Copertina
Autore Mikael Niemi
Titolo Il manifesto dei cosmonisti
EdizioneIperborea, Milano, 2007 , pag. 250, cop.fle., dim. 10x20x2,3 cm , Isbn 978-88-7091-153-4
OriginaleSvålhålet
EdizioneNorstedts, Stoccolma, 2004
PrefazioneLaura Cangemi
TraduttoreLaura Cangemi
LettoreRenato di Stefano, 2007
Classe narrativa svedese , fantascienza
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Indice


Congedo in riva al Liviöjoki         11
Terra                                15
Ponoristi                            19
Il tascapane                         41
Pietre                               48
Big Bang                             58
Pausa                                68
Emanuel                              71
Ghiaccio                             87
Il manifesto dei cosmonisti          95
Il groviglio                        103
La Buca della Cotica                121
Fermo!                              135
Androidi                            142
Rutvik                              163
Il metodo del galattosio            181
Turno di notte                      196
0,002                               203
L'ultimo angolo del tempo           217

Postfazione                         241


 

 

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Pagina 11

CONGEDO IN RIVA AL LIVIÖJOKI



Il narratore fa una sauna in riva al Liviöjoki e si congeda temporaneamente dal Tornedal.


Il sole, a nord, era basso sull'orizzonte della foresta. Il tremolante disco scarlatto si rifletteva sull'acqua, scomposto in larghe pennellate rosse che galleggiavano sulla superficie fluida. Seduto sulla riva, lasciai scorrere via la tristezza dal corpo. Nell'aria aleggiava l'odore greve del fango e della vegetazione di luglio. Era mezzanotte e un quarto e il silenzio regnava assoluto: niente vento, neanche un fruscio nel fogliame degli ontani. Solo l'impetuoso scorrere del fiume, migliaia di tonnellate d'acqua che s'inoltravano nelle vaste foreste, un dorso liquido nell'eternità. Si sarebbe potuto starlo a guardare all'infinito. Per quanto in perenne divenire, era sempre lo stesso fiume, esattamente come il fuoco. Il fuoco da campo dell'umanità: milioni di anni d'amicizia.

Radunai i tizzoni, guardando le fiamme che sprigionavano. In mezzo alla cenere brillava, rosso e intenso, il letto di braci. Il fumo saliva bianco e leggero, quasi trasparente, disperdendosi lento controcorrente lungo il solco del ruscello: una figura spettrale che serpeggiava sul pelo dell'acqua, precipitava di colpo, s'impennava e scompariva. A qualche centimetro dai tizzoni era sospeso un temolo, infilzato in un bastoncino affilato allo scopo. La pelle del pesce fremeva nel calore sprigionato dalle braci. Girai con cautela lo spiedo. Il temolo aveva abboccato alla foce di un ruscello a una mosca Westrin, per poi dimenarsi avanti e indietro con la grande pinna dorsale a ventaglio e per l'ennesima volta avevo percepito la vita. La vita, vicinissima. Ora il pesce arrostiva lentamente: era una prelibatezza da quattro, forse cinque etti. La vecchia canna da pesca della mia infanzia stava appoggiata a una betulla cresciuta storta, il cui tronco recava i segni di un disgelo violento. La testa e le interiora estratte dal pesce giacevano sulla spiaggia, insieme alle piccole scaglie argentee.

Tirai delicatamente la pinna dorsale. Si staccò: il pesce era cotto. Seduto davanti al fuoco, cominciai a mangiare con le mani, separando la polpa bianca dalle lische sottili come aghi e riempiendomene la bocca. Era come mangiare neve calda. Si scioglieva contro il palato, una serpentina di fumo. Fiume e fuoco. Chiusi gli occhi per preservare il ricordo, lo fissai nel mio cuore intenerito.

Sazio e rilassato, mi avviai lungo il pontile galleggiante. Le assi ondeggiavano sotto il mio peso, si sentiva sciabordare e sciaguattare. Camminavo sull'acqua. Passeggiavo sul pelo del fiume, mi scorreva sotto i piedi. Su una zattera ancorata con catene, in mezzo alla corrente, si trovava la casetta della sauna. Era fatta di tavole inchiodate tra loro: un grazioso fabbricato di legno ballonzolante sull'acqua.

