Copertina
Autore Cees Nooteboom
Titolo Perduto il Paradiso
EdizioneIperborea, Milano, 2006 , pag. 164, cop.fle., dim. 10x20x1,5 cm , Isbn 978-88-7091-146-6
OriginaleParadijs verloren [2004]
PrefazioneFulvio Ferrari
TraduttoreFulvio Ferrari
LettoreAngela Razzini, 2006
Classe narrativa olandese , narrativa nederlandese
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PROLOGO



            "The pronoun I is better because more direct."

            Da: The Secretaries Guide, lemma The Writer,
            The New Webster Encyclopedic Dictionary of the
            English Ianguage — MCMLII



Dash-8 300. Sa il cielo se non ho volato con ogni genere di aeroplani, ma mai con un Dash. È un apparecchio piccolo e compatto, questo però sembra più grande perché ci sono pochi passeggeri. Il posto accanto al mio è libero. Evidentemente non c'è un grande interesse per un volo da Friedrichshafen a Berlino Tempelhof. Dal minuscolo edificio principale abbiamo raggiunto a piedi l'aeroplanino: un gruppetto sparuto e smarrito. Lì lo si può ancora fare. Ora aspettiamo. Il sole risplende, c'è abbastanza vento. Il pilota è già seduto davanti, maneggia qua e là, sento il copilota parlare con la torre di controllo. Chiunque viaggi spesso in aereo conosce questi momenti vuoti.

I motori non sono ancora stati avviati. Qualcuno si è già messo a leggere, altri guardano dal finestrino, ma non c'è molto da vedere. Io ho tirato fuori la rivista della piccola compagnia, ma non ho ancora voglia di mettermi a leggere davvero. La solita propaganda per la propria compagnia, poi un po' di dati sulle poche destinazioni che raggiunge, Berna, Vienna, Zurigo e qualche articolo su commissione, qualcosa sull'Australia e gli aborigeni, incisioni rupestri, pezzi di corteccia dipinti a colori allegri, tutto quello che è sufficientemente di moda negli ultimi tempi. Più avanti un reportage su São Paulo, un orizzonte pieno di grattacieli, palazzi di gente ricca e, naturalmente, gli immancabili bassifondi, ah, così pittoreschi, slums, favelas o come preferisci chiamarli. Tetti di lamiera ondulata, cadenti costruzioni di legno, persone che hanno l'aria di divertirsi ad abitare lì. Tutto già visto, non devo rimanere troppo tempo a guardare o mi prende la sensazione di avere cent'anni. Forse li ho davvero, cent'anni: basta moltiplicare l'età reale per una formula segreta, un numero magico in cui sono calcolati tutti i viaggi della propria vita e lo sconveniente senso di déjà vu che vi si accompagna, ed ecco che ci sei. Normalmente pensieri del genere non mi danno troppo fastidio, se non altro perché li trovo piuttosto banali, ma ieri, a Lindau, tre bicchierini di grappa alla frutta sono stati troppi, alla mia età queste cose si pagano. La hostess si affaccia al portello per guardare fuori, si direbbe che debba arrivare ancora qualcuno, e al suo arrivo si scopre che questo qualcuno è una donna, una di quelle che ti fanno sperare che si siedano accanto a te. È evidente che non sono poi così vecchio. No, non si siede accanto a me, il suo posto è nella fila davanti, vicino al finestrino, a sinistra del corridoio. Meglio ancora che se mi fosse seduta accanto: così posso osservarla bene.

Ha gambe lunghe e indossa pantaloni color cachi, un indumento maschile che la rende più femminile. Mani grandi e forti con cui ora estrae un libro da un involucro di carta cremisi accuratamente sigillata con il nastro adesivo. Le grandi mani non hanno la pazienza necessaria: visto che il nastro adesivo non cede all'istante, il pacchetto viene lacerato. Sono un voyeur. Uno dei più grandi piaceri del viaggiare sta nel seguire con lo sguardo gli sconosciuti che non sanno di essere osservati. Apre il libro con tanta fretta che non faccio in tempo a leggerne il titolo.

Voglio sempre sapere quel che leggono gli altri, ma di solito questi altri sono donne, perché gli uomini non leggono più. E le donne, ho imparato, che siano sedute in treno, sulla panchina di un parco o sulla spiaggia, tengono spesso i loro libri in modo che non si riesce a leggerne il titolo. Fateci un po' caso.

E anche se brucio di curiosità, non ho quasi mai il coraggio di chiedere. Sul frontespizio c'è una lunga dedica. Lei la legge piuttosto in fretta, e posando il libro sul seggiolino vuoto accanto a sé si mette a guardare fuori. I motori vengono avviati, l'aeroplanino comincia a scuotersi, vedo i suoi seni oscillare leggermente nella T-shirt aderente e lo trovo eccitante. Alza la gamba sinistra, la luce le illumina i capelli, castani con qualcosa di simile a un riflesso dorato. Ha messo il libro con la copertina rivolta in basso, nessuna possibilità di leggere il titolo. È un libro sottile, come piacciono a me. Secondo Calvino i libri devono essere brevi, e in genere si è attenuto a questa regola. Corriamo sul cemento. Soprattutto se si è su un aereo piccolo è sempre un momento di piacere quando ci si stacca dal suolo, tanto più se interviene subito una leggera corrente ascensionale e sembra che l'apparecchio riceva anche una piccola spinta dal basso, come una carezza, la stessa sensazione che si ha da bambini andando in altalena.

