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| << | < | > | >> |Pagina 7Primo pianoQuello che sto cercando di dirti è che, al di là della sorpresa, c'era un'altra questione di cui io e Ayelet non osavamo parlare: il fatto che in qualche modo sapevamo - dovrei dire sapevo - che poteva succedere. I segnali erano li da sempre, ma preferivo ignorarli. Troppo comodo, una coppia di vicini che ti tengono la bambina. Pensaci. Cinque minuti prima di uscire la prendi cosí com'è, senza borse, senza carrozzina, bussi alla porta di fronte, e sei a posto. Lei è contentissima di andare da loro. Loro sono contentissimi di accoglierla. E tu sei contentissimo di poter fare i cavoli tuoi. Ovviamente costa meno di una baby-sitter. Sono cose imbarazzanti da dire, ma oggi non intendo censurare niente, ti racconto tutto. Tu però mi prometti di non utilizzarlo in uno dei tuoi libri. Affare fatto? Una coppia come loro, due pensionati, non ha la minima idea del prezzo di un'ora di babysitteraggio sul mercato. Non si passano la voce come le altre baby-sitter, perciò puoi fissare il prezzo che ti pare. L'abbiamo deciso noi: venti shekel all'ora. Nove anni fa poteva sembrare ragionevole. Un compenso basso, ma ragionevole. Nel frattempo, il prezzo di un'ora nella nostra zona è salito a quaranta, e noi siamo rimasti a venti. Ogni tanto Ayelet mi ricordava, dobbiamo aumentare, lo sai. E io rispondevo, chiaro, aumentiamo. Ma siamo rimasti a venti. Loro non hanno mai chiesto. Sono persone educate, arrivati in Israele dalla Germania, lui gira in giacca e cravatta, lei insegna pianoforte al conservatorio e usa espressioni come "di grazia". Se anche avessero voluto chiedere qualcosa, l'orgoglio gliel'avrebbe impedito. E noi ci siamo detti - magari non l'abbiamo confessato ad alta voce, ma l'abbiamo pensato: con la vita noiosa che si ritrovano, hanno solo da ringraziare. Dovrebbero pagarci loro per il privilegio di godersi Ofri. Non ricordo quanto aveva esattamente la prima volta che l'abbiamo lasciata da loro, di sicuro era piccolissima. Quanto ci vuole per ricominciare a fare sesso dopo che una donna ha partorito? Un mese? Un mese e mezzo? È iniziata cosí, per il sesso. Al nono mese Ayelet ha avuto la gestosi. Non la potevo toccare. Un mese dopo il parto sanguinava ancora. Io ero arrapatissimo, bruciavo dalla voglia. Come gli angoli dei bigliettini d'auguri che preparavamo da ragazzi, ti ricordi? Mai successo niente del genere. Mi capitava di trovarmi, durante un incontro di lavoro, a fissare una cliente e immaginare di acchiapparla, trascinarla in bagno e strapparle i vestiti. E le donne questa fame la captano. In quel periodo le donne mi perseguitavano. Tutte a provarci, e io non sono esattamente Brad Pitt. L'istruttrice di spinning mi mandava sms da non credere. Alla prima occasione te li mostro. Ma mi sono controllato. Mi sono morso forte le labbra, e Ayelet ha apprezzato. Non me l'ha detto, "apprezzo", non dice cose del genere. Però mi ripeteva di continuo: mi mancano le tue carezze, mi mancano quanto mancano a te. Poi una sera ha proposto: lasciamola per qualche minuto da Hermann e Ruth. E mi ha sfiorato la spalla con un dito, piano. Il nostro segnale. L'idea è stata sua. Sicuro. La prima volta l'iniziativa l'ha presa Ayelet. Siamo andati insieme, abbiamo bussato alla loro porta e abbiamo chiesto se potevano tenere Ofri per qualche minuto. Secondo me hanno capito esattamente di cosa si trattava. L'urgenza. Sono una di quelle coppie che sta insieme da una vita, e si vede che fra loro c'è ancora fuoco. Hermann è alto, diritto. Ha l'aria del cancelliere tedesco. E Ruth ha i capelli bianchi e lunghi, sempre raccolti in una coda di cavallo: non sembra una vecchia, piú una donna matura. Ha chiesto ad Ayelet quando Ofri aveva mangiato per l'ultima volta, e Ayelet ha risposto che non doveva essere affamata, e comunque sarebbe rimasta con loro solo per qualche minuto. Poi ha chiesto se usava il ciuccio e che le lasciassimo un pannolino, per ogni evenienza. Dopodiché Hermann si è messo a fare rumoretti buffi a Ofri e le ha fatto il solletico alla pancia con la punta della cravatta. Ofri gli ha sorriso. A quell'età i sorrisi sono istintivi, non veri, lo sai. Ma ho ugualmente detto ad Ayelet: guarda come gli sorride. E Ruth ha commentato, i bambini adorano Hermann. Devi capire: Ofri non era disposta a stare con chiunque. Da piccola, piangeva perfino con la nonna. Ma come l'abbiamo messa in braccio a Ruth le si è acciambellata addosso, le ha posato la testa sul petto e ha giocherellato con i suoi capelli lunghi. Ruth ha detto, shh, shh, shh, le ha accarezzato la guancia, e Ayelet si è chinata all'altezza di Ruth e ha detto a Ofri, torniamo fra qualche minuto, d'accordo, amore? Ofri l'ha fissata con il suo sguardo saggio e poi l'ha posato su di me. Sembrava stesse per piangere, invece no. Si è solo rannicchiata piú comodamente sul petto di Ruth, la quale ci ha invitati: di grazia, andate a cuor leggero, abbiamo cresciuto tre figli e cinque nipoti, e Ayelet ha ripetuto di nuovo, è solo per pochi minuti e ha dato un'ultima carezza a Ofri, sulla guancia. Appena la porta dell'appartamento si è chiusa alle nostre spalle, le ho messo la mano sul culo, ma lei si è bloccata e ha detto: aspetta, non senti piangere? Siamo rimasti immobili ad ascoltare ma, a parte il solito rumore di mobili trascinati dalla vedova del piano di sopra, non si sentiva niente. Abbiamo aspettato ancora un attimo per sicurezza, poi Ayelet mi ha preso la mano e mi ha detto, di grazia, tralasciamo i preliminari, sei d'accordo? E mi ha trascinato in camera da letto. | << | < | > | >> |Pagina 72Secondo pianoCiao Neta, questa lettera ti stupirà senz'altro. È molto che non ci parliamo, e poi chi scrive lettere oggi? Ma una mail sarebbe troppo pericolosa (fra un attimo capirai perché) e per la verità non ho nessun altro con cui confidarmi. Ho provato a mettermi in contatto con la mia psicologa. Quella da cui andavo allora, ricordi? Avevamo un buon feeling. In fin dei conti è sempre una questione di feeling, anche con gli psicologi. Arrivavo devastata nello studio, nel seminterrato di casa sua, e uscivo altrettanto devastata, ma un po' meno terrorizzata. Non ripeteva i soliti cliché: Es, ego, sua madre, lei come se la vive e mi parli della sua esperienza. Era diretta, mi parlava col cuore in mano, a volte mi raccontava persino qualche piccolo episodio personale, se sforavamo i nostri cinquanta minuti non faceva troppe storie, e a fine sessione mi posava la mano sulla spalla (mi toccava proprio!); per tutti questi anni mi sono sempre detta che se mai avessi perso di nuovo l'equilibrio, avrei saputo a chi telefonare. Mi ha risposto suo figlio. Ho chiesto se era possibile parlare con Michaela. È seguito un silenzio. Lungo. Poi mi ha detto: è morta. Due anni fa. Di cosa? Ho chiesto. Di cancro. Non sapevo cosa dire. Ho detto: scusami. Ho detto: condoglianze. Lui ha detto, sí. Ho detto, tua madre era una donna molto speciale. Lui ha detto, sí.
