Autore Viet Thanh Nguyen
Titolo Il simpatizzante
EdizioneNeri Pozza, Vicenza, 2016, Bloom 109 , pag. 512, cop.fle., dim. 13x21,5x3 cm , Isbn 978-88-545-1339-6
OriginaleThe Sympathizer [2015]
TraduttoreLuca Briasco
LettoreGiangiacomo Pisa, 2017
Classe narrativa vietnamita , narrativa statunitense , paesi: Vietnam , guerra-pace












 

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1.


Sono una spia, un dormiente, un fantasma, un uomo con due facce. E un uomo con due menti diverse, anche se questo probabilmente non stupirà nessuno. Non sono un mutante incompreso, saltato fuori da un albo a fumetti o da un film dell'orrore, anche se c'è chi mi ha trattato come se lo fossi. Sono semplicemente in grado di considerare qualunque argomento da due punti di vista antitetici. A volte, per adularmi da solo, mi dico che si tratta di un talento vero e proprio, e benché non valga poi tanto, è anche l'unico talento che possiedo. Altre volte, quando rifletto piú a fondo sul fatto di non poter fare a meno di osservare il mondo da questa doppia prospettiva, mi domando se in realtà lo si possa davvero considerare un talento. Dopo tutto, il talento è qualcosa che si sfrutta, e non qualcosa dal quale si viene sfruttati. Il talento che non sei in grado di sfruttare, e dal quale anzi sei posseduto... devo confessare che lo definirei piuttosto un rischio. Ma durante il mese dal quale parte questa mia confessione, il modo in cui vedevo il mondo mi sembrava ancora una virtú piú che un pericolo, e spesso è proprio per questo che si finisce nei guai.

Il mese in questione era aprile, il mese piú crudele. Il mese nel quale una guerra che andava avanti da tempo immemorabile cominciò a perdere i pezzi, come succede regolarmente a tutte le guerre. Un mese fondamentale per gli abitanti della nostra piccola parte di mondo, e irrilevante per quasi tutti gli altri, in qualunque angolo della terra si trovassero. Un mese che segnò sia la fine di una guerra che l'inizio di una... be', "pace" non è il termine corretto da usare, non crede, mio caro Comandante?

Un mese che trascorsi aspettando la fine dietro le mura di una villa nella quale avevo vissuto per tutti e cinque gli anni precedenti: mura ricoperte di cocci di vetro che riflettevano la luce del sole, e di filo spinato arrugginito. Avevo una camera tutta per me, proprio come ne ho una qui al campo, Comandante. Ovviamente, il termine corretto per definire la stanza dove mi trovo adesso è "cella di isolamento", e invece di un maggiordomo ho a disposizione una guardia con la faccia da bambino, i cui compiti non includono fare le pulizie. Ma non intendo lamentarmi. La privacy, e non la pulizia, è l'unico prerequisito del quale ho bisogno, per scrivere questa confessione.

Se di notte la villa del Generale mi garantiva privacy a sufficienza, di giorno ne avevo ben poca. Ero l'unico tra i suoi ufficiali ad abitare a casa sua, il solo a essere scapolo e l'aiutante che considerava piú affidabile. La mattina, prima di accompagnarlo in auto per il breve tragitto che lo separava dal suo ufficio, facevamo colazione insieme, analizzando i dispacci a un capo del tavolo da pranzo in teak, mentre all'altro capo sua moglie si occupava di tenere d'occhio un ben disciplinato quartetto di figli che avevano rispettivamente diciotto, sedici, quattordici e dodici anni; il posto a tavola della figlia maggiore, che studiava in America, restava ovviamente vuoto. Č probabile che non tutti abbiano sentito avvicinarsi la fine, ma il Generale sapeva benissimo cosa ci attendeva. Era un uomo magro, dal portamento impeccabile, e un veterano che si era guadagnato sul campo tutte le sue medaglie. Benché i proiettili e le granate gli avessero portato via un dito di una mano e due dita di un piede, solo la sua famiglia e le persone piú vicine conoscevano le condizioni del suo piede sinistro. Le sue ambizioni non erano mai state frustrate, a parte forse il desiderio di procurarsi un'eccellente bottiglia di borgogna e berlo in compagnia di persone abbastanza raffinate da non mettere il ghiaccio nel vino. Era un epicureo e un cristiano, nell'ordine, un uomo di fede che credeva nella gastronomia e in Dio; nella moglie e nei figli; nei francesi e negli americani. Per come la vedeva lui, erano in grado di offrirci tutele molto maggiori rispetto agli stranieri che avevano ipnotizzato i nostri fratelli del Nord, e molti anche del Sud: Karl Marx, V.I. Lenin e il compagno Mao. Non che avesse mai letto una parola, di quanto avevano scritto quei tre saggi uomini! In qualità di aiutante di campo e ufficiale piú giovane dei servizi di intelligence, era mio compito fornirgli degli appunti sintetici sul Manifesto del partito comunista, o sul Libretto rosso di Mao, mentre lui doveva solo trovare le occasioni giuste per esibire la sua conoscenza dei nemici e della loro mentalità. La sua citazione preferita era il grande quesito di Lenin, di cui si appropriava ogni volta che gli fosse possibile: Signori, diceva, picchiettando sul tavolo con le inflessibili nocche, che fare? Spiegare al Generale che in realtà a formulare il quesito era stato Nikolaj Černyševskij, facendone addirittura il titolo di un suo romanzo, mi sembrava irrilevante. In quanti si ricordano di Černyševskij, oramai? Era Lenin a contare: l'uomo d'azione che aveva preso quel quesito e lo aveva fatto proprio.

In quell'aprile uggioso, di fronte al quesito sul da farsi, il Generale, che aveva sempre avuto la risposta pronta, era in gravi ambasce. Aveva creduto stoicamente nella mission civilisatrice e nel modello americano, ma ora cominciava a fare molta fatica. Colto da improvvisa insonnia, vagava per la villa con la faccia di un pallore verdognolo da malarico. Da quando il fronte settentrionale aveva ceduto, durante il mese di marzo, si materializzava sulla porta del mio ufficio per consegnarmi una pila di dispacci, uno piú scoraggiante dell'altro. Non è incredibile?, mi chiedeva, al che rispondevo regolarmente «Sissignore!», o «Davvero incredibile, signore!». In effetti, faticavamo a credere che la deliziosa e panoramica cittadina di Ban Me Thuot, centro di produzione del caffè nonché mio luogo natale negli Altipiani, fosse stata saccheggiata all'inizio di marzo. Faticavamo a credere che Da Nang e Nha Trang fossero cadute, o che i nostri soldati avessero sparato addosso ai civili che tentavano disperatamente di fuggire a bordo di chiatte e barconi, uccidendone migliaia. Rimasto solo, e in gran segreto, fotografavo quei rapporti, che avrebbero sicuramente entusiasmato Man, il mio addestratore. Pur essendone soddisfatto anche io, perché erano segni evidenti dell'inevitabile erosione del regime, non potevo fare a meno di essere toccato dalla sorte di quei poveracci. Forse, politicamente parlando, non era corretto che provassi quei sentimenti, ma se mia madre fosse stata viva, sarebbe stata una di loro. Era povera, come lo ero stato io, suo figlio, e nessuno chiede alla povera gente se vuole la guerra. E infatti, nessuno aveva chiesto a quegli infelici se volevano morire di sete o di insolazione in mare, a poche centinaia di metri dalla costa, o se volevano essere derubati e stuprati dai loro stessi soldati. Se quelle migliaia di persone fossero state ancora vive, non avrebbero mai preso in considerazione la possibilità di morire in quel modo orrendo, proprio come noi non potevamo credere che gli americani — i nostri amici, benefattori e protettori — avessero rifiutato la nostra richiesta di nuovi finanziamenti. Che cosa avremmo fatto, in fondo, con quei soldi? Avremmo comprato le munizioni, il gas e i ricambi per le armi, gli aerei e i carri armati che erano stati gli stessi americani a consegnarci, gratuitamente. Era come se, dopo averci riforniti di siringhe e aghi, avessero deciso perversamente di negarci la droga. (Non esiste niente di piú costoso di quello che ti viene regalato, brontolava il Generale.)

