chi sei?

- Ulf, - risposi. Un nome buono come un altro, pensai.

— E cosa ci sei venuto a fare a Kๅsund?

— Sono solo in visita, - dissi indicando l'abitato con un cenno della testa.

— E a chi devi fare visita?

Mi strinsi nelle spalle. - A nessuno in particolare.

— Sei un guardacaccia o un predicatore?

Non so che aspetto abbiano i guardacaccia, ma scossi la testa e mi passai una mano nei capelli lunghi da hippie. Forse era il caso di tagliarli. Avrei dato meno nell'occhio.

— Scusa se te lo chiedo, - disse lui di nuovo, - ma allora, che cosa sei?

— Un cacciatore, - risposi, probabilmente perché lui aveva tirato in ballo i guardacaccia. E in un certo senso era vero e falso allo stesso tempo.

— Ah? Quindi hai intenzione di andare a caccia qui, Ulf?

— Mi sembra un bel terreno.

— Sí, però in questo caso sei in anticipo di una settimana, la caccia apre solo il quindici agosto.

— C'è un albergo qui?

Il sami rise a squarciagola. Fece il raschio e scatarrò un grumo marrone che spero fosse snus e tabacco da masticare, o roba del genere. Lo sputo colpi il suolo con un paf.

— Una pensione? - domandai.

Lui scosse la testa.

— Un bungalow? Un affittacamere?

Sul palo del telefono alle sue spalle era affisso il manifesto di una band di ballabili che doveva suonare ad Alta. Quindi quella città non poteva essere molto lontana.

— E tu, Mattis? - aggiunsi, cercando di colpire con la mano una zanzara che mi stava pungendo sulla fronte. - Non avresti un letto da prestarmi per stanotte?

— Con il mio ci ho caricato la stufa a maggio. ศ stato un mese molto freddo.

— Un divano? Un materasso?

— Materasso? - Con la mano indicò la distesa ammantata di erica.

— Ti ringrazio, ma preferisco avere un tetto sopra la testa. Magari riesco a trovare un canile abbandonato. Buonanotte -. Mi avviai verso il grappolo di case.

— L'unico canile che troverai a Kๅsund è quello là, - gridò nel caratteristico tono discendente e lamentoso dei sami.

Mi voltai. Teneva l'indice puntato verso l'edificio situato di fronte al gruppo di case.

— La chiesa?

Lui annui.

— ศ aperta anche di notte?

Mattis inclinò la testa di lato. - Lo sai perché a Kๅsund nessuno ruba? Perché a parte le renne non c'è niente da rubare.

Con un salto sorprendentemente aggraziato l'ometto grassoccio scavalcò il fosso e si incamminò a passo pesante nell'erica. Verso ovest. I miei punti di riferimento erano il sole a nord e la nozione che in qualunque parte del mondo le chiese — stando a mio nonno — hanno sempre il campanile rivolto a ovest. Riparandomi gli occhi con la mano scrutai il terreno che si stendeva davanti a Mattis. Dove diamine pensava di andare?

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Pagina 37

3.

Erano passate cento ore.

Ma tutto era cominciato molto tempo prima. Come ho già detto, non so quando. Diciamo che era cominciato l'anno precedente, il giorno in cui Brynhildsen era venuto da me nello Slottsparken. Ero stressato, avevo appena saputo che era malata.

Brynhildsen aveva una calvizie precoce, il naso rotto e un paio di baffi sottilissimi. Aveva lavorato per Hoffmann prima che il Pescatore lo rilevasse insieme al resto della sua eredità, ossia le piazze di spaccio dell'eroina, la donna e un enorme appartamento in Bygd๘y allé. Brynhildsen mi comunicò che il Pescatore mi voleva parlare e che mi dovevo presentare nella pescheria. Poi se ne andò.

Mio nonno amava i proverbi spagnoli che aveva imparato quando viveva a Barcellona e disegnava la sua versione della Sagrada Família. Uno di quelli che udivo piú spesso recitava: «Eravamo pochi in casa, e poi la nonna rimase incinta». Voleva dire piú o meno: come se non avessimo già abbastanza guai.