Ovviamente sapeva che ero stata sua paziente. Doveva essere abituato a
telefonate del genere, di ex pazienti, e di certo aspettava con ansia di
terminare la conversazione.
Sono rimasta in piedi con il telefono in mano anche dopo che abbiamo riattaccato, ad ascoltare i suoni che seguono l'interruzione. Che impertinente, ho pensato, a morirsene cosí. Per tutta la settimana che aveva preceduto la chiamata mi ero immaginata di sprofondare davanti a lei nella poltrona morbida, ai nostri piedi lo spesso tappeto bordò e fra di noi il fornellino elettrico che funzionava male come sempre. La mia fantasia le aveva aggiunto qualche capello bianco (dopotutto erano trascorsi quindici anni), ma le avevo lasciato il brutto maglione marrone, gli occhiali troppo grandi e le caramelle Werther's Original che posava in un piattino all'inizio della seduta dicendo che a seconda di quante ne avrei scartate avrebbe saputo come stavo veramente. Avevo già pronta la frase d'esordio. Intelligente. Mi ero già figurata lo svolgimento della conversazione, le pause di silenzio, il momento in cui avrebbe ovviamente associato le mie paure per Liri e mia madre, il momento in cui sarei scoppiata in un pianto liberatorio e lei mi avrebbe porto un fazzolettino leggermente profumato, il momento in cui avrebbe gettato uno sguardo veloce all'orologio dietro di me, sulla sinistra, il momento in cui avrei tirato fuori un assegno e chiesto se il prezzo restava invariato, e la sua mano che si sarebbe posata sulla mia spalla, sostenendola, prima di salutarci, i miei passi veloci, decisi, dalla porta del suo seminterrato attraverso il giardino in fiore fino al parcheggio, poi il tragitto lento tra le colline, fino alla superstrada, mentre la radio trasmetteva una delle mie canzoni preferite (Neil Young, per dirne una, in Out on the Weekend) e io ero di nuovo abbastanza aperta da lasciare che la musica entrasse, mi smuovesse il sangue... Invece, niente giardino e niente Neil Young. È bastata una telefonata per ributtarmi in fondo alla scala, al punto di partenza:
Sta succedendo una cosa, Neta, una cosa che non
posso raccontare a nessuno. Ma devo, devo assolutamente, raccontare a qualcuno.
Sono arrivata al punto di andare in cerca di una chiesa con un confessionale. Ho guidato fino alla Colonia americana. Ti ricordi che Nomi – era il periodo in cui lavorava per l'Associazione per la protezione della natura e diceva sempre "magico" di tutto – ci ha portate a fare una visita guidata e alla fine siamo arrivate a una chiesa di lavoratori stranieri? Ecco, questa settimana ho girovagato per un paio d'ore senza trovarne traccia. Alla fine ho chiesto a un ragazzo che passava in bicicletta (proprio il tuo tipo, un po' di barba e spalle larghe), e lui ha detto che in effetti una chiesa c'era, ma un anno fa l'hanno demolita con i bulldozer per costruire un palazzone di uffici. Era proprio davanti a noi. Pensavo che le chiese fossero eterne, gli ho detto. Lui ha annuito senza capire ed è ripartito di gran carriera (i ragazzi giovani ormai nemmeno ci vedono piú, l'hai notato? Ma forse non è il tuo caso, e quando si tratta di te ci vedono benissimo?) e di colpo, mi si sono sgonfiate le vele. Lo so. Avrei potuto continuare a cercare fino a trovare. Ma negli ultimi tempi sono cosí. Rinuncio facilmente. "Questa non è la Hani che conosco". Riesco proprio a sentirti mentre lo pensi, o addirittura lo dici ad alta voce nel tuo salotto a Middletown. Forse è proprio per questo che ti scrivo. Perché ti ricordi della versione migliore di me. Mi basta scrivere il tuo nome in cima alla pagina per sentirmi un poco piú pulita. Ho molte amiche qui, non credere (sono apprezzata! Per la prima volta in vita mia!), ma non mi fido di nessuna. Le ho conosciute quasi tutte (in realtà tutte, ma "tutte" suona troppo triste) tramite i bambini. È cosí che si intrecciano le relazioni, in periferia. Ci si scambiano due parole mentre li si recupera dall'asilo, poi si propone di trascorrere un pomeriggio insieme, e se non finisce in catastrofe se ne passa insieme un altro; mentre loro giocano si chiacchiera, prima di quanto sono meravigliosi anche se a volte stancano, poi si spettegola sulla maestra, non esagera un po' a prendersi due giorni liberi a settimana? Uno è accettabile, ma due? Ottimo il fatto che gli legga qualcosa dal quotidiano ogni mattina, ma è proprio sicuro che i bambini a quest'età debbano conoscere la differenza fra razzi Qassam e Grad? A proposito, in questi giorni al parco c'è un'offerta, la domenica i bambini mangiano gratis, è proprio un affarone se ordini giusto una pizza, e hai sentito che la nuova piscina apre già quest'estate? Il sindaco vuole fare il pieno di voti in vista delle elezioni, e sono d'accordo, il dottor Caspi è il miglior pediatra in circolazione, vale la pena di