Alla fine delle nostre discussioni o dei pasti, gli accendevo una sigaretta e il Generale guardava nel vuoto, dimenticandosi di fumare la Lucky Strike che gli si consumava lentamente tra le dita. A metà aprile, quando la cenere bollente gli bruciò la pelle, risvegliandolo dalle sue meditazioni e strappandogli di bocca una parola che non avrebbe dovuto pronunciare, Madame costrinse al silenzio i figli, che ridacchiavano, e gli disse, Se aspetti ancora un po', non riusciremo piú ad andarcene. Dovresti chiedere a Claude un aereo, e dovresti farlo subito. Il Generale finse di non averla sentita. Madame aveva una mente organizzata come un abaco, l'inflessibilità di un istruttore di reclute e il corpo di una vergine, anche dopo aver partorito cinque figli. Il tutto dentro un involucro che avrebbe ispirato ai nostri migliori artisti, tutti nostalgici dell'Art Nouveau, una fioritura di tinte pastello e sfocature. In altre parole, era l'incarnazione della perfetta donna vietnamita, e il Generale si sentiva eternamente grato e insieme spaventato dalla fortuna di averla avuta in moglie. Massaggiandosi la bruciatura sul dito, mi guardò e disse, Credo sia giunto il momento di chiedere un aereo a Claude. Quando tornò a concentrarsi sul suo dito lanciai un'occhiata a Madame, che si limitò a inarcare un sopracciglio. Buona idea, signore, dissi.

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Soddisfatto, il Generale risali a bordo della Citroën e il convoglio ripartí, procedendo oltre l'incrocio con la Tu Do. Lanciai un'ultima, fuggevole occhiata al Café Givral, dove mi ero fermato piú volte a gustare un gelato alla vaniglia con le ragazze di Saigon cui facevo la corte, e che si presentavano regolarmente accompagnate da una zia mummificata. Poco dopo il Givral c'era il Café Brodard, dove avevo coltivato la mia passione per le crępe salate mentre facevo del mio meglio per ignorare la parata di mendicanti che passavano zoppicando. Chi aveva ancora le mani le tendeva per chiedere l'elemosina, mentre chi le aveva perse stringeva tra i denti la visiera di un berretto da baseball. I soldati esibivano le proprie amputazioni, sventolando le maniche vuote delle giubbe come uccelli inabili al volo; i barboni piú anziani ti fissavano in silenzio con i loro occhi da cobra, mentre i ragazzini di strada raccontavano storie piú grandi di loro sulle condizioni pietose in cui versavano, le giovani vedove cullavano neonati in preda alle coliche che potevano aver preso in prestito pochi minuti prima, e un vasto assortimento di storpi esibiva ogni malattia conosciuta all'uomo, purché fosse sgradevole alla vista. Piú a nord, sulla Tu Do, c'era il nightclub dove avevo trascorso infinite serate ballando il cha-cha-cha con ragazze in minigonna e tacchi cosí alti da distruggere le arcate plantari. La Tu Do era la strada dove, in passato, i colonizzatori francesi avevano sistemato le proprie belle amanti, per poi lasciare il posto ai plebei americani, che se la spassavano in bar di dubbia fama come il San Francisco, il New York e il Tennessee, con i nomi sbandierati su grandi insegne al neon e i jukebox carichi di musica country. Chi si sentiva in colpa dopo l'ennesima serata da debosciato poteva farsi una passeggiata verso nord fino alla basilica di mattoni rossi in fondo alla Tu Do, dove il Generale ci portò passando per Hai Ba Trung. Dí fronte alla basilica si ergeva la statua bianca della Madonna, con le mani aperte in segno di pace e di perdono e lo sguardo rivolto verso il basso. Mentre lei e suo figlio, Gesú Cristo, erano pronti ad accogliere tutti i peccatori di Tu Do, i loro seguaci, moralisti o sacerdoti che fossero – e mio padre non faceva eccezione – mi accoglievano quasi sempre con malcelato sdegno. Era anche per questo che chiedevo a Man di incontrarci dentro la basilica per le nostri riunioni clandestine: trovavamo entrambi grande gusto nella farsa di essere contati tra i fedeli. Ci genuflettevamo come tutti, ma in realtà eravamo due atei che avevano scelto il comunismo al posto di Dio.

Ci vedevamo sempre il mercoledí pomeriggio, quando la basilica era deserta a parte le solite quattro o cinque vedove benestanti, con le teste avvolte in mantiglie di pizzo o in scialli neri, che recitavano con aria austera il loro Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome... Io non pregavo piú da tanto tempo, ma la mia lingua non riusciva a trattenersi dal seguire la loro cantilena. Quelle vecchie erano dure come soldati di fanteria, e restavano sedute, impassibili, anche durante le cerimonie piú affollate del fine settimana, quando accadeva spesso che gli infermi o gli anziani svenissero per il caldo. Eravamo troppo poveri per poterci permettere l'aria condizionata, ma i colpi di calore erano semplicemente un modo come un altro per esprimere la forza delle convinzioni religiose. Sarebbe stato difficile trovare cattolici piú pii di quelli che vivevano a Saigon, molti dei quali, come me e mia madre, erano già fuggiti una volta dai comunisti, nel '54 (quando avevo ancora nove anni, e ben poca voce in capitolo). L'idea di vederci in chiesa divertiva molto anche Man, un ex cattolico proprio come me. Mentre fingevamo di essere due devoti ufficiali cattolici, che non si accontentavano di andare a messa una volta la settimana, gli confessavo i miei fallimenti politici e personali. Lui, a sua volta, si calava nei panni del confessore, sussurrandomi la sua assoluzione sotto forma di nuovi incarichi, anziché di preghiere da recitare.

America?, dissi.

America, confermò.

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Non appena Claude se ne fu andato, tornai in mezzo ai fuggiaschi. Un marine con un megafono borbottava chiedendo loro di distribuirsi su piú file, ma mettersi in coda era una cosa innaturale, per i nostri compatrioti. L'atteggiamento consueto, in situazioni dove la domanda era molto piú alta dell'offerta, consisteva nello sgomitare, spingere, ammassarsi e tentare di farsi largo. In caso di fallimento passavamo alle offerte in denaro, alle lusinghe, alle esagerazioni o alle menzogne in piena regola. Non ero sicuro se questi tratti caratteriali fossero genetici, un'espressione della nostra cultura o l'effetto di un processo evolutivo particolarmente accelerato. Eravamo stati costretti a adattarci a una bolla economica di dieci anni, alimentata esclusivamente grazie alle importazioni dagli Stati Uniti; a tre decenni costellati di guerre, inclusa la divisione del paese in due metà perfette, nel '54, grazie al colpo di bacchetta di qualche potenza straniera, e al breve interregno giapponese durante la Seconda guerra mondiale; a un secolo di molestie continue da parte dei coloni francesi. Ai marines, però, quelle scuse interessavano ben poco, e la loro presenza finí per intimidire i profughi, inducendoli a formare delle file. Quando ci controllarono, in cerca di armi, noi ufficiali facemmo tristemente il nostro dovere, consegnando le pistole. La mia era un revolver calibro .38 a canna corta, ideale per le attività sotto copertura, per la roulette russa e per suicidarsi, mentre Bon brandiva una ben piú virile Colt 45, semiautomatica. Quell'arma era perfetta per abbattere i guerriglieri Moro nelle Filippine con un colpo solo, spiegai a Duc. Lo avevo saputo da Claude, che era un'autentica miniera di informazioni, sull'argomento.

