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| << | < | > | >> |IndiceNietzsche filosofo e poeta STEFANO LANUZZA 5 Crepuscolo degli idoli 17 Premessa 19 Frasi e frecce 21 Il problema Socrate 27 La 'ragione' nella filosofia 35 Come il 'mondo vero' finì per diventare favola 42 Morale come contronatura 44 Quattro grandi errori 52 I 'miglioratori' dell'umanità 65 Cosa manca ai Tedeschi 71 Scorribande di un inattuale 81 Cosa devo agli antichi 137 Parla il martello. Così parlò Zarathustra 147 Nota biografica 149 Cronologia bibliografica 157 Nietzsche, scriba del caos 'Viva voce' di Ferruccio Masini (1928-1988) 165 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Secondo Gottfried Benn (Nietzsche cinquant'anni dopo, 1950), Friedrich W. Nietzsche è il gigante dominatore dell'epoca post-goethiana e il massimo genio linguistico tedesco, più ammaliante d'un antico sofista greco. Sarà da tale configurazione artistica, capace d'aggirare ogni codificato principio di non contraddizione, che può avviarsi un discorso sul pensiero d'un filosofo anomalo, per non pochi aspetti 'maledetto' e marcato da una perenne damnatio: filosofo diffidente e poeta capzioso che, per la programmatica asistematicità e la qualità anche letteraria della sua scrittura, è alfine leggibile quale autore 'totale'. Un autore nella cui opera, come in quella di altri talenti del linguaggio, convergono, anche con il 'male' (i risvolti reazionari di certi temi nietzschiani) d'uno spirito del tempo inarcato fra Otto e Novecento, i motivi della maggiore cultura occidentale, dalla tradizione filosofica, teologica, biologica, politica, filologica alle tematiche della psicologia, dell'estetica, dell'arte, dell'interpretazione dei simboli, degli istinti e delle paradossologie dell'amore, della psicoanalisi e della stilistica analitica, come della poesia e della letteratura nel suo complesso [...] Pensare il nichilismo non nei modi del fideistico uomo medievale, ma pensare un nichilismo che è svuotamento dell'iperrealistico luogo comune, concepire un reale più lieve ma più 'potente', è dunque il perspicuo impegno il destino del poeta anche filosofo. Un filosofo della poesia tragica e, dopo la morte di Dio, un poeta della filosofia e della vita 'eroiche': un filosofo che, "stanco dell'uomo" (Genealogia della morale) e delle sue superstizioni, affida la propria causa alla poesia. Stefano Lanuzza | << | < | > | >> |Pagina 19Mantenersi sereni in una situazione oscura e oltremodo gravida di responsabilità non è accortezza da poco: del resto, cosa sarebbe più necessario della serenità? Niente riesce se non ci si mette un po' di coraggio. Soltanto un eccesso di forza è dimostrazione della forza. Una trasvalutazione di tutti i valori, questo interrogativo così tenebroso, talmente grande da gettare un'ombra su chi lo pone avere per destino un simile compito costringe ogni momento a correre nel sole, a scuotersi di dosso una serietà divenuta pesante, troppo. Ogni mezzo è buono a tale scopo, ogni 'caso' è un caso fortunato. Soprattutto la guerra. La guerra è sempre stata la grande saggezza di tutti gli spiriti divenuti troppo interiori, troppo profondi; perfino nelle ferite c'è ancora una forza che risana. Già da tempo il mio motto preferito è una frase la cui origine tengo nascosta alla curiosità erudita: Un'altra guarigione, talvolta da me ben più desiderata, è prestare orecchio agli idoli... Vi sono nel mondo più idoli che realtà: tale è il mio 'cattivo sguardo' per questo mondo e anche il mio 'cattivo orecchio'... Battere qui, una buona volta, domande col martello e, forse, udire per tutta risposta quella cupa, nota risonanza che parla dai visceri gonfi quale delizia per uno che dietro le orecchie ne ha delle altre per me vecchio psicologo e stregone; davanti al quale deve gridare forte proprio quanto vorrebbe stare in silenzio... Anche questo scritto lo spiega il titolo è soprattutto uno sfogo, una macchia solare, uno scarto di lato nell'ozio d'uno psicologo. Altresì è forse una nuova guerra? E s'auscultano forse nuovi idoli?... Questo piccolo scritto è una grande dichiarazione di guerra; e, per quanto riguarda l'ascolto degli idoli, stavolta non si tratta di idoli del nostro tempo, ma di idoli eterni quelli che qui vengono toccati col martello come con un diapason non esistono idoli più vecchi, più persuasi, più boriosi di questi... E nemmeno più vuoti... Questo non impedisce che essi siano i più creduti. Si dice pure, perfino nel caso più nobile, che non siano per niente degli idoli... Friedrich Nietzsche Torino, 30 settembre 1888, nel giorno in cui fu concluso il primo libro della Trasvalutazione di tutti i valori. | << | < | > | >> |Pagina 211. L'ozio è il principio d'ogni psicologia. Ma come, la psicologia sarebbe forse un vizio? 