sorbirsi le code interminabili e quell'odiosa segretaria per il momento in cui guardi le foto del viaggio della famiglia nella Foresta Nera e ti rendi conto di quanto sono cresciuti – All'inizio stavo sempre ad aspettare il momento in cui da tante chiacchiere futili sarebbe emersa qualche verità. Per ora ci stiamo solo conoscendo, pensavo, i primi approcci, delicati. Fra poco una di noi si libererà dalla necessità di presentare la sua vita come perfetta e passeremo a una conversazione vera. Col tempo ho capito: non succede mai. Resta sempre cosí. Un viaggio in nessun posto. "Ma dipende anche da te!" ti sento commentare da laggiú, al di là dell'oceano Pacifico (o è l'Atlantico? Non ricordo mai quale dei due ci separa). Anche tu, Hani, potresti convogliare la conversazione in direzioni piú interessanti! Il fatto è che all'inizio ci ho provato. Ho lanciato esche. Ma nessuno abboccava. Dicevo cose tipo: a volte provo un desiderio potente di mollare tutto. Oppure: da quando sono nati non riesco piú a leggere, perciò mi sento vuota. O: mia figlia ha ancora le amiche immaginarie. Ho paura che finisca come mia madre. La reazione era un silenzio imbarazzato. E occhi bassi. Dopo qualcuno di questi silenzi, smetti di provare. Ti limiti a due chiacchiere. E dopo un po' di anni cosí, quando una mamma nuova che non conosce le regole arriva nel quartiere e mentre state aspettando i bambini all'uscita del corso di pre-judo ti dice improvvisamente, "Sono sempre triste, non so proprio come uscirne, ho paura che mio marito mi lasci se vado avanti cosí", anche tu la ripaghi con lo stesso silenzio, per paura che, dopo tanti silenzi, se apri la bocca ne sgorgherà una lava che brucerà tutto.
(Ti ricordi quella notte, in Guatemala, quando ci
hanno portato a vedere il vulcano spento da duecento
anni e all'improvviso si è messo a eruttare fumo? Sai
una cosa? Penso sia stata l'unica volta in tutta la nostra
amicizia che ti ho visto impaurita. Impaurita sul serio).
L'asterisco lo metto quando mi alzo per mangiare
qualcosa o fare pipi. O quando è troppo dura scrivere
qualcosa, e mi devo prendere un respiro prima –
Ho paura, Neta. Ho paura che se non racconto a qualcuno cosa succede, impazzirò. | << | < | > | >> |Pagina 122Porca miseria, quanto mi sforzo per convincerti che non mi comporto male, Neta, che non sono cambiata. Che nonostante tutto quello che racconto qui (e che continuerò a raccontare) sono sempre la stessa Hani che conosci.
E quanto mi sforzo di sembrare spigliata. Ho appena
riletto la lettera dall'inizio. Troppe parentesi. E troppe
manovre per nascondere di non essere piú spigliata.
Sono sconfitta. Dalle gravidanze. Dalla mancanza di
sonno. Dall'angoscia che la somiglianza tra Liri e mia
madre non sia solo apparenza. Dalle lunghe giornate
durante le quali non scambio una parola con un adulto,
a parte la conversazione mattutina con Assaf, che cerca
di farmi ridere ma mi fa solo sentire piú infelice, perché
mentre lui è in movimento io me ne sto ad ammuffire
in casa. Nessuno lo ammette, ma passare cosí tante ore
con dei bambini inaridisce. Magari ci sono mamme che
trovano la felicità costruendo modellini con i figli. Forse
anche tu costruisci modellini. Io no. Non sopporto i modellini. Ne ho le tasche
piene di colla, tempere e forbici.
Nei due primi anni con Liri, ogni puzzle completato era
un momento di emozione. Ma poi basta. Ci sono lampi, momenti di grazia, ma ormai
da otto anni mi trovo intrappolata - sí, è questa la parola -, intrappolata nel
mio desiderio di riuscire nella missione in cui mia madre ha fallito, e intanto
la polvere del tempo mi ricopre,
Neta. E io mi lascio ricoprire. Lo so che è un'immagine
ormai logora, ma sono logorata anch'io. Non ho la forza
di fingere un'allegria che non provo piú.
Potevo dirlo anche in modo piú semplice: è arrivato un uomo con gli occhi penetranti. E qualcosa, nel modo in cui si comportava con i miei figli, mi ha fatto tornare la voglia. Sí, la voglia.
Mi si è spento dentro qualcosa nei confronti di Assaf,
per come si comporta con i bambini. Come se paternità e attrazione sessuale
stimolassero uno stesso punto
dentro di me. O punti diversi, collegati come il pulsante
e la luce: il primo accende la seconda. Forse Freud aveva ragione, e
l'attrazione sessuale è sempre una riproposizione del primo desiderio, quello
del bambino per la madre e della bambina per il padre. Forse anche il fatto che
Assaf non sa niente dei barbagianni, che è troppo normale per raccontargli una
cosa del genere, forse anche questo erige una barriera tra noi. Comunque sia,
con i fatti non si discute: il mio corpo-anima suona sempre lo stesso accordo
ridotto quando io e Assaf siamo a letto (a volte vengo, naturalmente. Il mio
corpo Assaf lo conosce. Ma persino i miei orgasmi sono un po' ridotti,
capisci cosa intendo?)