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Se ci fosse stato concesso di restare insieme, spiegai a mia zia, avremmo potuto fondare una colonia autosufficiente e di dimensioni rispettabili, un brufolo sulle chiappe del sistema americano, con politici fatti in casa, agenti di polizia e soldati; con i nostri banchieri, addetti alla vendita e ingegneri; con medici, avvocati e contabili; con cuochi, addetti alle pulizie e camerieri; con proprietari di fabbriche, meccanici e impiegati; con ladri, prostitute e assassini; con scrittori, cantanti e attori; con geni, professori e folli; con sacerdoti, suore e monaci; con buddisti, cattolici e seguaci del Cao Dai; con gente che veniva dal Nord, dal Centro e dal Sud; con uomini di talento, mediocri e stupidi; con patrioti, traditori e neutrali; con onesti, corrotti e indifferenti: una collettività abbastanza coesa da eleggere un nostro rappresentante al Congresso e avere voce in capitolo nel nostro nuovo paese, una Piccola Saigon non meno deliziosa, delirante e disfunzionale rispetto all'originale. Ed era proprio per questo che non ci era stato permesso di restare insieme, ed eravamo stati invece dispersi, per volontà di una massa di burocrati, in ogni latitudine e longitudine del nostro nuovo mondo. Quando ci riunivamo, lo facevamo sempre in piccoli gruppi, ritrovandoci in uno scantinato, in una chiesa, nei giardini sul retro delle nostre case, il fine settimana, su una spiaggia, portandoci dietro cibo e bevande dentro sacchetti di plastica per non doverli comprare dove sarebbero costati di piú. Provavamo in ogni modo a far rivivere i piatti base della nostra cultura, ma dovendo dipendere dai negozi cinesi c'era un retrogusto insopportabilmente cinese anche nel cibo, un'ulteriore umiliazione che ci lasciava in bocca il sapore dolceamaro di rievocazioni inaffidabili, abbastanza precise da riportare in vita il passato, ma troppo approssimative per non rinfrescarci la memoria sul fatto che quello stesso passato era svanito per sempre, insieme alla giusta varietà, delicatezza e complessità del nostro solvente universale: la salsa di pesce. Oh, la salsa di pesce! Quanto ne sentivamo la mancanza, cara zia! Non c'era un solo piatto che avesse il sapore giusto, senza la nostra salsa! Quanto ci mancava il grand cru di Phu Quoc, e i suoi tini pieni fino all'orlo di alici pressate e marinate! Quell'acre condimento color seppia era denigrato dagli stranieri per il suo tanfo insopportabile, che conferiva un nuovo significato alla frase «C'è una gran puzza di pesce marcio, da queste parti». Eravamo noi, quelli del pesce. Usavamo la salsa di pesce come i contadini della Transilvania usavano l'aglio per tenere lontani i vampiri. Nel nostro caso, lo scopo era creare una barriera che ci separasse dagli occidentali, sempre pronti a criticare quando in realtà, a puzzare sul serio, era il loro formaggio. In fondo, che cos'era mai il pesce fermentato, in confronto al latte cagliato?

Per una forma di riguardo verso chi ci ospitava, tenevamo nascosti i nostri veri sentimenti e sedevamo uno vicino all'altro su divani che pungevano e tappeti ruvidi, con le ginocchia che si toccavano sotto gli affollati tavoli delle cucine pieni di portacenere smerlati che misuravano il trascorrere del tempo riempiendosi di cicche, mentre masticavamo calamari secchi insieme al bolo dei ricordi finché le mascelle non cominciavano a dolerci, e ci scambiavamo notizie di seconda o terza mano sui nostri connazionali sparsi per il paese. Fu cosi che venimmo a sapere del clan famigliare ridotto in schiavitú da un proprietario terriero a Modesto; della ragazza ingenua che aveva preso un volo per Spokane, dove avrebbe dovuto sposare il GI del quale si era innamorata, e invece era stata venduta a un bordello; del vedovo con nove figli che era uscito in pieno inverno, nel cuore del Minnesota, si era steso sulla neve con la bocca aperta finché non era finito sepolto vivo e congelato; dell'ex Ranger che aveva comprato una pistola e aveva ucciso la moglie e i due figli prima di suicidarsi, a Cleveland; [...]

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A giudizio di Benjamin Franklin, come mi aveva insegnato il professor Hammer dieci anni prima, trovarsi un'amante píú anziana era un'ottima cosa, o comunque questo era il consiglio che i Padri Fondatori avevano rivolto ai giovani. Non ricordo tutto il ragionamento di quel grande saggio americano, ma due punti mi sono sempre rimasti impressi. Il primo: un'amante piú anziana sarà «sempre grata»! Può darsi che questo sia vero in generale, ma non lo era certo per Ms Mori. Si aspettava che, tra noi due, fossi io a sentirmi grato, e lo ero veramente. Mi ero rassegnato alle consolazioni tipiche del migliore amico dell'uomo – in altre parole, all'auto-erotismo –, e le mie disponibilità economiche non mi consentivano di ricorrere all'ausilio delle prostitute. Ora però ero un seguace dell'amore libero, la cui mera esistenza costituiva un affronto per un capitalismo protetto e regolamentato dalla cintura di castità delle proprie giustificazioni etiche, ma risultava anche aliena a un comunismo impregnato di confucianesimo. Č questo uno degli inconvenienti del comunismo che mi auguro vengano superati: la convinzione che ogni compagno dovrebbe comportarsi come un contadino dall'animo nobile, e usare una sola appendice, la zappa, per arare la terra. Il comunismo asiatico prevede che tutto sia libero, fuorché il sesso, perché in Oriente la rivoluzione sessuale non ha ancora avuto luogo. Il ragionamento che sottende questa scelta è molto chiaro: se la gente fa già abbastanza sesso da scodellare sei, otto o dieci figli, che è poi la media nei paesi asiatici (almeno, secondo Richard Hedd), non è certo necessario scatenare una rivoluzione per avere ancora piú sesso. Gli americani invece, vaccinati contro una rivoluzione e perciò già dotati degli anticorpi necessari, sono affascinati dallo sfrigolio tropicale dell'amore libero senza prenderne in considerazione le implicazioni politiche. Grazie alla guida paziente di Ms Mori, comunque, cominciavo a rendermi conto che ogni vera rivoluzione include necessariamente una liberazione di natura sessuale.

Quest'intuizione era tutt'altro che sconosciuta a Mr Franklin. Quel vecchio e subdolo sibarita era perfettamente consapevole del legame profondo tra erotismo e politica, e nel chiedere il sostegno della Francia alla Rivoluzione americana, corteggiava le donne non meno che gli uomini di potere. In altre parole, la sostanza della lettera del primo, grande americano al suo giovane amico era corretta: dovremmo tutti avere amanti piú anziane di noi. Si trattava di una considerazione molto meno sessista di quanto sembrasse, perché implicava anche che una donna potesse tranquillamente portarsi a letto uno stallone piú giovane. E se la missiva del Vecchio Caprone non era sempre il massimo della delicatezza, nessuno poteva negarne la lasciva verità. Mi riferisco al secondo punto che mi si era fissato nella memoria: come la forza di gravità, la vecchiaia, nel corso degli anni, scende dall'alto verso il basso. Comincia dalla faccia per poi passare al collo, ai seni, al ventre, ecc. Perciò, un'amante piú avanti negli anni è ancora soda e appetibile nei punti in cui conta di piú esserlo, anche quando ha la pelle avvizzita e il viso smunto già da un bel pezzo, e se anche cosi fosse sarà sufficiente metterle un cuscino in faccia.