Comunque, l'indomani mi presentai nel negozio del Pescatore in Youngstorget. Non perché ne avessi voglia, bensí perché l'alternativa — non presentarmi — era esclusa. Il Pescatore è troppo potente. Troppo pericoloso. Tutti conoscevano la storia di quando aveva tagliato la testa a Hoffmann dicendo che quella era la fine di chi l'alzava troppo. O quella dei suoi due spacciatori che erano spariti all'improvviso dopo aver fatto la cresta su una partita. Nessuno li aveva piú visti. Secondo qualcuno, nei mesi successivi le polpette di pesce del suo negozio erano molto piú saporite. Lui non aveva fatto niente per porre fine a quella voce. ศ cosí che gli uomini d'affari come il Pescatore difendono il loro territorio, con un misto di dicerie, mezze verità e fatti concreti su cosa succede se qualcuno cerca di imbrogliarli.

Io non avevo cercato di imbrogliare il Pescatore. Ciononostante, sudavo come un tossico al terzo giorno di rota quando mi ritrovai nel suo negozio e mi presentai a una delle signore attempate dietro il banco. Non so se la donna suonò un campanello, fatto sta che il Pescatore irruppe immediatamente dalla porta a battenti alle loro spalle con un gran sorriso stampato sulla faccia, vestito di bianco da capo a piedi - berretto bianco, camicia e grembiule bianchi, pantaloni bianchi, zoccoli bianchi -, e mi tese una mano enorme e molle.

Andammo nel retrobottega. Piastrelle bianche sul pavimento e su tutte le pareti. Sui banchi lungo il muro erano allineati dei vassoi di metallo con filetti in salamoia pallidi come cadaveri.

— Mi dispiace per il cattivo odore, Jon, ma sto preparando le polpette di pesce -. Il Pescatore scostò una sedia dal tavolo di metallo al centro della stanza. - Siediti.

— Io vendo solo hashish, - dissi assecondandolo. - Niente acido o eroina.

- Lo so. Il motivo per cui ti volevo parlare è che hai ucciso uno dei miei uomini. Toralf Jonsen.

Lo fissai sbalordito. Ero morto. Mi avrebbe ridotto in polpette di pesce.

- Bravissimo, Jon. E sei stato furbo a camuffare il tuo lavoretto da suicidio, visto che tutti sapevano che Toralf era di umore un po'... cupo -. Il Pescatore strappò un pezzo di filetto e se lo ficcò in bocca. - La polizia non lo ha neppure considerato un caso di morte sospetta. Devo ammettere di aver creduto anch'io che si fosse sparato. Fino a quando una mia conoscenza nella polizia ci ha informati in via confidenziale che la pistola rinvenuta accanto al cadavere era registrata a tuo nome. Jon Hansen. Allora abbiamo indagato un po'. E la fidanzata di Toralf ci ha detto che lui ti doveva dei soldi. Che avevi cercato di farteli restituire in un paio di occasioni prima che morisse. ศ vero?

Deglutii. - Toralf fumava parecchio. Ci conoscevamo bene, eravamo amici d'infanzia, per un periodo avevamo anche condiviso un appartamento eccetera. Perciò gli avevo fatto un po' di credito -. Mi sforzai di sorridere. Mi rendevo piú o meno conto della mia faccia da scemo. - ศ sempre stupido cambiare le regole per gli amici in questo ramo, vero?

Il Pescatore ricambiò il sorriso, e sollevando un filetto di pesce per un tendine lo scrutò mentre girava lentamente nell'aria. - Non devi mai fare credito ad amici, parenti e dipendenti, Jon. Mai. Certo, gli hai concesso un po' di tempo per saldare il debito, ma in fondo sapevi che le regole vanno rispettate. Tu sei come me, Jon. Sei un uomo di sani principi. E chi ti fa un torto, non importa se piccolo o grande, deve essere punito. Che sia un latino che non conosci oppure tuo fratello. ศ l'unico modo per difendere il territorio. Perfino in un'attività di merda come quella che mandi avanti nello Slottsparken. Quant'è che guadagni? Cinquemila al mese? Seimila?

Mi strinsi nelle spalle. - Piú o meno.

— Rispetto quello che hai fatto.

— Ma...

— Toralf era un uomo molto importante per me. Era il mio esattore. E, in caso di necessità, anche il mio liquidatore. Era pronto a liquidare i cattivi pagatori. Non tutti sono pronti a fare una cosa del genere, nella società odierna. La gente è diventata cosí tenera. Ormai è possibile essere teneri e sopravvivere lo stesso. ศ... - si infilò il filetto intero in bocca, - perverso.

Mentre masticava valutai le mie possibilità. Alzarmi e uscire di corsa dal negozio, fuori, nella piazza, mi sembrò la migliore.