Se gli fosse concesso (per la seconda volta) il diritto di rispondere a questa lettera, adesso direbbe: 1. Orgasmi ridotti? Ma che cazzo...? 2. Evito di fare il padre? È lei che si tiene i bambini appiccicati. Non li molla. Non li ha mai mollati. Per lei c'era sempre qualcosa che non andava: come li tenevo in braccio. Come legavo il seggiolino dell'auto. Come gli davo da mangiare. Era delusa in partenza da me. E poi modellava la realtà cosí da adattarla alla sua delusione. Eviatar ha fatto il bagno a Nimrod. Incredibile. Anch'io ho fatto il bagno a Nimrod. Mi piaceva fargli il bagno. Molto. Finché una volta lei è entrata e ha visto che l'acqua era troppo alta per i suoi gusti e a quel punto apriti cielo: non ci si può fidare di me, annego il bambino, che razza di padre sono. Fine. È stata l'ultima volta che gli ho fatto il bagno. 3. Anche a Liri mi impedisce di avvicinarmi. Non materialmente. È nelle piccole cose. Quando sono all'estero e mando un sms ai bambini, lei non glielo mostra, sostiene di essersene dimenticata. O il fatto che non le permette di andare a dormire un po' piú tardi perché possa vedermi quando rientro dal lavoro. Ritiene che danneggio nostra figlia perché non rispetto la sua anima poetica. Spiacente, un'amica immaginaria a quest'età non è piú il prodotto di un'anima poetica, è un problema. 4. Se Hani mi concedesse una possibilità, potrei essere un ottimo padre. Quando non ha scelta, ed è costretta a lasciarmi con loro per qualche ora, ce la caviamo benissimo. Improvvisamente Nimrod - che per inciso non somiglia affatto a Eviatar - mi abbraccia. Mi si arrampica addosso. E Liri smette di parlare con Andreina perché sa che io, a differenza di sua madre, non do corda a questa follia. Ma non siamo quasi mai soli, io e i bambini. Hani non si fida di me. La fa stare in ansia allontanarsi da loro piú di qualche ora, ha la sensazione di abbandonarli. Balle. Vuole solo assicurarsi che i nostri figli restino dalla sua parte. Vuole che chiamino lei, non me, quando sono in crisi. Vuole che io fallisca in almeno una cosa. Sí, è questo il mio peccato: sul lavoro vado alla grande. È questo che le rode. Non i miei viaggi. Non il mio modo di essere padre. Le rode il mio successo. È lei che ha studiato a Leiada. È lei che doveva guadagnare bene e viaggiare all'estero. Invece a un certo punto arriva questo ragazzo di una piccola città e la supera in curva. Minimo minimo dev'essere un pessimo padre. Cosí può continuare a sentirsi superiore in qualcosa. 5. Quel tocco di alterigia. Quando ci siamo conosciuti, all'università, lo trovavo sexy. Era una sfida. Anche la confusione che stava dietro all'alterigia, i ripetuti cambi di facoltà e indirizzo di studi, la ricerca incessante, alla Winona Ryder, della professione speciale che era destinata a fare, la professione che finalmente l'avrebbe resa davvero davvero felice - anche questo mi affascinava. A vent'anni. 6. Io sono ancora pazzo di lei. È la verità. Ma devo ammettere che è sfiancante vivere con una donna che vuole sempre essere altrove. Che non è mai soddisfatta. 7. Per essere onesto fino in fondo, è l'unica cosa che rende piacevoli i miei viaggi: riposare qualche giorno dalla sensazione di deluderla. Respirare per qualche minuto un'aria libera da amarezza. | << | < | > | >> |Pagina 157Terzo pianoLo so che è bizzarro. Eppure, Michael, ho bisogno di parlare con te. Con nessun altro posso condividere questo fardello. Sono ormai settimane che mi domando come rivolgermi a te senza rendermi totalmente ridicola a me stessa. Non andrò certo al cimitero a discorrere con una lapide, come una folle, né scriverò lettere indirizzate a "Paradiso, Via delle Anime Pure", né mi rivolgerò a una medium che mi restituisca il tuo viso da una sfera di cristallo o faccia scivolare un bicchiere di vetro sulle lettere dell'alfabeto. Non è la mia strada. Non è la nostra strada. Nonostante questo, il bisogno di parlare con te permane. E ultimamente sono accaduti eventi che l'hanno reso pressante. Infine, alcuni giorni fa, mentre stavo vagliando gli oggetti nel tuo studio per decidere quali buttare e quali trasferire nello scatolone in vista del trasloco (del quale ti racconterò a breve, meglio cominciare dal principio), in un cassetto dimenticato ho trovato una segreteria telefonica in pensione, coperta da uno strato di polvere. Ho interrotto il lavoro di selezione - sai bene quanto sia facile convincermi ad abbandonare le mansioni domestiche -, collegato la segreteria telefonica al telefono e composto il nostro numero. Dopo quattro squilli è partita la registrazione, e in casa è risuonata la tua voce sicura e calda: Buongiorno, qui parla la famiglia Adelman. Siete pregati di lasciare un messaggio dopo il segnale acustico, provvederemo a richiamarvi al piú presto. Era un anno che non sentivo questa voce. In realtà anche di piú. Durante le ultime settimane di vita la voce ti era cambiata: era piú morbida. Meno intransigente. Con l'avvicinarsi della morte, eri piú disponibile a considerare l'eventualità di essere in errore. Di esserti sbagliato fin dall'inizio.
Ma dalla segreteria proveniva la tua vecchia voce. E quando hai finito di
parlare si è sentito un bip, seguito da un lungo silenzio: un vuoto in attesa di
essere riempito.
Ho eseguito ulteriori controlli, naturalmente: ho misurato quanto tempo passava da quando la tua voce taceva fino ai tre fischi che segnano il termine del messaggio (due minuti). Ho verificato quante parole si possono pronunciare in due minuti (da duecento a duecentocinquanta, a seconda della velocità dell'eloquio. Il mio è rallentato molto da quando te ne sei andato). Ma la decisione era presa: ti avrei parlato cosí. Lasciandoti un messaggio dopo l'altro nella segreteria.
Mi rendo conto che si tratta di una procedura discutibile quanto quelle da
me prima menzionate. Nessuna persona ragionevole la utilizzerebbe. Ma quando
sento la tua voce posso sospendere per qualche istante l'avvocato interiore che
accusa, "Dvora, ti stai rendendo ridicola" e riempire il vuoto che chiede, quasi
esige, di essere riempito.