Quando entrai nello spogliatoio, fui investito da un'ondata di calore. Pieno di aspettative, mi svestii e appesi gli abiti ai ganci. Come ultima cosa, aprii la birra che tradizionalmente accompagna la sauna e ne mandai giù il primo sorso spumeggiante. Avvertii il gusto del malto, il frizzante refrigerio in gola. Poi aprii la porta della sauna vera e propria. Il calore era intenso e resinoso. Con un bastoncino aprii lo sportello arroventato del forno, c'infilai un paio di ceppi e mi arrampicai sul banco più alto. Il ramaiolo luccicava nel secchio. Ne afferrai il manico di legno, liscio e levigato, lo riempii, lo tenni sospeso per un istante e osservai l'acqua del fiume stillare dal bordo.

Poi, lo capovolsi. La massa d'acqua fendette l'aria, si schiantò sul contenitore delle pietre e si trasformò in vapore graffiante e pungente. Ne versai ancora, sentendo bruciare i lobi delle orecchie, mi chinai pesantemente in avanti e respirai attraverso il pugno chiuso. Le dita odoravano ancora di pesce. E io provai una tale felicità. Una felicità intima, vulnerabile.

Il Tornedal.

Ci sarebbe sempre stato. Me lo sarei portato dietro, un anno luce dopo l'altro.

Dal Mommankangas si sente improvvisamente salire il rombo di un jet. Qualcosa di nero e pesante rompe il silenzio con il suo ronzio: parrebbe un P-42, uno di quelli della sicurezza. L'ultima notte, penso. Lultima notte sulla Terra.

Accaldato e fumante esco sulla piattaforma. Ho il sole calante negli occhi e con il piede nudo faccio leva sulle tavole di legno. Poi mi butto, di testa, con le braccia aperte. Veleggio.

Teso, mi avvicino alla superficie del fiume. Il mio dito indice sfiora il pelo dell'acqua con l'estremità del polpastrello. La pellicola si curva ma resiste: la luccicante tensione superficiale. Dagli abissi risale la mia immagine riflessa. Un gemello, traboccante di tenebre. È il fiume a fissarmi, a premere il suo dito contro il mio.

Tra pochissimo, un istante soltanto, verrò sommerso.

Ma noi ci fermiamo qui, osserviamo la scena nella mite luce obliqua. Un piano d'acqua scintillante contro un rigido dito puntato. Un corpo umano fumante in equilibrio su quella tremula pellicola. Una nuda, fluttuante coppia di gemelli e, tra loro, la superficie dell'acqua come un fulgido testo, un cielo stellato nero e riflettente.

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Pagina 15

TERRA



Una sera deprimente, me ne stavo seduto al bar dei cosmonisti sull'asteroide Segalzino. (Se c'è una cosa che mi ha sempre irritato, nei film di fantascienza, è proprio la mania di dare nomi squallidi e convenzionali ai corpi celesti abitati ancora sconosciuti. Si chiamano tutti Epsilon, Centaurus e simili: una totale mancanza di fantasia, insomma. Oppure, peggio, si ricorre a combinazioni di lettere in cui è invariabilmente compresa una X, come XCT, WXQ-Alpha e via di questo passo. Nella realtà i pianeti hanno quasi sempre nomi alquanto ridicoli che spesso suonano assurdi alle orecchie delle altre civiltà.)

Ero dunque seduto a un tavolino di plastica sull'asteroide Segalzino, intento a sorseggiare un bicchiere di yogurt vulcanico e guardavo attraverso l'oblò il cemento grigio sporco dell'hangar in cui stavamo facendo rifornimento di carburante. Esistono pochi posti deprimenti come queste desolate stazioni di servizio lungo l'anello metallifero esterno. È tutto attesa, luci al neon lampeggianti, un cielo stellato di bruciante solitudine, un angolo con dei giochi elettronici di bassa lega a cui un minatore quadrupede sperpera i soldi faticosamente guadagnati.