— Quindi, come avrai capito, mi hai messo in difficoltà, - continuò lui.

Ovviamente mi sarebbero corsi dietro e mi avrebbero preso. Ma forse, se mi avessero accoppato in mezzo alla strada, avrei evitato di finire nell'impasto delle polpette di pesce.

— Mi sono chiesto: conosco qualcuno che sia capace di fare quello che serve? Che sia capace di uccidere. Conosco solo due persone. Una è efficiente, ma le piace un po' troppo uccidere, e un piacere del genere mi sembra... - si stuzzicò gli incisivi, - perverso -. Esaminò la preda sulla punta del dito. - E poi non si taglia le unghie. E io non so che farmene di un pervertito effeminato, ho bisogno di uno che sappia parlare con la gente. Prima parlare e poi, se parlare non serve, liquidarla. Allora, quanto vuoi, Jon?

— Come, scusa?

— La domanda è: di quanto ti accontenteresti? Ottomila al mese?

Battei le palpebre.

— No? Facciamo dieci? Piú trenta di premio per eventuali liquidazioni.

— Mi stai chiedendo...

— Dodici. Accidenti, sei un osso duro. Però va bene cosí, rispetto anche questo.

Respirai con il naso. Mi aveva chiesto se volevo prendere il posto di esattore e liquidatore di Toralf.

Deglutii. E riflettei.

Quel lavoro non mi attirava.

I soldi non mi attiravano.

Ma mi servivano.

Servivano a lei.

— Dodici... - dissi. - Potrebbero andare bene.

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Pagina 87

8.

Bobby era una delle ragazze dello Slottsparken. Aveva lunghi capelli castani, due occhi miti e fumava hashish. Questa è una descrizione molto superficiale di una persona, ovvio, ma sono le prime cose che mi saltano in mente. Parlava poco, ma fumava parecchio e per questo le venivano gli occhi miti. Eravamo molto simili. In realtà si chiamava Borgny, e la sua era una famiglia ricca della zona ovest. O meglio, non era proprio ricca come lei avrebbe voluto far credere, ma le piaceva l'idea della ragazza hippie ribelle che rompeva con la tranquillità sociale, la sicurezza economica e il conservatorismo politico per... già, per cosa? Per mettere alla prova delle idee ingenue su come si potesse vivere, ampliare la coscienza e rompere con le convenzioni superate. Come quella per cui un uomo e una donna, quando fanno un figlio insieme, devono assumersi entrambi una certa responsabilità. Ripeto: eravamo molto simili.

Sedevamo nello Slottsparken ad ascoltare un tizio che suonava una versione mediocre di The Times They Are A-Changin' con una chitarra scordata, quando Bobby mi disse che era incinta. E che era quasi sicura che il padre fossi io.

«Che fico, saremo genitori», dissi sforzandomi di non dare l'impressione che qualcuno mi avesse tirato un secchio di acqua gelata in testa.

«Basta che ti impegni a pagare gli alimenti», disse lei.

«Ma io non mi tiro indietro, te lo garantisco. Siamo in due».

«In due, certo, — disse lei. — Ma non noi due».

«Eh? E chi... ehm, sarebbero i due?»

«Io e Ingvald, — rispose lei indicando con un cenno del capo il tizio con la chitarra. — Ci siamo messi insieme, e lui dice che è disposto a fare il papà. Ma a patto che tu paghi gli alimenti».

E cosí fu. O meglio, Ingvald non rimase in circolazione a lungo. Quando nacque Anna, Bobby stava con un altro tizio il cui nome cominciava per i, Ivar, mi pare. Riuscivo a vedere Anna di rado, ma non parlammo mai della possibilità che venisse a stare con me. E non credevo neanche di volerlo, allora. Non che non me ne importasse, mi ero innamorato perdutamente di lei fin dal primo istante in cui l'avevo vista. Una luce azzurra si sprigionava dai suoi occhi mentre mi guardava dal fondo della carrozzina emettendo dei gorgoglii e, anche se non la conoscevo, dall'oggi al domani divenne la cosa piú preziosa che avessi.