Nel caso di Ms Mori, comunque, non c'era alcuna necessità di farlo, perché il suo viso era gradevolmente senza età. L'unica cosa che avrebbe potuto rendermi ancor piú felice sarebbe stato trovare una compagna per Bon, il quale, da quanto ne sapevo, continuava a dedicarsi alle sue pratiche solitarie. Era sempre stato molto riservato, sull'argomento, segno che aveva assimilato fino in fondo i dettami del cattolicesimo. Provava piú imbarazzo a parlare di sesso che non di altri argomenti a mio avviso ben piú difficili da sviscerare, come il fatto di aver ucciso diverse persone: un atteggiamento perfettamente in linea con l'intera storia del Cattolicesimo, nella quale, ufficialmente, i rapporti omo o eterosessuali e la pederastia non avevano mai avuto spazio, nascosti sotto le tonache e gli abiti talari del Vaticano. Papi, cardinali, vescovi, sacerdoti e monaci che si portavano a letto donne, ragazze o bambini, o si accoppiavano tra di loro? Tutto questo non era mai stato argomento di discussione. Non che ci fosse qualcosa di sbagliato, negli accoppiamenti di qualunque natura. Non è il sesso a fare schifo, ma l'ipocrisia. Il fatto che la Chiesa avesse torturato, ucciso, scatenato crociate o infettato milioni di persone nel nome di nostro Signore Gesù Cristo il Salvatore, dall'Arabia alle Americhe, invece, veniva tranquillamente confessato, tutt'al piú con un'ombra di inutile e virtuoso rincrescimento.

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Mi ci volle qualche istante, prima di riconoscerlo. Avevo visto per l'ultima volta Son Do, o Sonny, come si faceva chiamare da tutti, nel 1969, l'ultimo anno che avevo trascorso in America. Aveva vinto anche lui una borsa di studio in un college della Contea di Orange, a un'ora di auto dal mio. Quella contea era il luogo dove era nato il criminale di guerra Richard Nixon, e dove risiedeva John Wayne: un posto cosí ferocemente patriottico da indurmi a credere che l'Agente Arancio fosse stato fabbricato da quelle parti, o comunque fosse stato chiamato cosí in onore della contea. Sonny studiava giornalismo, un indirizzo che avrebbe potuto rivelarsi utile anche per il nostro paese, se il suo stile e la sua impronta non fossero stati cosí palesemente sovversivi. Era come se portasse la sua integrità morale su una spalla come una mazza da baseball, pronto a colpire al volo qualunque contraddizione dei suoi avversari. Quando lo avevo conosciuto era decisamente sicuro di sé, o arrogante, a seconda dei punti di vista: una conseguenza evidente delle sue origini aristocratiche. Il nonno era un mandarino, come non mancava mai di rammentare a tutti, e aveva inveito con tanta violenza contro i francesi che era stato imbarcato su una cuccetta, per una crociera di sola andata fino a Tahiti, dove, dopo aver stretto amicizia, o cosí diceva la leggenda, con un Gauguin distrutto dalla sifilide, aveva finito per soccombere alla dengue, o forse a un virulento accesso di nostalgia per la patria. Sonny aveva ereditato le proprie incrollabili convinzioni dal nonno, che, ne ero certo, doveva essere stato insopportabile, come tutti gli uomini troppo sicuri delle loro idee. La certezza di essere sempre dalla parte della ragione accomunava Sonny ai piú feroci conservatori, con la sola differenza che le sue idee erano dichiaratamente di sinistra. Era il capo della fazione pacifista degli studenti vietnamiti, che si riuniva con cadenza mensile in una stanza accuratamente bonificata nella sede dell'Unione degli studenti o nell'appartamento di uno di loro, dove le passioni divampavano mentre il cibo si freddava. Partecipavo a tutte le riunioni, come a quelle del gruppo favorevole alla guerra, ugualmente compatto: pur differendo nei toni politici, erano perfettamente interscambiabili per quanto riguardava il cibo, le canzoni cantate in coro, le battute e gli argomenti di discussione. Al di là dell'appartenenza politica, quegli studenti attingevano tutti alla stessa coppa di solitudine, radunandosi in cerca di conforto proprio come gli ex ufficiali in quel negozio di liquori, sperando che la vicinanza dei loro simili li proteggesse da un esilio cosí gelido che neppure il sole della California era in grado di riscaldarlo.

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Prima che potessi rispondere, Clark Gable sali sul palco e annunciò un ospite a sorpresa, un deputato che aveva servito nel nostro paese con i Berretti verdi tra il '62 e il '64, e che rappresentava il distretto nel quale ci trovavamo. Il deputato in questione si era guadagnato una notevole popolarità nella California del Sud come giovane politico in ascesa, e le sue credenziali militari gli erano state certamente molto utili nella Contea di Orango. Da queste parti, soprannomi come Napalm Ned, Knock'em Dead Ned o Nuke'em All Ned, utilizzati indifferentemente a seconda dell'umore di chi li pronunciava o della situazione geopolitica, erano segni di affetto, e non contenevano la minima traccia di polemica. Era ferocemente anticomunista, motivo per il quale era anche uno dei pochi politici californiani che avesse accolto i profughi a braccia aperte. La maggioranza degli americani aveva verso di noi un atteggiamento ambiguo se non di palese antipatia, perché eravamo la prova vivente di una delle loro sconfitte piú brucianti. Rappresentavamo inoltre una minaccia alla santità e alla simmetria di un'America bianca e nera, la cui politica razziale fondata sul concetto di yin e yang non lasciava spazio per altri colori, e in particolare per quei patetici, piccoli gialli sempre pronti a rubare quattro monetine dal borsellino americano. Eravamo degli alieni che, a giudicare dalle voci che circolavano, avevano una predilezione per il Fido Americanus, il canide domestico che costava a ogni americano piú del reddito medio di una famiglia del Bangladesh. (Il vero orrore della situazione era fuori dalla portata mentale dell'americano medio. Benché infatti fosse vero che alcuni di noi amavano pasteggiare con i fratelli di Rin Tin Tin e Lassie, non lo facevamo mai nel modo primitivo immaginato dagli occidentali, con una clava, una passata allo spiedo e un po' di sale, ma con un'ingegnosità e una creatività da autentici buongustai. E infatti i nostri chef erano in grado di cucinare un canide in sette diversi modi, tutti ugualmente virili: facendone un ottimo ossobuco, per esempio, o cuocendolo alla griglia, o lessandolo. Per non parlare delle salsicce, dello spezzatino, delle fettine panate o dello stufato: che bontà!) In ogni caso, il deputato di cui sto parlando aveva scritto diversi editoriali per difenderci e per dare il benvenuto agli emigrati nel suo distretto della Contea di Orange.

Buon Dio, ma guardatevi, disse, stringendo il microfono, con Clark Gable accanto e le due cantanti, l'angelo e la tentatrice, a completare la fila. Era sulla quarantina, un incrocio tra un avvocato e un uomo politico che esibiva l'aggressività del primo e la soavità del secondo, esemplificata dalla sua testa. Liscia, lucida e affusolata come la punta di una penna a sfera, le parole ne uscivano con la fluidità del miglior inchiostro, e grazie alla sua statura spiccava ben al di sopra di Clark Gable. Del resto, oltre che piú alto, il Deputato era cosí piantato che due uomini vietnamiti di altezza e corporatura media avrebbero facilmente trovato spazio entro i confini del suo corpo. Guardatevi, signore e signori, guardatevi come vorrei che i miei connazionali vi guardassero: vale a dire, come cittadini americani a pieno titolo. Sono davvero grato che mi sia stata data la possibilità di essere qui, stasera, e di condividere con voi la gioia per le nozze di due adorabili ragazzi vietnamiti, in un ristorante cinese della California, illuminato da una luna americana e in un universo cristiano. Lasciate che vi dica una cosa, signore e signori: per due anni ho vissuto in mezzo alla vostra gente, nella regione degli Altipiani, ho combattuto con i vostri soldati, ho condiviso le vostre stesse paure e ho lottato contro i vostri nemici. Ebbene, lo pensavo allora e lo penso anche adesso: non mi sarebbe potuto accadere nulla di meglio che sacrificare la mia vita per difendere le vostre speranze, i vostri sogni e le vostre aspirazioni a un'esistenza migliore. Benché fossi certo, proprio come voi, che queste speranze, questi sogni e queste aspirazioni si sarebbero realizzate nella vostra patria, la storia ha deciso diversamente, supportata dalla misteriosa e incontestabile grazia di Dio. Sono qui per dirvi, signore e signori, che la vostra sfortuna è stata solo temporanea, perché i vostri soldati hanno combattuto bene e con grande coraggio, e avrebbero prevalso se il Congresso fosse rimasto saldo nel sostenervi, come aveva promesso il nostro presidente. Era una promessa condivisa da tanti, tantissimi americani. Ma non da tutti. Sapete a chi mi riferisco. I democratici. I media. Il movimento contro la guerra. Gli hippy. Gli studenti dei college. I radicali. L'America è stata indebolita dalle sue divisioni interne, dai disfattisti, dai comunisti e dai traditori che infestano le nostre università, i nostri giornali e il nostro Congresso. E voi, benché sia triste doverlo ammettere, non fate che ricordare loro la viltà e il tradimento di cui si sono resi responsabili. Sono qui per dirvi che a me, invece, ricordate la grande promessa dell'America! La promessa dell'immigrato! La promessa del Sogno Americano! La promessa che i cittadini di questo paese tenevano ben cara, e che presto torneranno ad amare: che l'America è una terra di libertà e indipendenza, una terra di patrioti che si sono sempre schierati dalla parte dei piú deboli, ovunque si trovassero nel mondo, una terra di eroi che non si sottrarranno mai all'impegno di aiutare gli amici e colpire duramente i nemici, una terra pronta ad accogliere le persone come voi, che hanno sacrificato cosí tanto per la causa comune della democrazia e della libertà! Un giorno, amici miei, l'America tornerà a camminare a testa alta, e il merito sarà delle persone come voi. E un giorno, amici miei, la terra che avete perduto tornerà a essere vostra! Perché niente può fermare il cammino della libertà, e la volontà del popolo! Ora, nella vostra bellissima lingua, rinnovate insieme a me la vostra fede...