Al tavolo a gambo di fianco al mio erano seduti alcuni tetri gialliti intenti a sorseggiare cera in quantità decisamente eccessive per la loro salute. Alla fine, per pura disperazione, mi chiesero come si chiamava il posto da cui venivo.

"Terra", dissi.

Non capivano e non era soltanto colpa della cera: me ne accorsi dopo qualche istante. Lo tradussi in tutte le dieci lingue che ho nella testa e nelle ulteriori 340 contenute nel traduttore automatico, ma loro rimasero con tutti gli orifizi spalancati per la sorpresa.

"Terra", gesticolai. "Quella dove crescono l'erba e i fiori."

I gialliti parvero ancora più perplessi e alla fine andai all'ingresso, dove erano appese le tute spaziali dei pochi avventori e cavai da un'aiuola di cactus una manciata di terriccio. Tornai al tavolo e lo sparsi sul ripiano, dicendo che il mio pianeta si chiamava così. E quando capirono che era vero, che non stavo scherzando e nemmeno facendo lo spiritoso, scoppiarono a ridere al punto da far sbatacchiare le squame pilifere, avvinghiandosi l'uno all'altro con i tentacoli e sbuffando con le mascelle e dondolandosi avanti e indietro con la cera che fuoriusciva da tutte le parti e alla fine il minatore si voltò e chiese cosa ci fosse di così divertente e allora quelli risposero che venivo dalla Terra, indicando il mio mucchietto di terriccio e a quel punto anche lui scoppiò a ridere, sghignazzare, scompisciarsi facendo grandinare i gettoni per tutto il locale.

Che fare?

"Segalzino!" esclamai, cercando di sganasciarmi a mia volta, ma nessuno capì cosa intendessi, per quanto fosse un nome molto più ridicolo.

"Terra!" strillarono i gialliti facendo volar via con le loro sbruffate il mucchietto di terriccio. Ero costretto a uscire: non potevo assolutamente fermarmi. Mi avvicinai dunque alla palla di peli pesantemente truccata seduta alla cassa e tirai fuori il mio portafogli elettronico, ma in quel momento mi accorsi che si stava sbellicando al punto che per poco non si staccava dal gancio e tra un accesso di risa e l'altro cercava di bofonchiare che la mia consumazione era gratis, perché non si era mai divertita tanto e probabilmente avrebbe dovuto aspettare che ripassassi da quelle parti per farsi un'altra risata così e com'è che si chiamava poi il mio pianeta?

"Terra, e che cazzo."

A questo punto si scatenò una baraonda anche peggiore: si gettarono bocconi per terra, mentre un mascellamolla al tavolo accanto si univa alle risate, seguito a ruota da un paio di pelleragni intenti a mangiare dai loro piatti di crisalidi. Si contorcevano tutti in preda agli spasmi, sgocciolando e cominciando a sfaldarsi lungo i contorni.

"Terra!"

Peggio che mai: accessi ancora più sfrenati, tanto che due tirarono le cuoia, i pelleragni si fusero per poi coagularsi, mentre al banco era seduto un beonzo che ormai tendeva al viola e si teneva íl cranio.

"Terra! Terra!"

Il beonzo spirò con uno schiocco emettendo un'alitata acre e anche i gialliti erano ormai allo stremo e così pensai: se adesso ripeto Terra ancora una volta li faccio fuori tutti e dissi:

"Terra!"

E quelli, scossi dai singulti, si creparono all'interno e si misero a frustare il pavimento con gli arti contratti dagli spasmi e io pensai: merda, sarà meglio che me la batta, altrimenti li faccio schiattare tutti, non devo più ripetere Terra e dissi:

"Terra!" e fu un vero e proprio massacro, così me la filai saltando sul mio mezzo, avviai e decollai dal pianeta Segalzino per non rimetterci mai più piede.

Venni ricercato per omicidio di massa: sostenevano che li avessi massacrati con il laser e quando alla fine mi beccarono mi ritrovai davvero nei pasticci. Ci fu il processo e la mia unica testimone era la palla di peli del bar, rimasta menomata a vita. E quando il giudice volle sentire la mia versione, dissi che venivo dal pianeta Terra. Ma a quel punto lui si mise a sbellicarsi e anche tutta la giuria e i presenti e le guardie e i segretari, e nel caos che si era scatenato la palla di peli morì scossa dalle risate e così io uscii in punta di piedi oltrepassando le guardie che si contorcevano sul pavimento e pensai che non volevo avere altre vite sulla coscienza.