Amore mio – troppo poche volte ti ho chiamato cosí –, prima di raccontarti cosa accade nella mia vita, non dubito tu voglia sapere cosa sta succedendo nel nostro paese. Immagino che lí, nel lato oscuro, non abbiate le notizie flash, e so quanto tieni a essere aggiornato. Notiziario! annunciavi in salotto, e aumentavi il volume della radio, e adesso che non sei piú con me, sono io ad annunciare a volte: notiziario! E la voce mi torna indietro dai muri come un eco. Israele è coperta di tende, Michael. Una ragazza si è trasferita a vivere in una tenda in viale Rothschild, a Tel Aviv, per protestare contro i prezzi degli appartamenti, e il suo gesto ha ispirato molti con problematiche simili, che a loro volta hanno montato altre tende. Ogni coppia di tende ne ha generata una terza, e adesso in tutti i paesi e le città, il corso è occupato da uno stuolo di tende, da cui ogni sabato sera fluisce una massa di giovani che si riuniscono nelle piazze, per manifestare in favore della giustizia sociale e di un cambiamento radicale. Le manifestazioni vengono trasmesse in diretta dalla televisione, io le seguo e mi dispiace che tu non sia con me ad ammirare questo miracolo. Sono confusi, questi ragazzi, hanno slogan zoppicanti, non sanno andare al sodo, ma dimostrano una passione che mi ricorda noi, negli anni in cui intendevamo cambiare il mondo. Tre settimane fa ho deciso di agire. Quante volte abbiamo osservato impazienti le folle radunate nelle piazze a gridare slogan condivisi anche da noi, ma il nostro incarico pubblico ci impediva di gridare con loro? Ora, dopo la pensione, la porta della gabbia è aperta. Allora perché, mi sono chiesta, resto dietro le sbarre? Perché non chiedere un passaggio a uno dei vicini diretti alla grande città e unirmi ai dimostranti? | << | < | > | >> |Pagina 168Il taxi che mi ha portato a Tel Aviv si è fermato prima di un blocco in via Iben Gevirol e il conducente ha detto, mi dispiace, signora, dovrà procedere a piedi, la polizia ha chiuso tutte le strade di accesso per via della manifestazione. Gli ho risposto, non c'è problema, scendo qui, e mi sono unita ai tanti diretti in via Kaplan, dove era previsto il palco centrale. Mi ha fatto piacere scoprire diverse teste canute. Ogni tanto qualche ragazzo o ragazza cominciava a cantare una canzone, e un coro li seguiva. Nell'aria aleggiavano parole come giustizia e uguaglianza, ma c'erano anche chiacchiere banali e qualche randagio spaventato, stupito del trambusto.In quel momento la passeggiata era ancora piacevole. Dal mare spirava un gradevole venticello. Camminavo per via Pinkas e improvvisamente sono stata assalita dai ricordi d'infanzia. Dai ricordi della tua, di infanzia, naturalmente. Li ho sempre considerati piú degni dei miei di essere serbati. Ecco, qui, al posto di questo palazzo, c'era un campo vuoto dove la tua compagnia giocava a calcio con un pallone di stracci. Tu eri l'arbitro, naturalmente, e i tuoi giudizi venivano accolti da entrambe le squadre. E su quest'albero, all'ingresso di via Dubnov, avevate costruito una grande casa di legno – o almeno allora vi pareva grande – dove vi rifugiavate all'uscita da scuola. Qui all'angolo una volta sei caduto dalla bicicletta e ti sei fratturato la spalla. Non hai pianto, figurarsi. Tuo padre ti aveva chiarito senza mezzi termini che gli uomini della famiglia Adelman non piangono. Ti sei tenuto tutto il pianto nel petto per vent'anni, finché non hai incontrato me. Con l'avvicinarsi dell'incrocio con via Kaplan, avanzare diventava piú difficile. C'era molta, molta folla. Anche il vento aveva smesso di soffiare. Non trovavo una fessura in cui passare. Faticavo a respirare, mi serviva una panchina per riposare. Inspirare ed espirare. Ero arrabbiata con me stessa per non aver indossato abiti piú comodi. Chi porta la giacca in piena estate? Mi sono girata con l'intenzione di dirigermi a ovest, verso il mare, per allontanarmi dalla calca, ma chi voleva confluire nella via premeva piú forte, e non riuscivo a muovermi controcorrente. Per la verità, non riuscivo proprio a camminare. Ero imprigionata in mezzo alla folla. Il cuore batteva all'impazzata, la gola era secca, la gente mi spingeva, mi strattonava da tutte le direzioni, mi schiacciava. Se fossi stato insieme a me, Michael, ci avresti senz'altro aperto un varco con le tue braccia forti, mi avresti difeso da tutti e rianimato. Ma non c'eri. Ero completamente sola, Michael; le ginocchia mi si sono irrigidite, le gambe si sono bloccate sul posto, l'aria ha smesso di fluire ai polmoni, o dai polmoni, a ogni modo, d'un tratto mi è mancata l'aria –
L'ultima cosa che ricordo sono le guance non rasate
di un ragazzo che si chinava su di me chiedendo: signora, sta bene?
Mi sono risvegliata vicino a una tenda. Alcuni ragazzi mi circondavano. Avevano l'aria preoccupata. Una voce ha detto: ha aperto gli occhi! Un'altra ha incitato: portatele dell'acqua! Delicatamente, mi hanno levato la giacca e offerto dell'acqua. Mi hanno chiesto di alzare la testa e ci hanno infilato sotto due cuscini, perché potessi portare il bicchiere alle labbra. Ho bevuto qualche sorso. Solo a quel punto i miei occhi si sono aperti e mi sono resa conto di trovarmi distesa dentro un salotto improvvisato – tappeti sottili, poltrone sgangherate, qualche cuscino – e che quel salotto improvvisato si trovava nel centro di viale Rothschild. Ho domandato: come sono arrivata qui? Me l'hanno spiegato: ero svenuta all'entrata di via Kaplan. Avevo perso conoscenza. Due ragazzi mi avevano sollevata e adagiata in un risciò (ho scoperto che anche a Tel Aviv esistono i risciò). Tutti gli accessi all'ospedale erano bloccati a causa della manifestazione, perciò avevano deciso di portarmi con il risciò nel viale; nel frattempo avevano contattato un dottore-manifestante, che si era precipitato sul posto in bicicletta, mi aveva visitato e aveva constatato che avevo solo bisogno di riposo. Ho detto: grazie, credo sia opportuno che io torni a casa, e ho cercato di sollevarmi, ma il capogiro mi ha ributtata indietro sui cuscini.
Piano, signora, ha invitato una ragazza con i capelli legati in decine di
treccine sottili, e mi ha posato la mano sulla spalla. Ha subito un'esperienza
traumatica. Si prenda il tempo necessario per elaborarla.