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Dopo essere sceso dalla villa del Grande Autore alla casa del Generale, a trenta isolati di distanza e nella parte bassa di Hollywood, sotto le colline, riferii la mia prima esperienza con l'industria del cinema al Generale e a Madame, che si infuriarono entrambi, prendendo le mie parti. Il mio incontro con il Grande Autore e con Violet era proseguito per un bel po', su toni complessivamente piú tranquilli: avevo sottolineato come l'assenza di battute e dialoghi riservati a vietnamiti in un film ambientato in Vietnam avrebbe potuto essere interpretato come segno di una certa mancanza di sensibilità. Questo è vero, mi aveva interrotto Violet, ma alla fine conta chi paga il biglietto per vederlo, il film. In tutta franchezza non saranno i vietnamiti a farlo, o sbaglio? Avevo cercato di trattenere l'ira che sentivo montarmi dentro e avevo detto, Ma se pure cosí fosse, non pensa che sarebbe un po' piú credibile, un po' piú realistico, e un segno di maggiore autenticità, se in un film ambientato in un certo paese si permettesse alla gente che ci vive di dire qualcosa, invece di limitarsi a scrivere sulla sceneggiatura, come succede adesso, Cambio scena: abitanti del villaggio che parlano nella loro lingua? Non crede che sarebbe piú corretto lasciare che dicano effettivamente qualcosa, invece di limitarsi ad ammettere che sono in grado di articolare un suono qualunque? Non potrebbe farli parlare, magari in un inglese molto accentato – il classico inglese ching chong –, fingendo che si esprimano in una lingua asiatica che il pubblico, miracolosamente, è in grado di comprendere? E non crede che la storia sarebbe più coinvolgente se il suo Berretto verde si innamorasse di una donna? In caso contrario, il pubblico potrebbe pensare che l'amore e la morte sono faccende tutte tra maschi.

il Grande Autore aveva fatto una smorfia e aveva detto, Molto interessante. Davvero. Sono ammirato. Ma avevo una domanda da farle. Qual era, non mi ricordo più. Ah, sí. Quanti film ha girato. Nessuno, vero. Zero, zilch, nada, o come diavolo si dice nella sua lingua. Perciò, grazie mille per avermi spiegato come fare il mio lavoro. Ora però porti via le chiappe da casa mia e torni quando avrà fatto un paio di film. E forse, a quel punto, sarò disposto a prestare ascolto alle sue idee da quattro soldi.

Perché è stato cosí maleducato?, disse Madame. Non era stato lui a chiedere suggerimenti?

Cercava uno yes man. Era convinto che gli avrei dato la mia approvazione.

Pensava che fosse andato da lui per adularlo.

Esatto. E quando si è accorto che non intendevo farlo, c'è rimasto male. Č permaloso, come tutti gli artisti.

E cosí, la tua carriera a Hollywood è finita prima ancora di cominciare, disse il Generale.

Non voglio fare carriera a Hollywood, ribattei, ed era vero, ma solo perché era Hollywood a non volere me. Confesso che ero molto arrabbiato con il Grande Autore, ma non ero forse nel mio diritto? Mi ero risentito soprattutto quando aveva ammesso di non sapere neppure che Montagnard era un termine francese che si applicava in modo onnicomprensivo alle decine di minoranze etniche che popolavano la regione degli Altipiani. Che cosa penserebbe di me, avevo ribattuto, se le portassi la sceneggiatura di un film western nella quale uso il termine "indiani" per tutti i nativi americani? Credo proprio che vorrebbe sapere se la cavalleria sta combattendo contro i Navajo, gli Apache o i Comanche, giusto? Allo stesso modo, ci terrei a sapere se, quando parla di Montagnard, si riferisce ai Bru, ai Nung o ai Tay.

Lasci che le riveli un segreto, aveva ribattuto il Grande Autore. Pronto? Bene. A nessuno frega un cazzo, di queste cose.

Ero rimasto senza parole, e la cosa lo aveva divertito non poco. Vedermi ammutolito era come trovarsi davanti un felino egizio senza peli, un'occasione rara e non necessariamente desiderabile. Solo piú tardi, mentre mi allontanavo in auto dalla sua villa, ero riuscito a riderci sopra, con amarezza, consapevole che mi aveva ridotto al silenzio utilizzando la mia arma preferita. Come avevo potuto essere tanto ottuso, e lasciarmi guidare fino a quel punto da un'illusione? Da bravo studente sgobbone, avevo letto la sceneggiatura in poche ore e avevo scritto appunti e note a margine per molto piú tempo, con l'idea distorta che a qualcuno interessasse la mia opinione. Nella mia ingenuità, avevo creduto di poter distogliere Hollywood da quello che era il suo obiettivo dichiarato: lobotomizzare e insieme derubare le platee di tutto il mondo. Il beneficio secondario dell'operazione consisteva nel trasformare la storia in una sorta di miniera a cielo aperto, lasciando i fatti veri nelle profondità dei tunnel sotterranei, accanto ai morti, ed estraendo solo qualche diamante scelto, per lo stupore e l'emozione del pubblico. Hollywood non si limitava a fabbricare mostri da film horror, ma era un mostro essa stessa, e non aveva esitato a schiacciarmi sotto il suo tallone. Avevo fallito, e il Grande Autore avrebbe realizzato Il villaggio esattamente come lo aveva concepito; i miei connazionali sarebbero serviti da materiale grezzo per un racconto epico incentrato su un pugno di bianchi che salvavano i gialli buoni dalla ferocia dei gialli cattivi. Compativo i francesi, per la loro ingenuità nel credere di dover visitare un paese, prima di poterlo sfruttare. Hollywood era molto piú efficiente: per sfruttare un paese, le era sufficiente immaginarlo a modo suo. Ero furibondo per la mia impotenza di fronte all'immaginazione e alle macchinazioni del Grande Autore. La sua arroganza segnava una novità assoluta: per la prima volta, a scrivere la storia sarebbero stati gli sconfitti anziché i vincitori, grazie alla piú efficiente macchina propagandistica che fosse mai stata creata (con buona pace di Joseph Goebbels e dei nazisti, che non avevano mai raggiunto un potere altrettanto globale). I grandi sacerdoti di Hollywood avevano capito istintivamente il Satana di Milton, e in particolare la sua dichiarazione di intenti: Meglio regnare all'inferno che servire in paradiso. Era dunque meglio calarsi nel ruolo del cattivo, del perdente o dell'antieroe che accettare una parte da comprimario virtuoso, perché l'importante era guadagnare le luci dei riflettori. Nell'imminente trompe l'śil hollywoodiano, tutti i vietnamiti, da qualunque parte fossero schierati, si sarebbero confusi in un'unica massa, che fossero poveri e innocenti o malvagi e corrotti. Il nostro destino ci avrebbe visti, piú ancora che muti, ridotti a marionette senza voce.