"Terra!" gridai per concedermi un minimo di margine e riuscii a farmi dare un passaggio da un cargo e da allora in poi ho sempre evitato quell'angolo della galassia.

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Pagina 58

BIG BANG



Al principio l'universo fu creato dal Big Bang. Così si è detto. Il nostro racconto inizia dunque con una pallina durissima. Pam, ed ecco che esplode in tutte le direzioni trasformandosi in uno spazio nero come il carbone, punteggiato di galassie, stelle e pianeti. E la gente si dichiara soddisfatta di questo. Pochi pongono delle domande critiche su tutto ciò, e la cosa è degna di nota. Perché, per esempio, l'universo è venuto fuori nero? Perché non bianco? Chi ha combinato questo casino?

E la pallina primordiale? Cosa c'era prima di quella? Se lo si chiede ai cosmologi incrociano gli occhi e borbottano che prima dell'inflazione dello spaziotempo (bla bla bla), lo spazio e il tempo non esistevano e per questo la domanda non è pertinente.

In pratica, non lo sanno. Non ne hanno la più pallida idea.

Non ha neanche un nome adeguato, quella pallina primordiale dura come la pietra. Quel punto primordiale, insomma. Singolarità, dice qualche scienziato. Oppure Superorigo, o una qualche altra espressione d'aria fritta che dal pulpito degli oratori suona bene. E dunque ci toccherà inventarne uno noi. La pallaccia, magari. O l'uovo, anche: l'uovo primordiale. O il grumo d'atomi. O la bomba stellare. O il macigno, il masso. O la pigna d'acciaio. O il globo pirico compresso.

Caspita, non è così facile.

Origo forse non è poi nemmeno sbagliato, a pensarci. Origo. Superorigo. Eh no, diamoci una mossa: spremiamoci le meningi, per favore. Cos'è la prima cosa a cui corre il pensiero quando si vede un blocco informe? Il gnocco. Eccolo lì! Il gnocco bollente.

Al principio c'era dunque il gnocco bollente. Per qualche ragione gli saltò in testa di bigbangare e dare origine a elementi chimici e galassie. Prima, però, se ne stava fermo e raccolto nel suo grumo informe e scottava da morire.

Prima ancora, tuttavia, non era proprio così bollente.

E all'inizio era tiepido, anzi, perfino freddo. Gelido. A quell'epoca il gnocco bollente era gnocco freddo e stava sospeso nel suo cielo simile a un ghiacciaio, come un grumo di materia fredda.

Quella fase durò una raggelante eternità. E la cosa strana era che nel corso di questo lungo spazio temporale, all'improvviso passò un'affusolata navicella spaziale. Tutta la strumentazione cominciò a oscillare violentemente, così l'astronave si mise in orbita intorno al blocco ghiacciato e temporeggiò. Dopo grandi dubbi, venne calato un lander giallino vagamente informe. Due molluschi tremolanti discesero cauti sul blocco di gnocco e tentarono invano di scalfirlo per prelevare qualche campione, ma era troppo duro. Duro come la pietra.

"Questa non è materia", disse il primo.

"Può darsi che sia una singolarità", suggerì il secondo.

"Secondo me è gnocco freddo, invece", obiettò il primo.

"Magari addirittura un grumo di gnocco freddo!" esclamò il secondo.

Lasciarono che l'intuizione si depositasse.

"È in attesa", disse il primo.

"È innegabilmente in attesa del suo momento", concordò il secondo.

"Cercate di non svegliarlo!" li avvertì un terzo dalla navicella madre, il quale si era già trovato nella stessa situazione e sapeva che se il blocco di gnocco freddo avesse cominciato a dare segni di vita sarebbero stati tutti spacciati.

"Lo si può svegliare?" chiese il primo.

"Come si fa a svegliarlo?" fece il secondo.

"Lasciatelo perdere!" ruggì il terzo. "Tornate alla navicella!"