Sí, Michael, tra tutte le tende possibili ero finita nella tenda degli psicologi. Ci crederesti? Quando mi sono ripresa abbastanza da mettermi seduta, ho notato anche i cartelli appesi intorno a me: Ci avete rotto l'anima, Psicologia da due soldi, Psicologi uniti per la giustizia sociale. Ho chiesto, e la ragazza con le treccine mi ha spiegato che lungo il viale si trovavano gruppi diversi. Tutti uniti nella protesta, ma ognuno con la sua istanza. Nella tenda in cui mi trovavo, si riunivano psicologi tirocinanti arrivati dall'intero paese per protestare contro le misere condizioni salariali della professione nel servizio pubblico. Mi ha versato un secondo bicchiere d'acqua e mi ha esortata: beva, è importante! E mentre obbedivo, ha raccontato: nell'ambito della protesta, abbiamo trasformato la nostra tenda in un centro terapeutico che offre sostegno psicologico gratuito a chiunque lo desideri, una sorta di pronto soccorso. Ha indicato con la testa un tavolino da picnic traballante a qualche metro da noi e ha detto, basta iscriversi qui.
Ho chiesto cosa succedeva dopo essersi iscritti, e
la mia voce suonava strana, la voce di un'altra. Mi ha
risposto che dopo l'iscrizione ti affidano a uno dei tirocinanti presenti nella
tenda. I primi giorni non c'era grande afflusso di richieste, ma ultimamente –
ha sottolineato orgogliosa – faticavano a tenere il ritmo e lavoravano anche la
notte. A causa della manifestazione avevano interrotto per alcune ore, ma da
mezzanotte avrebbero ripreso le sessioni.
Volevo dirle, mia cara, siete davvero molto gentili, sul lavoro ho avuto occasione di incontrare prevalentemente stupratori e assassini, perciò è piacevole rammentare che nel nostro paese si trovano anche giovani come voi, però scusa, con tutto il rispetto, si è fatto tardi e mi aspettano a casa –
Invece proprio lí, in quel salotto casuale, costantemente turbato dai
clacson, è germogliata in me una consapevolezza che avrebbe dovuto germogliare
già da molto, che non capisco come ero riuscita a rimandare
per oltre un anno: a casa non mi aspetta nessuno.
A mezzanotte, i pazienti hanno cominciato a entrare. Per prima cosa si presentavano al tavolo dell'accettazione, dove venivano affidati a un terapeuta, il quale li conduceva in una delle due tende o su una panchina vicina, nel viale. Dal luogo in cui mi trovavo, si sentivano chiaramente frammenti di conversazioni. Arrivavano non solo dalla panchina, ma anche da dentro le tende, con porte aperte e pareti sottili; in una avevano ritagliato persino una finestrella per far circolare un po' d'aria. Non volevo ascoltare le conversazioni. Sai bene qual è la mia opinione, la nostra opinione, sugli psicologi. Tanto piú dopo quello che è successo con Adar. Ma ero lí distesa sul materasso e non avevo altro da fare se non origliare (Michael, ti prego, considerala un'"attenuante"). Ammetto e confesso, sono rimasta sorpresa. Due volte. La prima per la disponibilità, per non dire l'ansia, di chi entrava nella tenda, nell'esporre la propria vita privata a un estraneo, in un ambiente totalmente privo di intimità. Ma insomma, questa gente non ha parenti o amici con cui conversare in modo discreto? Sulla panchina vicino a me, per esempio, era seduta una donna. Sulla cinquantina. Ha raccontato allo psicologo che lavorava da ormai vent'anni in uno degli uffici sul viale, e da quando era cominciata la protesta sentiva crescere un odio acceso nei confronti dei suoi datori di lavoro. Gli ha detto, guadagnano a palate e a noi ci pagano due soldi e poi, pur avendo incontrato lo psicologo solo pochi minuti prima, ha aggiunto: in questi ultimi giorni ho dei pensieri veramente spaventosi. Vorrei colpirli. Fargli del male. Mettergli veleno per topi nel caffè o qualcosa del genere. Non riesco a liberarmi di questi pensieri. E non so cosa fare.
La risposta dello psicoterapeuta non l'ho sentita. Un
gruppo di corridori con indosso magliette con la scritta
Corriamo per un appartamento
ha attraversato il viale al galoppo. Il terapeuta e la paziente hanno continuato
a parlare, come se i corpi sudati che sfrecciavano davanti
a loro fossero una faccenda del tutto normale. Io invece
ero preoccupatissima che uno dei corridori mi investisse
per sbaglio, e solo dopo che è passato l'ultimo ho ripreso
a origliare. Ma avevo perso il filo della loro conversazione, perciò la mia
attenzione si è spostata sul discorso che
si svolgeva in una tenda, quella con la finestra.
Lí un signore stava raccontando a una terapeuta, della quale vedevo solo i polpacci, di essere sposato da vent'anni con una donna, ma di sentirsi attratto anche dagli uomini. Sua moglie non lo sapeva, non lo sapevano i figli, né gli amici, ma a volte si recava in posti in cui poteva soddisfare questa sua tendenza. Ha detto alla psicoterapeuta, non mi aspetto che lei mi offra una soluzione, non credo che una soluzione esista. Però tenersi dentro un segreto del genere per tanto tempo... è cosí... capisce? Perciò il solo fatto di parlarne con lei qui... capisce? Le sessioni sono continuate fino a notte fonda, e io non smettevo di origliare, oscillavo come un pendolo tra stupore e ribrezzo: stupore per la velocità con cui le persone estraggono il loro taccuino interiore e lo sbandierano alle orecchie di tutti, e ribrezzo per la stessa identica cosa. Mentre si svolgevano le sessioni, ci passavano a fianco, a volte proprio in mezzo, i cortei piú vari e disparati. Nel salone improvvisato e indefinito nel quale ci trovavamo, di tanto in tanto irrompevano ubriachi, senzatetto o qualche cinico, per far sentire la loro voce. Non sembrava disturbassero chi era lí in cerca di supporto. Continuavano imperterriti a informare l'intero viale delle loro perversioni sessuali, delle loro dipendenze o delle menzogne che raccontavano alle persone care.
Pian piano dentro di me ha cominciato a formarsi,
Michael, una convinzione assoluta: non si tratta di casi
sporadici, ma di un fenomeno diffuso. Il confine tra
"privato" e "pubblico" e tra "dentro" e "fuori" negli ultimi anni si è spostato,
e nessuno ci ha informati. Forse si è addirittura cancellato.