Prenda del pho, disse Madame. La farà stare meglio.

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Harry poteva anche amare il tempio piú di ogni altra cosa, ma per me il vero capolavoro era il cimitero. Lo vidi per la prima volta quella sera, e ci tornai ad alcuni giorni di distanza, sempre la sera, dopo una trasferta al campo profughi di Bataan dove avevo ingaggiato un centinaio di comparse vietnamite. Il viaggio mi aveva lasciato molto abbattuto, perché avevo incontrato migliaia di connazionali che erano fuggiti dal paese e versavano in condizioni pietose. Avevo già visto dei rifugiati prima di allora, Comandante, perché la guerra aveva lasciato senza una casa milioni di persone già in patria, ma quell'umanità stracciona rappresentava una specie a sé. Era cosí unica che i media occidentali le avevano dato un nome, boat people, un epiteto che, in apparenza, avrebbe potuto corrispondere a una tribù appena scoperta sul Rio delle Amazzoni o a una misteriosa popolazione preistorica estinta da millenni, della quale fossero sopravvissute solo le imbarcazioni. A seconda del punto di vista, i boat people potevano essere persone in fuga dalla patria o rese orfane dal loro stesso paese. In ogni caso, avevano un aspetto tremendo, e un odore ancor peggiore: spelacchiati, coperti di croste, le labbra screpolate, ghiandole gonfie ovunque, puzzavano come un peschereccio il cui equipaggio fosse poco avvezzo al mare, e avesse stomaci particolarmente delicati. Erano troppo affamati per storcere il naso di fronte al compenso che ero stato autorizzato a offrire, un dollaro al giorno, e niente dimostrò ai miei occhi il livello di disperazione al quale erano giunti piú del fatto che nessuno – ripeto, nessuno – avesse mercanteggiato per ottenere una paga migliore. Non avrei mai immaginato di trovarmi davanti un connazionale che rinunciasse a contrattare su un prezzo o su un compenso, ma evidentemente quei boat people avevano capito perfettamente che la legge della domanda e dell'offerta non era dalla loro parte. Il mio morale toccò però veramente il fondo quando chiesi a una delle comparse, un'avvocatessa dai modi aristocratici, se le condizioni nel nostro paese fossero disperate come si sentiva dire da piú parti. La metterei in questi termini, rispose. Prima che i comunisti vincessero, gli stranieri ci perseguitavano, ci terrorizzavano e ci umiliavano. Ora, a perseguitarci, terrorizzarci e umiliarci sono i nostri compatrioti. Direi che abbiamo fatto progressi.

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Ormai nota solo con il suo nome di battesimo, come John, Paul, George, Ringo e Mary, sali sul palco con un bustino di velluto rosso, una minigonna leopardata, un paio di guanti neri di pizzo e gli stivali di pelle con i tacchi a spillo che le arrivavano a metà coscia. Perché il mio cuore perdesse un colpo sarebbero bastati quegli stivali, i tacchi o la piccola striscia piatta del suo ventre tra la minigonna e il bustino, ma la combinazione dei tre elementi mi portò a un passo dall'infarto, prima che i battiti riprendessero con il vigore di un'intera squadra di polizia di Los Angeles. Un sorso di cognac contribuí a riportarli nella norma, ma mi scatenò il fuoco nelle vene, alimentato dalla sua voce incendiaria. Il calore cominciò a crescere di intensità già con la prima canzone, I'd Love You To Want Me, che avevo sempre sentito cantare da uomini, prima di allora. Quel pezzo era una sorta di inno per tutti gli scapoli e i maschi infelicemente sposati della mia generazione, sia nell'originale inglese che nelle versioni ugualmente superbe in francese e in vietnamita. Dal testo alla melodia, la canzone dava voce in modo perfetto all'amore non corrisposto, e non c'era niente che noi uomini del Sud amassimo di piú: i cuori infranti erano la nostra principale debolezza, dopo le sigarette, il caffè e il cognac.

Mentre la ascoltavo cantare, desideravo solo immolarmi in una notte accanto a lei, che avrei ricordato per l'eternità. Tutti gli uomini della sala condividevano le mie stesse emozioni mentre la guardavamo dondolare lentamente davanti al microfono e la sua voce scatenava ondate di commozione nel pubblico, riducendolo al silenzio. Nessuno parlava e nessuno si muoveva se non per portarsi alle labbra una sigaretta o un bicchiere: una concentrazione assoluta che non fu certo interrotta dal pezzo successivo, benché piú ritmico: Bang Bang (My Baby Shot Me Down). La prima a cantarlo era stata Nancy Sinatra, che però era solo una principessina con i capelli biondo platino e una conoscenza della violenza e delle armi acquisita interamente di seconda mano, attraverso gli amici mafiosi di suo padre, Frank. Lana, invece, era cresciuta in una città nella quale i gangster erano stati cosí potenti da costringere l'esercito a combatterli per le strade. Saigon era una metropoli dove gli assalti a colpi di granate erano la norma, gli attentati esplosivi di matrice terrorista non stupivano nessuno e l'invasione da parte dei Vietcong era un'esperienza condivisa. Cosa ne poteva sapere Nancy Sinatra quando cantava bang bang? Per lei, si trattava di un testo pop come ce n'erano tanti. Ma bang bang era la colonna sonora delle nostre vite.

Come se non bastasse, Nancy Sinatra, come la stragrande maggioranza degli americani, parlava solamente la sua lingua natia. La versione di Bang Bang cantata da Lana, molto piú ricca e stratificata, mescolava l'inglese con il francese e con il vietnamita. Bang Bang, je ne l'oublierai pas, era l'ultimo verso della versione francese, puntualmente riecheggiato dalla versione vietnamita di Pham Duy, Non dimenticheremo mai. Nel pantheon delle classiche canzoni pop di Saigon, questa versione tricolore occupava un posto di primo piano, per la capacità di intrecciare con maestria amore e violenza nella storia enigmatica di due innamorati che, pur conoscendosi sin dall'infanzia, o forse proprio per questo, si uccidono l'un l'altro a colpi di pistola. Bang bang era lo sparo dei ricordi, che risuonava nelle nostre menti, perché non potevamo dimenticare l'amore, non potevamo dimenticare la guerra, non potevamo dimenticare le persone amate, non potevamo dimenticare i nemici, non potevamo dimenticare la patria, e non potevamo dimenticare Saigon. Non potevamo dimenticare il gusto caramellato del caffè con ghiaccio e zucchero di canna; le scodelle di zuppa di spaghetti consumate seduti su un marciapiede; lo strimpellio della chitarra di un amico, sdraiati su un'amaca all'ombra degli alberi di cocco; le partite di calcio giocate a piedi nudi e a torso nudo nei vicoli, nelle piazze, nei parchi e nei prati; la nebbia del mattino che avvolgeva le cime dei monti come un girocollo di perle; l'umore labiale delle ostriche appena sgusciate su una spiaggia sabbiosa; il sussurro rugiadoso di un'amante che bisbigliava le parole piú seducenti della nostra lingua, anh oi; il crepitio del riso trebbiato; i lavoratori che dormivano sui loro cyclo, con il solo ricordo delle rispettive famiglie a tenerli caldi; i rifugiati che dormivano su ogni marciapiede di qualunque città; le spirali antizanzare che bruciavano, lentissime; la corposa dolcezza di un mango appena staccato dall'albero; le ragazze che si rifiutavano di rivolgerci la parola, e alle quali anelavamo ancor piú proprio per questo; gli uomini che erano morti o scomparsi; le strade e le case spazzate via dall'esplosione di una bomba; i torrenti dove facevamo il bagno nudi, tra mille risate; il boschetto dove ci nascondevamo per spiare le ninfe che si tuffavano e si schizzavano con la perfetta innocenza di tanti uccellini; l'ombra delle candele sulle pareti delle capanne fatte di canne e fango; il tintinnio atono dei campanacci sulle strade sterrate e sui sentieri di campagna, che annunciava una mandria di mucche; il latrato di un cane famelico in un villaggio abbandonato; l'odore appetitoso del durione fresco, che faceva lacrimare gli occhi; lo spettacolo penoso degli orfani che piangevano sui corpi dei padri e delle madri; la vischiosità delle nostre camicie, il pomeriggio; la vischiosità della pelle delle nostre donne, dopo aver fatto l'amore; la vischiosità della nostra situazione; le strida impazzite dei maiali in fuga, inseguiti dagli abitanti del villaggio decisi a squartarli; le cime delle colline infuocate dal tramonto; la testa coronata dell'alba che si sollevava dal lenzuolo del mare; la stretta calda della mano materna. La lista sarebbe potuta andare avanti all'infinito, ma il punto era uno solo, e molto semplice: la cosa piú importante, che non potevamo assolutamente dimenticare, era l'impossibilità stessa di dimenticare.