2. Solo raramente anche il più animoso tra noi possiede il coraggio di ciò che veramente sa... 3. Per vivere soli bisogna essere un animale o un dio dice Aristotele. Manca il terzo caso: bisogna essere l'una e l'altra cosa un filosofo. 4. "Ogni verità è semplice". Non è questa una doppia menzogna? 5. Una volta per tutte, io non voglio sapere molto. La saggezza pone dei limiti anche alla conoscenza. 6. Nella propria selvaggia natura ci si ricrea nel miglior modo della propria non natura, della propria spiritualità... 7. Ma come, l'uomo non è che un errore di Dio? O forse Dio è solo un errore dell'uomo? | << | < | > | >> |Pagina 351. Mi chiedete cos'è che nei filosofi è intollerabile?... Per esempio la loro mancanza di senso storico, il loro odio verso l'idea stessa del divenire, il loro egizianismo. Essi credono di fare onore a una cosa quando la destoricizzano sub specie aeterni, facendone una mummia. Tutto ciò di cui per millenni i filosofi hanno fatto uso, erano concetti mummificati; niente di reale uscì vivo dalle loro mani. Quando adorano, questi signori che idolatrano il concetto, uccidono e impagliano quando adorano, diventano un pericolo mortale per ogni cosa. La morte, il mutamento, la vecchiaia come la procreazione e la crescita sono per loro delle obiezioni, addirittura delle confutazioni. Quel che è non diviene; e quel che diviene non è... allora tutti costoro credono, pure con disperazione, a ciò che è. Ma dal momento che non giungono a possederlo, cercano dei motivi che spieghino perché mai ne siano privati. "Dev'esserci una finzione, un inganno nel fatto che non percepiamo ciò che è; dove si nasconde il truffatore?". "Eccolo," gridano ebbri di gioia "è la sensibilità! Questi sensi, per il resto sempre così immorali, ci ingannano sul mondo vero. Morale: liberiamoci dall'inganno dei sensi, dal divenire, dalla storia, dalla menzogna la storia non è altro che fede nei sensi, fede nella menzogna. Morale: negare tutto quanto presti fede ai sensi, negare tutto il resto dell'umanità: questo è tutto 'popolo'. Essere filosofi, essere mummie, rappresentare il 'monotono teismo' con una mimica da becchini! E soprattutto basta col corpo, questa miseranda idée fixe dei sensi, affetto da tutti i possibili errori della logica, confutato, persino impossibile, eppure così sfrontato da credersi reale!"... | << | < | > | >> |Pagina 441. Vi è un tempo in cui tutte le passioni sono solo funeste, in cui esse deprimono le loro vittime sotto il peso della stupidità e un tempo più tardo, assai più tardo, in cui si sposano con lo spirito, si 'spiritualizzano'. Una volta, a causa della stupidità insita nella passione, si combatteva la passione stessa: si congiurava per annientarla tutte le vetuste mostruosità della morale concordano unanimemente sul dato che il faut tuer les passions. La più famosa formula al riguardo è nel Nuovo Testamento, in quel Discorso della Montagna dove, sia detto a parte, le cose non vengono assolutamente considerate dall'alto. Per esempio vi si dice, riferendosi alla sessualità, "Se il tuo occhio ti reca molestia, strappalo": fortunatamente nessun cristiano agisce secondo un simile precetto. Annientare le passioni e i desideri soltanto per prevenire la loro stupidità e le spiacevoli conseguenze della stessa, oggi ci appare soltanto come una maggiore stupidità. Non ammiriamo più i dentisti che strappano i denti affinché non dolgano più... D'altra parte si ammetterà, non senza ragione, che sul terreno su cui ha progredito il cristianesimo non poteva essere concepita per niente l'idea d'una 'spiritualizzazione della passione'. La Chiesa primitiva combatteva anzi, com'è noto, contro gli 'intelligenti' e a favore dei 'poveri di spirito': ora come ci si potrebbe aspettare da essa una guerra intelligente contro la passione? La Chiesa combatte la passione estirpandola in ogni modo: la sua pratica, la sua 'terapia' è la castrazione. Essa non chiede mai: "Come si può spiritualizzare, abbellire, divinizzare un desiderio?" in ogni tempo essa ha messo l'accento della disciplina sulla distruzione (della sensualità, della superbia, della sete di dominio, della sete di possesso, della bramosia di vendetta). Ma attaccare le passioni alla radice significa aggredire alla radice la vita: la prassi della Chiesa è nemica della vita... | << | < | > | >> |Pagina 651. Si sa quello che pretendo io dal filosofo, il porsi, cioè, al di là del bene e del male il tenere sotto di sé l'illusione del giudizio morale. Tale richiesta segue un'idea formulata per la prima volta da me: che non esistono