Forse il motivo era proprio questo. Lei, cosí piccola e fragile, era talmente necessaria che non volevo averla tutta per me. Non potevo. Non osavo. Perché avrei commesso qualche sbaglio, qualcosa di irreparabile, in un modo o nell'altro l'avrei segnata per sempre, ne ero convinto. Non che io sia una persona incosciente o sconsiderata, ma mi manca una sana capacità di giudizio. Perciò ero sempre pronto a seguire i consigli del primo venuto e a lasciare agli altri le decisioni importanti. Anche se sapevo che gli altri — in questo caso Bobby — non erano messi meglio di me. «Vigliacco», credo sia la parola che cerco. Perciò mi tenevo a distanza, vendevo l'hashish, passavo da Bobby con metà dei soldi una volta alla settimana, guardavo la magica luce azzurra degli occhi ridenti di Anna e magari Bobby mi permetteva di tenerla in braccio mentre prendevamo un caffè, nei periodi in cui lei era tra un tizio e l'altro.

Dissi a Bobby che se si fosse tenuta alla larga dallo Slottsparken e dalla droga, io mi sarei tenuto alla larga dagli sbirri, dal Pescatore e dai guai. Perché per lei e Anna sarebbe stato un problema se fossi finito in galera. Come ho già accennato, i genitori di Bobby non erano ricchi, tuttavia possedevano abbastanza grandiosità borghese per dichiarare che si rifiutavano categoricamente di avere a che fare con la loro figlia hippie spinellata e promiscua, e che lei e il padre della bambina — all'occorrenza con l'aiuto dello Stato — se la dovevano sbrigare da soli.

Poi, un giorno, Bobby disse che non reggeva piú quella cazzo di bambina. Anna aveva pianto, le era uscito il sangue dal naso e aveva la febbre da quattro giorni. Quando abbassai lo sguardo sul lettino, la luce azzurra aveva ceduto il posto a due cerchi blu sotto gli occhi, era pallida e aveva degli strani, grossi lividi sulle ginocchia e sui gomiti. La portai al pronto soccorso, e tre giorni dopo arrivò la sentenza. Leucemia acuta. Una strada a senso unico verso la morte. I medici le diedero quattro mesi. Tutti dissero sono cose che capitano, il fulmine che si abbatte a casaccio, arbitrariamente, sconsideratamente, assurdamente.

Andai su tutte le furie, mi informai, telefonai, controllai, mi consultai e alla fine scoprii che in Germania esisteva una terapia per la leucemia. Non salvava tutti, neanche da lontano, e per di piú costava un capitale, però una cosa la dava: speranza. Saggiamente, lo Stato norvegese aveva altro che delle esili speranze per cui spendere i suoi soldi. E i genitori di Bobby dissero che era destino o, al limite, una questione di pertinenza del servizio sanitario nazionale, loro non erano disposti a pagare una cura immaginaria messa a punto nella patria dei nazisti. Feci due conti. Anche se avessi quintuplicato le mie vendite di hashish, non avrei fatto in tempo. Ma ci provai lo stesso, facevo turni di diciotto ore spacciando come un pazzo, ritirandomi verso il duomo quando il traffico dello Slottsparken diradava durante la notte. Quando tornai in ospedale mi chiesero perché nessuno di noi due fosse venuto per tre giorni.

«Bobby non è venuta?»

L'infermiera e il medico scossero il capo dicendo che avevano provato a chiamarla, ma a quanto sembrava le avevano staccato il telefono.

Passai da Bobby e la trovai a letto; mi disse che stava male, e che era colpa mia se non aveva i soldi per pagare le bollette. Andai in bagno e stavo per buttare un mozzicone nel cestino quando vidi un batuffolo di ovatta insanguinato. Forse mi ero aspettato che succedesse, avevo visto anime piú sensibili di Bobby superare quel limite.

E allora, cosa feci?

Niente.

Lasciai Bobby dov'era, cercai di convincermi che Anna stesse meglio con le infermiere che con sua madre o suo padre, e intanto vendevo hashish e mettevo da parte i soldi per quella maledetta cura miracolosa in cui mi costringevo a credere perché l'alternativa era insopportabile, perché la paura che la bimba con la luce azzurra nello sguardo morisse era ancora peggio della mia personale paura di morire. Perché prendiamo la consolazione là dove riusciamo a trovarla: in una rivista medica tedesca, in una siringa di eroina, in un libro con un supplemento recentissimo che ti promette la vita eterna a patto che ti sottometta al nuovo salvatore che ti è appena stato presentato. E cosí vendevo hashish e contavo i soldi e i giorni.

Ecco, questo era lo stato dell'arte quando ricevetti la proposta di lavoro dal Pescatore.

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