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E questo sarebbe un country club?, disse il Generale quando arrivammo a destinazione. Controllai l'indirizzo: era lo stesso che avevo letto sul biglietto d'invito del Deputato. Vi si nominava in effetti un country club, e anch'io avevo immaginato che avremmo percorso un tragitto lungo strade di campagna semideserte, per poi imboccare un viale coperto di ghiaia e parcheggiare di fronte a un valletto vestito di nero e con un papillon al collo: il preludio all'ingresso in una vera e propria tana, ricoperta da un tappeto di pelli d'orso e con teste di cervo dalle grandi corna alle pareti, che ti scrutavano con caustica saggezza attraverso una nube di fumo di sigaro. All'esterno, un campo da golf che, per restare sempre verde, richiedeva piú acqua di una città del Terzo Mondo, e dove quartetti di virili banchieri praticavano uno sport che, per ogni colpo di mazza, poteva richiedere tanto la forza bruta con cui si stronca un sindacato, quanto l'eleganza e la precisione con cui si eludono le tasse. Ma invece che a un'oasi di pace, nella quale si poteva sempre contare su una quantità illimitata di palle da golf e di compiaciuta bonomia, l'indirizzo al quale arrivammo corrispondeva a una steak-house di Anaheim, che esibiva lo stesso fascino di un venditore di aspirapolvere porta a porta. A una prima occhiata, mi sembrava un luogo decisamente inadeguato per una cena privata nientemeno che con Rìchard Hedd, impegnato in un tour di conferenze e presentazioni.

Dopo aver lasciato l'auto in un parcheggio popolato solo di veicoli americani e teutonici immatricolati di recente, seguii il Generale dentro la steak-house. Il maître di sala possedeva i classici manierismi di un ambasciatore di un piccolo paese: una perfetta combinazione di alterigia e servilismo. Non appena facemmo il nome del Deputato, si ammorbidí quanto bastava per piegare leggermente il capo e guidarci attraverso un labirinto di sale piene di autentici americani con maglioni a losanghe e camicie oxford button down, che banchettavano a bistecche di manzo e carré d'agnello. La nostra destinazione era una saletta privata al piano superiore, dove il Deputato teneva banco in compagnia di diversi ospiti, seduto a un tavolo rotondo cosí grande da poter ospitare un uomo disteso di traverso. Ognuno dei presenti aveva già un drink in mano, ed ebbi la netta impressione che il nostro ritardo fosse stato programmato. Quando il Deputato si alzò in piedi, dovetti fare uno sforzo per placare le fitte allo stomaco. Mi trovavo di fronte ad alcuni tra i campioni più rappresentativi della creatura più pericolosa nella storia dell'umanità: l'uomo bianco in giacca e cravatta.

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Vi prego, signori!, ha gridato l'agente. Sono innocente! Ve lo giuro! Ah, sí? E come mai avevi una lista con i nomi di tutti quei poliziotti?, ha detto il piú giovane dei tre. L'hai trovata per terra da qualche parte, e avevi tanta fame che hai pensato di mangiartela? No, no, ha singhiozzato l'agente. Aveva bisogno di una buona storia come copertura, ma per qualche motivo non riusciva a tirar fuori nulla: non che le sarebbe servito a togliersi di dosso i tre poliziotti. E va bene, ha detto il terzo poliziotto, che fino ad allora non aveva fiatato, slacciandosi la cintura e abbassando la lampo dei pantaloni. Era già in erezione, e il suo undicesimo dito faceva capolino dai boxer. L'agente si è fatta sfuggire un gemito, voltandosi dalla parte opposta solo per trovarsi davanti il piú giovane dei tre, che si era già tirato giù i pantaloni e si stava masturbando furiosamente. Essendo seduto alle sue spalle, potevo vedere solo le natiche nude e incavate, e l'espressione di orrore negli occhi dell'agente. Aveva capito che quello cui la stavano per sottoporre non era un interrogatorio ma una sentenza, scritta dai poliziotti con gli strumenti a loro disposizione. Il piú anziano, che doveva essere un padre di famiglia, si palpava la parte più tozza e sgradevole del corpo di quasi ogni maschio adulto. La stessa parte che spiccava davanti ai miei occhi, ora che il piú giovane si era voltato di profilo, avvicinandosi alla faccia dell'agente. Guardalo, ha detto. Gli piaci! I tre membri maschili, gonfi a dismisura, differivano in lunghezza ed erano puntati uno verso l'alto e uno verso il basso, mentre il terzo si piegava leggermente di lato. Vi prego, non fatelo!, ha gridato l'agente, chiudendo gli occhi e scuotendo il capo. Vi supplico! Il poliziotto piú anziano è scoppiato a ridere. Guardate che naso schiacciato, e che pelle scura. Deve avere sangue cambogiano nelle vene, o forse è una Cham. Hanno il sangue bello caldo.

Partiamo da una domanda semplice, ha detto il poliziotto di mezza età, issandosi goffamente sul tavolo, tra le gambe della donna. Come ti chiami? L'agente non ha risposto, ma quando l'uomo ha ripetuto la domanda qualcosa di primitivo si è risvegliato in lei; ha riaperto gli occhi, puntandoli addosso al poliziotto, e ha detto, il mio cognome è Viet, e il mio nome di battesimo è Nam. Per un istante, i tre poliziotti sono rimasti senza parole. Poi sono scoppiati a ridere. Questa puttana vuol proprio farsi castigare, ha detto il più giovane. Il poliziotto di mezza età, senza smettere di ridere, si è gettato con tutto il peso sull'agente, che gridava. Mentre guardavo il poliziotto che grugniva sopra di lei e gli altri due che si trascinavano intorno al tavolo, con i pantaloni alle caviglie e le ginocchia ossute in bella vista, mi è sembrato che in fondo fossero veramente tre topi, radunati intorno a un pezzo di formaggio. I miei compatrioti non hanno mai capito cosa significhi fare la fila perché nessuno vuole mai arrivare per ultimo, e mentre quei tre topi sgomitavano, ostruendomi la vista, tutto ciò che potevo vedere erano le loro chiappe sudate e le gambe dell'agente, che si dibattevano. Non gridava piú perché il poliziotto piú giovane aveva trovato il modo di tapparle la bocca. Sbrigati, ha detto. Perché ci metti tanto? Ci metto quanto mi pare, ha risposto il poliziotto di mezza età. Te la stai già spassando, no? (Basta parlare di questo!, gridò il maggiore crapulone, mettendosi le mani davanti agli occhi. Non ce la faccio più!) Eravamo impotenti, e siamo rimasti a guardare finché il poliziotto di mezza età ha raggiunto il culmine, con uno spasmo potentissimo. Il momento del piacere dovrebbe restare privato, a meno che tutti i presenti non siano coinvolti, come accade in un carnevale, o in un'orgia. Per chi guardava, quell'esplosione di piacere aveva qualcosa di disgustoso. Tocca a me, ha detto il piú giovane, staccandosi dalla bocca dell'agente, che ha potuto gridare di nuovo finché il piú anziano non ha preso il posto del collega, riducendola di nuovo al silenzio. Che schifo, ha detto il piú giovane, sollevandosi la camicia. Ha preso posizione sul tavolo, infischiandosene dello scempio lasciato dall'altro, e prima ancora che il poliziotto di mezza età si tirasse su la lampo, rischiando di farla incastrare alla coroncina di peli increspati che circondava il suo organo ormai floscio, si è messo all'opera, ripetendo i movimenti di chi lo aveva preceduto e giungendo, dopo pochi minuti, alla stessa, oscena conclusione. Infine è stato il turno del piú anziano, e quando è salito sul tavolo ho potuto vedere, senza piú impedimenti, il volto dell'agente. Benché ora fosse libera di gridare quanto voleva, non lo faceva piú, o forse non era piú in grado. Guardava dritta verso di me, ma con le viti del dolore che si stringevano sempre piú sulla sua mascella e sui suoi occhi, ho avuto la sensazione che non mi vedesse proprio.