La seconda sorpresa è stata la reazione di quanti si definiscono "psicoterapeuti", e anche in questo oscillavo fra stupore e ribrezzo. Lo stupore per la loro giovane età (portavano i pantaloni corti, Michael! Quanto distanti dal concetto del vecchio signore con la pipa in bocca che immaginavo mentre parlava con Adar), per la loro capacità di ascoltare, ascoltare davvero, nel bel mezzo del continuo brusio del viale, e per la reale volontà di dare sollievo a chi si rivolgeva a loro. Cosa mi provocava ribrezzo? Quei professionisti non hanno pronunciato, nemmeno una volta, un parere etico sui comportamenti devianti dei quali venivano a conoscenza. Nemmeno una volta! Forse l'esempio piú plateale è stata una ragazzina esile che si è seduta sulla panchina verso le due di notte e ha raccontato alla psicoterapeuta di provare una forte attrazione sessuale nei confronti del fratello maggiore. La psicoterapeuta ha ascoltato. E ascoltato. E ascoltato. Alla fine ha detto solamente: fai bene a parlarne. Dev'essere difficile tenersi dentro un sentimento del genere.
Dio santo! volevo gridare. Questa ragazza sta per
commettere un incesto. Come puoi non ammonirla delle
conseguenze morali di una simile azione? Non raccontarle che persino fra le
tribú piú remote dell'Amazzonia
i rapporti sessuali interfamiliari sono proibiti? È di questo che la ragazzina
ha bisogno. È di questo che tutti i
pazienti che affollano la tenda e aspettano fuori hanno
bisogno. Di sentirsi dire cosa è giusto e cosa è sbagliato.
E voi, invece di sancirlo, dite loro: il bene è anche male e
il male è anche bene. Certo, loro escono alleggeriti dalla
tenda. Sono stati ascoltati senza essere giudicati. Qualcuno offre loro una
sorta di sostegno. Perfetto. Tutti desideriamo sentirci sostenuti. Ma domani
mattina il dilemma morale irrisolto tornerà a tormentarli, questa volta piú
potente ancora, perché ormai è svelato, è venuto a galla.
Non ho fatto commenti, naturalmente. Non ritenevo che il mio status di ospite mi accordasse il diritto di esprimere un'opinione. E poi anche un'altra cosa mi ha spinto a tacere: speravo che origliare le conversazioni mi aiutasse a comprendere ancor meglio quello che desideravo capire, a immaginare quello che desideravo immaginare: cos'era successo durante la psicoterapia di Adar? Come mai dopo tre mesi di sessioni con uno psicologo aveva deciso che noi, i suoi genitori, eravamo colpevoli di tutti i suoi misfatti, e che gli conveniva allontanarsi per un tempo indefinito? Cosa, nella pratica della psicoterapia, cosí estranea a noi due, l'ha spinto a compiere un gesto tanto estremo? So bene che non ti piace che io parli di Adar. Se tu fossi qui, cambieresti certamente argomento. O ti insaccheresti nelle spalle per chiarire che per te la conversazione è conclusa. Ma adesso sei morto, Michael. Perciò sarai costretto ad ascoltarmi fino in fondo. | << | < | > | >> |Pagina 181Dopo, mi sono ritrovata davanti al nostro palazzo, il palazzo in cui abbiamo trascorso venticinque anni della nostra vita, e d'un tratto mi è parso, come dire, misero.Non misero, oltraggioso. Il parcheggio, ordinatissimo. Numerato. Il logo del posto di lavoro appiccicato sul paraurti di tutte le auto. Le piante perfettamente potate all'ingresso. Il citofono appena rinnovato. Le caselle della posta, nemmeno una rotta. Nessuna con piú di due cognomi. Le biciclette sorprendentemente ordinate. Sorprendentemente legate. Il silenzio che tanto ci piaceva. Non c'era musica ad alto volume. Da nessun appartamento arrivavano le voci di un litigio. Insopportabile. Un'isola di pace, chiamavo orgogliosa la nostra periferia. In quel momento mi è parsa un'isola di ottusità e conservatorismo... abbiamo vissuto nel Borghesistan. Dicevi sempre: il giorno in cui l'intero paese avrà questo aspetto, pulito, ordinato, rispettoso della legge, equilibrato, sapremo che il sogno di Herzl è diventato realtà e il sionismo ha vinto.
In quel momento ti avrei risposto: il sionismo sta perdendo, e mentre
succede gli abitanti di questo palazzo dormono. E finché qualcuno non gli farà
crollare addosso i muri e non si sveglieranno, nulla potrà cambiare.
Ecco cosa volevo fare, Michael: volevo bussare alle porte di tutti, di Ruth e di Hani e dei Katz e dei Raziel per dire: sveglia, cittadini del Borghesistan. Risvegliatevi dalle vostre partite di poker e dall'eccesso di preoccupazione per i vostri figli e per i vostri patetici tradimenti, generati dal vuoto e non dalla passione. Svegliatevi dalle vostre poltrone troppo comode davanti al televisore e dai vostri consulenti finanziari che consigliano di accendere un mutuo per comprare un altro appartamento in un condominio identico a questo, in una periferia identica a questa. Svegliatevi dalla mancanza di fede, dalla mancanza di partecipazione e dalla mancanza di interesse. Risvegliatevi dall'eccesso di vacanze e dall'eccesso di automobili, dall'eccesso di oggetti elettronici e dall'eccesso di corsi per i figli. Non lontano da qui sta succedendo qualcosa di veramente importante. E voi dormite. | << | < | > | >> |Pagina 191Correggimi se sbaglio, Michael, ma in tutti i giorni della nostra vita insieme non abbiamo mai condiviso i sogni. Tu sostenevi che i sogni servono per colmare il divario fra ciò che vorremmo e ciò che è, e che nella tua vita professionale e privata non esisteva alcun divario del genere. Dicevi: non ho bisogno di sogni, perciò non sogno! Io invece sí che ne avevo bisogno. E infatti sognavo. Ma non riuscivo mai a catturare il sogno prima che svanisse nella coscienza del risveglio.Anche il sogno fatto la notte dopo l'incontro con Avner Ashdot non lo ricordo perfettamente. È in gran parte svanito. Eppure, per la prima volta dopo tanti anni sono riuscita a trattenere un'immagine e annotarla prima che si cancellasse. Ti leggo quanto ho scritto, parola per parola, nella speranza che il bip della segreteria non mi interrompa a metà.
Un gruppo di medici, fra cui si trova Adar, si china sul mio letto in
ospedale e discute dell'operazione che stanno per eseguire su di me. Dalla loro
conversazione intuisco che stanno per asportare un organo, ma non riesco a
capire quale. Provo a chiedere, ma la mia bocca non emette alcun suono e loro
continuano a ignorarmi e parlare di me come se non li udissi.