fatti morali. Il giudizio morale ha in comune con quello religioso la fede in realtà inesistenti. La morale è soltanto un'interpretazione di determinati fenomeni, più esattamente una falsa interpretazione. Al pari di quello religioso, il giudizio morale implica un grado d'ignoranza cui perfino manca il concetto di realtà, la distinzione tra reale e immaginario: sicché, a un tale grado, 'verità' designa semplicemente delle cose che noi oggi definiamo 'chimere'. In questo senso, il giudizio morale non è mai da prendersi alla lettera: in quanto tale, esso racchiude sempre un controsenso. Comunque ha valore come semiotica: rivelando, almeno per il sapiente, le più preziose realtà culturali e interiori che non sapevano abbastanza per 'comprendere' se stesse. La morale è un semplice discorso di segni, una pura sintomatologia: occorre già sapere di cosa si tratta, per trarne un vantaggio. | << | < | > | >> |Pagina 811. I miei impossibili. Seneca, ovvero il toreador della virtù. Rousseau, il ritorno alla natura in impuris naturalibus. Schiller, il trombettiere morale di Sδckingen. Dante, la iena che fa poesia nelle tombe. Kant: o il cant come carattere intelligibile. Victor Hugo, il faro nel mare dell'assurdo. Liszt, la scuola dell'agilità nel rincorrere le donne. George Sand, ovvero lactea ubertas; in tedesco: la mucca da latte dal 'bello stile'. Michelet, l'esaltazione che si toglie i calzoni... Carlyle: ovvero il pessimismo come rigurgito del pranzo. John Stuart-Mill, l'offensiva chiarezza. I fratelli Goncourt, i due Aiaci in lotta con Omero. Musica di Offenbach. Zola: o 'il piacere di puzzare'. | << | < | > | >> |Pagina 1371. In conclusione, una parola su quel mondo dove ho cercato dei varchi, dove ho forse trovato un varco nuovo il mondo antico. Il mio gusto, che può darsi sia l'opposto di un gusto tollerante, è anche in questo caso lontano dal dire sì in blocco: in generale, esso non ama dire sì, gli piace di più dire no, e, più ancora, non dire niente... Questo vale per intere culture, vale per i libri come vale anche per luoghi e paesaggi. In fondo c'è soltanto un piccolissimo numero di libri antichi che contano nella mia vita, e i più celebri non sono tra essi. Il mio senso dello stile, dell'epigramma come stile, si destò quasi all'improvviso al contatto con Sallustio. Non ho dimenticato lo stupore del mio venerato maestro Corssen quando dovette dare il voto più alto al suo peggior latinista avevo finito in un battibaleno. Conciso, rigoroso, con alla base la massima sostanza possibile, con una fredda cattiveria verso la 'bella parola', e anche verso il 'bel sentimento' in ciò indovinai me stesso. Si riconoscerà in me, fin dentro il mio Zarathustra, l'ambizione, molto seria, di raggiungere uno stile romano, l' aere perennius dello stile. Non diversamente accadde nel mio primo incontro con Orazio. Fino a oggi non ho mai provato, con nessun poeta, lo stesso rapimento artistico datomi, fin da principio, da un'ode di Orazio. Quanto essa raggiunge, in certe lingue non lo si può neppure volere. Questo mosaico di parole in cui ogni parola diffonde la sua forza come un suono, come posizione, come concetto, a destra, a sinistra e su tutto, questo minimum nell'estensione e nel numero dei segni e questo maximum così realizzato, nell'energia dei segni tutto ciò è romano e, se mi si vuol credere, aristocratico par excellence. Tutto il resto della poesia diventa al suo confronto qualcosa di troppo popolare nient'altro che loquacità sentimentale...
2. Non devo ai Greci assolutamente nessuna impressione altrettanto intensa;
e, per esprimere ciò francamente, essi non
possono
essere per noi quel che sono
i Romani. Dai Greci non si
impara
la loro natura è troppo estranea, e anche troppo fluida per avere un
effetto imperativo, 'classico'! Chi ha mai imparato a
scrivere da un greco? Chi lo avrebbe mai imparato
senza i Romani?... E non mi si opponga Platone. In
confronto a Platone, io sono uno scettico radicale e
sono sempre stato incapace di concordare nell'ammirazione, tradizionale fra i
dotti, per il Platone
artista.
A questo proposito, ho infine dalla mia parte i più raffinati giudici del gusto
tra gli stessi antichi. Platone, a
quanto noto, mescola confusamente tutte le forme
dello stile, e in questo è uno dei
primi décadents
dello stile: ha sulla coscienza una colpa analoga a quella dei
Cinici, i quali inventarono la
satura Menippea.
Perché il dialogo platonico, questa specie di dialettica spaventosamente vana e
puerile, possa avere un effetto
stimolante, non si dovrebbe aver letto mai dei buoni
Francesi Fontanelle, per esempio. Platone è noioso.
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