Dopo che anche il piú vecchio ha finito, nella stanza è sceso il silenzio, scandito dai singhiozzi della donna e dal sibilo delle sigarette, ogni volta che gli altri due poliziotti aspiravano il fumo. Il piú vecchio, che si stava infilando la camicia dentro i pantaloni, si è accorto che lo guardavo, e si è stretto nelle spalle. Lo avrebbe fatto comunque qualcun altro. Perché non noi, allora? Il piú giovane lo ha interrotto. Non perdere tempo a parlare con quello. Tanto, non sarebbe mai riuscito a farselo drizzare. Guarda, non ha neppure toccato la sua Coca. Era vero, mi ero scordato di avere la bottiglia in mano. Non era neanche più fredda. Se non ha intenzione di berla, la dia a me, ha detto il poliziotto di mezza età. Non mi sono mosso, e lui, spazientito, ha fatto tre passi verso di me e me l'ha strappata di mano. Ha bevuto un sorso e ha fatto una smorfia. Le odio, le bibite calde. Lo ha detto quasi con cattiveria e ha fatto per restituirmi la bottiglia, ma io mi sono limitato a fissarla, stordito, quasi che la mia mente avesse perso sensibilità come era successo alle dita poco prima. Un momento, ha detto il piú anziano dei tre. Non c'è motivo di far bere una bibita calda al nostro Capitano quando c'è qualcuno che ha bisogno di una bella ripulita. Ha dato un colpetto sul ginocchio dell'agente, che sentendosi toccare e soprattutto udendo quelle parole si è rianimata, voltando il capo e fissandoci con un odio cosí intenso che tutti gli uomini nella sala avrebbero dovuto finire ridotti a un ammasso di ceneri fumanti. Ma non è successo niente del genere. Siamo rimasti tutti in carne e ossa, agente compresa, mentre il poliziotto di mezza età rideva, tappando la bottiglia con il pollice e scuotendola vigorosamente. Buona idea, ha detto. Ma vedrete quanto è appiccicosa, questa roba!

Sí, lo è anche il ricordo, appiccicoso. Dovevo aver messo un piede su un po' di quella roba, anche se i poliziotti avevano tirato secchiate d'acqua sull'agente e sul tavolo, e avevano passato lo straccio sul pavimento. (Sono stato io a ordinarglielo, disse il maggiore crapulone. E non sono stati certo contenti di pulire il loro stesso scempio, questo posso assicurarlo.) Quanto all'agente, che era ancora nuda sul tavolo, non gridava e non singhiozzava neanche più, e restava in silenzio, con gli occhi chiusi, il capo reclinato all'indietro e la schiena inarcata. Dopo averla inondata, i poliziotti si erano tirati indietro, lasciandole la bottiglia infilata dentro, fino al collo. Vedo tutto, da qui, ha detto il poliziotto di mezza età, piegandosi per guardare attraverso il fondo della bottiglia e assecondando un improvviso interesse ginecologico. Lasciami dare un'occhiata, è intervenuto il piú giovane, spostandolo con una spallata. Ma non si vede niente!, si è lamentato. Era uno scherzo, idiota!, ha urlato il piú vecchio. Ma certo, uno scherzo di pessimo gusto, una parodia da postribolo, comprensibile in tutte le lingue, e che infatti non era sfuggita neanche a Claude. Mentre i poliziotti giocavano al dottore con il loro speculo di fortuna, mi si è avvicinato e mi ha detto, Perché tu lo sappia, non gliel'ho insegnata io, questa cosa della bottiglia. Č tutta farina del loro sacco.

Erano dei bravi allievi, proprio come me. Hanno imparato bene la lezione, e anche io, perciò se tu potessi spegnere le luci e togliere la corrente al telefono, se potessi smetterla con queste scosse ogni minuto, se ricordassi almeno per un attimo che eravamo amici, noi due, e che forse lo siamo ancora, se potessi capire che non mi è rimasto piú niente da confessare, se la storia avesse preso una direzione diversa, se fossi diventato un contabile, se mi fossi innamorato della donna giusta, se fossi stato un amante piú virtuoso, se mia madre avesse fatto meno la madre, se mio padre fosse andato a salvare anime in Algeria invece di venire qui, se il Comandante non avesse tutto questo bisogno di cambiarmi a ogni costo, se la mia stessa gente non sospettasse di me, se mi vedessero come uno di loro, se dimenticassimo ogni risentimento reciproco, se ci scordassimo della vendetta, se ammettessimo che siamo tutti quanti marionette in un gioco nel quale sono altri a tirare le fila, se non avessimo combattuto gli uni contro gli altri, se alcuni di noi non avessero deciso di chiamarsi nazionalisti o comunisti o capitalisti o realisti, se i nostri bonzi non si fossero dati fuoco, se gli americani non fossero venuti a salvarci da noi stessi, se non avessimo comprato quello che ci vendevano, se i sovietici non ci avessero mai chiamati compagni, se Mao non avesse cercato di fare altrettanto, se i giapponesi non ci avessero insegnato la superiorità della razza gialla, se i francesi non avessero tentato di civilizzarci, se Ho Chi Minh non fosse stato dialettico e Karl Marx analitico, se la mano invisibile del mercato non ci avesse presi per la collottola, se gli inglesi avessero sconfitto le colonie ribelli nel Nuovo Mondo, se i nativi avessero detto, Cavolo, qui non ti ci voglio, quando videro i primi uomini bianchi, se i nostri imperatori e i nostri mandarini non si fossero scontrati tra loro, se i cinesi non avessero regnato su di noi per un millennio, se non avessero usato la polvere da sparo soltanto per i fuochi d'artificio, se il Buddha non fosse mai esistito, se la Bibbia non fosse mai stata scritta e Gesù Cristo non fosse mai stato sacrificato sulla croce, se Adamo ed Eva se la spassassero ancora nel Giardino dell'Eden, se il drago e la regina delle fate non ci avessero messi al mondo, se non si fossero separati subito dopo, se cinquanta dei loro figli non avessero seguito la madre sulle montagne, se altri cinquanta non avessero seguito il padre verso il mare, se la fenice della leggenda fosse veramente risorta dalle sue ceneri, invece di precipitare e bruciare nelle nostre campagne, se non ci fosse alcuna Luce e alcuna Parola divina, se il cielo e la terra non si fossero mai divisi, se la storia non fosse mai avvenuta, né come farsa né come tragedia, se il serpente del linguaggio non mi avesse morso, se non fossi mai nato, se mia madre non fosse mai stata violata, se non ti servono altre revisioni, e se le mie visioni sono finite... te lo chiedo per favore, potresti lasciarmi dormire?

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