Prendo un pezzo di carta e scrivo: in base alla legge sui diritti del malato,
avete il dovere di fornirmi tutte le informazioni che esigo. Allungo il
foglietto al medico piú alto, quello legge, scoppia a ridere e lo mostra ad
Adar, il quale a sua volta sorride.
"Ecco, lo vedi" gli dice il medico, "è proprio per questa ragione
che abbiamo deciso di asportarle il Super-Io".
Tu probabilmente avresti capito subito. La tua cultura generale era sempre piú a portata di mano rispetto alla mia. Io ho sprecato mezza giornata a cercare sull'enciclopedia medica, prima di capire che nel nostro corpo non esiste nessun organo chiamato "superio", e che evidentemente il sogno si riferiva al "Super-Io", il termine coniato da Freud nell'ambito della sua teoria topografica secondo la quale l'anima è divisa in tre piani. L'Enciclopedia delle idee mi ha aiutato a ricordare che al primo piano risiedono tutte le nostre pulsioni e istinti, l'Es. Al piano di mezzo abita l'Io, che cerca di conciliare i nostri desideri e la realtà. E al piano piú alto, il terzo, abita sua altezza il Super-Io. Che ci richiama all'ordine con severità e ci impone di tenere conto dell'effetto delle nostre azioni sulla società. Ti sento chiedere con quel tuo tono da cui si evince che conosci perfettamente la risposta: esistono prove concrete di questa teoria? È stata sperimentata, provata scientificamente? No. Quale valore ha, dunque? Non ne ha. Scandaloso, continui tu. Riesci a immaginarti un verdetto senza prove documentate? Una diagnosi medica senza individuazione dei sintomi? Solo in campo psicologico una teoria priva di basi effettive può dominare il discorso professionale! Annuisco come se concordassi, ma non posso esimermi dal supporre: è tutto un meccanismo di difesa attivato dal tuo Io, Michael, per via delle prepotenti pulsioni dell'Es che la psicologia — come ogni altra cosa collegata ad Adar, tuo figlio, il tuo unico figlio, che non amavi — risveglia in te. | << | < | > | >> |Pagina 253Per tutto questo tempo, mentre ti lasciavo messaggi, non mi aspettavo una tua risposta, Michael. Non ho creduto che avresti mandato un segno, o che mi saresti comparso in sogno appagando le mie domande. Volevo parlare con te perché sapevo che a te avrei potuto dire solo la verità. Tutta la verità. E questo mi avrebbe costretto a fare la cosa piú difficile: levare le maschere e guardarmi in faccia, guardare le mie scelte e le loro conseguenze, nel bene e nel male. Anche nel peggiore dei mali.
Capisci, Sigmund Freud era un uomo molto intelligente ma ieri sera, dopo
aver terminato l'ultimo volume dell'opera omnia e averlo posato sul comodino, ho
pensato che un errore l'ha fatto. I tre piani dell'anima
non esistono dentro di noi. Niente affatto! Esistono nello
spazio tra noi e l'altro, nella distanza tra la nostra bocca
e l'orecchio di chi ascolta la nostra storia. E se non c'è
nessuno ad ascoltare, allora non c'è nemmeno la storia.
Se non c'è uno cosí, a cui svelare segreti, con cui sciorinare ricordi e
consolarsi, allora si parla con la segreteria telefonica, Michael. L'importante
è parlare con qualcuno. Altrimenti, tutti soli, non sappiamo nemmeno a che
piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare disperati nel buio, nell'atrio,
in cerca del pulsante della luce.
Ieri ho partecipato alla Manifestazione del milione, a Tel Aviv. Questa volta, a differenza delle precedenti, ho viaggiato in treno, e un risciò tutto per me mi aspettava all'uscita della stazione. Lo guidava Yishai, il giovane ospite che verrà ad abitare con me nel nuovo appartamento. Un tesoro di ragazzo. Studia giurisprudenza. Sogna di fondare uno studio specializzato in giustizia ambientale, per difendere la natura da chi cerca di sfruttarla. Un idealista. Bruttino. Ti piacerebbe. Siamo riusciti ad arrivare con il risciò fino in via Weizmann, dove ci aspettavano alcuni attivisti che ho assistito in queste ultime settimane, alcune persone della tenda degli psicologi, e Avner Ashdot. Abbiamo marciato insieme, lenti - Avner non può camminare in fretta - fino alla piazza. Ci siamo sistemati di fronte al palco. Non troppo vicino, né troppo lontano. Soffiava un venticello piacevole. Portavo abiti adatti non a un giudice, ma a una signora che va a manifestare: pantaloni larghi e morbidi. Una camicetta comoda con una leggera scollatura. Scarpe da ginnastica. Sapevo che questa volta non sarei svenuta, e se per caso mi fosse successo qualcosa, al mio fianco c'era Avner Ashdot. La piazza si andava riempiendo sempre di piú: chi portava cartelloni enormi e ben disegnati, chi ne portava di piccoli, improvvisati. Ai margini, ho notato anche gesti quotidiani: due ragazzi che si baciavano appassionatamente, una piccola coda davanti al bancomat, un bambino caduto in lacrime. La solita danza della vita. Eppure, ho pensato, qui sta succedendo anche qualcosa di straordinario: un'infinità di persone non piú disposte ad accettare le cose come sono, credono ci sia una possibilità di riparare e per farlo si riuniscono in un unico luogo. È proprio una congiuntura speciale. Alle dieci di sera sono saliti i primi oratori. Altri li hanno seguiti. Chi diceva cose intelligenti, chi ne diceva di meno intelligenti. Ma in tutti gli oratori percepivi un filo conduttore di integrità a collegare i discorsi.
Fra un discorso e l'altro, si esibivano cantanti e gruppi a me ignoti. A una
delle canzoni, Avner Ashdot mi ha invitato a ballare e io ho accettato. Da
quanti anni non ballavo in pubblico... E tu sai quanto mi piaccia ballare.
Le gambe di Avner Ashdot pesano come tronchi, non
potevamo veramente andare a tempo, perciò abbiamo
ballato un valzer piú lento, in mezzo alla piazza. La mia
testa quasi gli toccava il petto, la sua bocca mi sfiorava i
capelli, i nostri piedi giravano in tondo.
Prima di mezzanotte abbiamo cantato l'inno nazionale insieme ad altre trecentomila persone. Ho sentito che le parole dell'inno sono vere, la nostra speranza non è ancora perduta. La mia speranza non è ancora perduta.
Sapevo che era una sensazione passeggera, ma per un
attimo l'ho posseduta, Michael, per un attimo è stata mia.
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