Rimasero tutti in silenzio per qualche istante.

"Penso di sapere come si fa", disse il primo all'improvviso.

"E come?" chiese il secondo.

"Ci si toglie il casco", rispose il primo.

"Noooo!" si sentì crepitare dalla navicella madre.

Rifletterono ancora un pochino.

"Credo che lo farò", disse il primo.

E così aprì il collare e si sfilò il casco, rivelando una capoccia glabra e ovale. Si piegò in avanti, verso il basso, e sfiorò con la sommità a punta della testa la superficie liscia del blocco di gnocco freddo. Subito in quel punto si aprì una cavità.

"Noooooo!" strillò la navicella madre.

Con un risucchio bagnaticcio la testa fu ingurgitata nel buco e si staccò, lasciando la tuta spaziale con il corpo zuppo che si dimenava spasmodicamente, per poi calmarsi e restare immobile. L'altro, sconvolto, toccò cauto il punto in cui era scomparsa la testa. La superficie era tornata lucida e compatta come l'acciaio. Però non era più fredda.

"Eh?" sbottò.

"È stato fecondato!" gridò la navicella madre.

"Siamo perduti!"

"Con la testa?"

"Sì, ovvio che si feconda con la testa, deficiente! Guarda, tra poco si mette a bollire. Ahi ahi, è la fine!"

In effetti, la temperatura era salita. Da dentro si avvertiva uno sfrigolio, una pressione incandescente che si avvicinava velocemente alla superficie.

"Oops!" sbottò il secondo.

E con questa parola partì il Big Bang. Quell'esclamazione, oops, finì per rappresentare il principio e la nascita di tutto. Il resto lo sapete.


Ma adesso torniamo indietro nel tempo. Navicella spaziale? Sono sorpreso quanto te: come accidenti poteva esserci una navicella spaziale prima della nascita dell'universo? Ci toccherà chiederlo al più intelligente dei tre, il tipo sulla navicella madre.

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Pagina 125

Siamo dentro La Buca della Cotica, che emozione. Pensate a Hyeronimus Bosch, o a un film splatter. Qui lavarsi i denti non serve. Si schiva una scatarrata grossa come un pancreas che sfreccia attraverso il locale, ci si fa strada tra membrane fetali e branchie, ci si ritrova tutto il soprabito pieno di polline, si scansa una lingua appiccicosa che raccoglie molluschi da uno stomaco appena rifornito, si viene schizzati di sudore, fuliggine, bile, acqua minerale. Non ci sono tavoli liberi. Ci si sposta nella ressa come un testicolo vagante sballottato nello scroto senza riuscire a far presa. Poi si scivola, non si può evitare, si finisce lunghi distesi per terra ed ecco che subito arrivano i rospimelmosi a leccarti. Li si scaccia con i piedi, ma quelli tornano subito strisciando con le loro orride e schifose bocche piatte, impossibili da rivoltare sulla schiena a causa delle pinne a ventosa.

La puzza è tremenda. Pensate solo all'alito: alcuni avventori sono semplicemente inavvicinabili. I gorasacchi mezzo distesi che ruttano metano e composti solforosi e puzzano come un ammasso di uova marce appena rotte. O l'odore fresco e ferroso di sangue che emanano gli umanosauri nel ristoro dei predatori in fondo al locale. E poi tutte le esalazioni di acido formico e cavolo bollito e gas cloruro e sebo rancido e siero e colla e pelo e vecchi mozziconi che ti circondano da tutti i lati.

Con molta cautela ti fai strada fino al bar sgomitando tra rivestimenti cornei, penne caudali, lamine dorsali, squame anfibie e uniformi da cosmonisti in tutti i materiali sintetici dell'universo. Contemporaneamente ti infili la camicia nei pantaloni e dai una bella stretta alla cintura. Nella penombra sotto il bancone del bar, infatti, ci sono grappoli di trincasughe che aspettano pazientemente di trovare un po' di pelle nuda. Sempre in cerca di una bella sbornia, sono tremendamente tirchie e per questo tentano costantemente di scroccare dagli avventori. Si abbarbicano con la loro bocca a ventosa che secerne saliva anestetizzante e in un baleno collegano il proprio sistema circolatorio a quello dell'animale ospite, per poi restare lì appese all'inguine, come prugne, godendosi gratis e senza sforzo l'intera serata, man mano che sale il tasso alcolico nel sangue.

Tuttavia, una volta che finalmente si arriva al bancone, la scelta è davvero vasta.

E vai, ho ho ho!

Va detto, in effetti, che un bar intragalattico deve rispondere a determinati requisiti. Non basta una semplice birra doppio malto. L'alcol etilico è molto popolare tra certi esseri a base carbonio come noi terrestri, mentre altri preferiscono l'idrossido di sodio o il solfato alcaloide di 2,4,5-diammonio o anche il normale acido solforico da batteria svanito. In fondo non tutti i cervelli sono fatti allo stesso modo. Un Martini dry che rende euforico e chiacchierone me può mettere al tappeto un mammut volante o passare senza lasciare traccia nel corpo di un agotopo. Quel bicchierone verde che il ditogrillo seduto sul divanetto sta sorseggiando così di gusto consiste al novanta per cento di curaro. È dunque fondamentale non scambiarsi i bicchieri. Ogni tanto qualcuno schiatta, magari perché ha intinto il muso in un fondo di diossina o acquaragia o coltura probiotica. Soprattutto quest'ultima si è rivelata arsenico puro per tutti i robot con memorie a circuiti integrati biochimici. Dopo il primo sorsino di yogurt cominciano a cantare inni nazionalisti robotici, poi si gettano bocconi sul tavolo e piangono in modo straziante sulla mancanza di una patria e di tradizioni e allo stadio finale cominciano a menarsi finché non gli si staccano le lastre protettive e il biocervello sciolto dallo yogurt si spiaccica sul pavimento come gelato squagliato.

Il barista è un sudicio computer a forma di lattina che si sposta pigramente oscillando lento avanti e indietro.

"Ca' vuo'?" mugugna da dietro la bachelite, mentre l'unica lente sudicia ti fissa con aria ebete.

Deficiente, pensi tu, irritato. E poi, a voce alta, dici:

"Un Martini dry con buccia di lime e gin di barracuda e un'oliva chimica, non naturale, e mi raccomando lo stuzzicadenti di betulla di Erkehikki affumicato al ginepro e il bordo del bicchiere brinato con sale di luna senza iodio. Agitato, non mescolato, agitato e non..."

Pling, ed eccolo li.

Non è possibile. Succede così in fretta che uno quasi non riesce a vederlo: le braccia articolate da ragno saettano come falci in mezzo a tutte le bottiglie e i cassetti e le frotte di mensole e se chiedi qualcosa di particolarmente insolito come la betulla di Erkheikki affumicata al ginepro, il pavimento del bar si apre sulle viscere dell'asteroide e con uno schiocco di frusta una serpentina si abbassa producendo un bang sonico, e sulla punta ha una minuscola pinza che apre lo scomparto al titanio ermeticamente chiuso e afferra uno solo dei tanti stuzzicadenti profumati per poi tornare su e infilzare l'oliva chimica con un impercettibile pst.

Se ordini qualcosa di semplice, tipo Piña Colada, te la ritrovi davanti ancor prima di aver pronunciato l'ultimo "da".

Passi lo stick di credito nella fessura e osservi il barista raggiungere con la sua andatura dondolante il cliente successivo.

"Ca' vuo'?"

"Acido di fistola con mignotte spremute e iridio rigenerato."

Pst.

Esci sgomitando in mezzo al tanfo di olio di pesce e fonderia e nel frattempo sorseggi il tuo drink rimirando il cosmo. Ecco, è così: un'accozzaglia di vita più o meno intelligente giunta da tutte le galassie vicine. Ogni possibile e impossibile forma di vita che possa risultare dalla combinazione di elementi chimici.

È difficile descrivere la sensazione che si prova. Uno dei nostri medici di bordo, una donna venuta qui nel corso del suo primo viaggio di una certa durata, rimase seduta in un angolo a vomitare l'anima per tutta la sera.

"Peggio della mia prima autopsia", gemette in seguito.

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