Le colline, ancora coperte di neve danno al paesaggio un carattere grafico: alberi spogli incisi su un foglio bianco, a volte non c'è bisogno di altro per rappresentare qualcosa. Lei non sta a guardare a lungo. Ha ripreso il libro e legge di nuovo la dedica, ma sempre con la stessa impazienza. Provo a invetarmi qualcosa in proposito – in fin dei conti è il mio mestiere – ma non arrivo a molto. Un uomo che deve farsi perdonare? Con i libri bisogna stare attenti. Regala il libro sbagliato o lo scrittore sbagliato e ti ritrovi in pericolo.

Lo sfoglia, ogni tanto si sofferma più a lungo su una pagina. Per un libro così piccolo ci sono parecchi capitoli. Il che significa un nuovo inizio ogni volta, e ci vuole una buona motivazione. Lo scrittore che rovina l'inizio o la fine di un libro non ne ha capito molto, e lo stesso vale in realtà anche per i capitoli. E chiunque sia quello scrittore, si prende un bel rischio. Ora ha di nuovo posato il libro accanto a sé, questa volta con il titolo verso l'alto, ma la luce che ha acceso sopra di sé si riflette sulla plastica della copertina in modo tale che non riesco comunque a leggere quelle parole, dovrei alzarmi per vedere meglio.

Cruising altitude, mi è sempre piaciuta questa espressione. Mi aspetto di vedere degli sciatori, in fondo voliamo al di sopra di nuvole dai pendii straordinariamente digradanti, questo non mi ha mai annoiato. A quell'altezza il mondo ha solo pagine bianche, ci si può fare quel che si vuole. Lei però non guarda fuori, ha preso la rivista della compagnia e la sfoglia a partire dalla fine. Ha tirato via su Sã Paulo, si è soffermata più a lungo su un grande parco verde e fissa ora le pitture degli aborigeni, di tanto in tanto si avvicina anche la pagina agli occhi e una singola volta la vedo anche seguire con le sue lunghe dita una strana figura di serpente su uno dei dipinti. Poi chiude il giornale e si addormenta immediatamente. Certe persone ne sono capaci, sonno a comando. Ha posato una mano sul libro, l'altra l'ha passata dietro la nuca, sotto i capelli dai riflessi rossi. L'enigma rappresentato dagli altri esseri umani mi ha appassionato per tutta la vita. Io so che c'è una storia, e so che non la conoscerò mai. Anche questo libro rimarrà chiuso come tutti gli altri. Quando, più o meno un'ora dopo, atterriamo a Tempelhof, ho scritto un quarto dell'introduzione a un libro fotografico sugli angeli dei cimiteri. Sotto di me ci sono i grigi edifici di Berlino, il grande squarcio della storia che ancora attraversa la città. Lei si pettina e prende la carta color cremisi per riavvolgervi il libro. Se l'appoggia sulle gambe e la liscia: non so perché, ma il gesto mi commuove. Poi prende il libro e per un istante lo tiene sollevato in modo che riesco a leggere il titolo.

È questo libro, un libro da cui ora lei scompare insieme a me. Mentre sono nella lunga sala, in attesa del mio bagaglio, la vedo uscire rapidamente, incontro a un uomo che l'aspetta. Lo bacia in fretta, la stessa fretta con cui ha guardato il libro, di cui conosce solo la dedica scritta a mano, la dedica che io non ho letto e non ho scritto.

Il bagaglio arriva presto, quando salgo la vedo sparire in un taxi insieme all'uomo. Resto come al solito indietro con qualche parola, e con la città che si chiude su di me come una morsa.

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È per via di Almut che sono arrivata fin qui. Almut ha un nonno tedesco, come me. Insieme siamo Almut e Alma, già dai tempi della scuola. Ridiamo insieme dei nostri nonni, con quel loro strano accento, che sono venuti in Brasile dopo la guerra e non vogliono mai parlare del loro passato. Sono malati di nostalgia, ma indietro non ci tornano, mugolano ascoltando Fischer-Diskau e i Kindertotenlieder, e desiderano che la Germania vinca il campionato mondiale di calcio. Della guerra non vogliono parlare mai, e i nostri padri non vogliono parlare dei loro padri. Non vogliono nemmeno imparare il tedesco, i nostri padri. Noi sì, anche se è una lingua infernale. Tutto è sempre al contrario, tutto quel che è maschile diventa femminile, la morte è un maschio, il sole una femmina, la luna un altro maschio, pazzesco. Una lingua infernale da imparare, voglio dire, non da ascoltare, tranne quando è gridata. Almut è alta e bionda, tutti i brasiliani sono attratti da lei. Io le arrivo alle spalle, è sempre stato così, fin da quando eravamo bambine. A me piace, diceva Almut, così posso passarti il braccio intorno alle spalle. Io la trovavao più bella, ma lei riteneva di essere troppo alta. Sono l'archetipo della madre germanica, diceva sempre. Avrebbero dovuto chiamarmi Brunilde. Guarda il seno: quando cammino per la strada mi trovo subito dietro una mezza scuola di samba. Questo problema tu non ce l'hai. È per via dell'ombra. Quella dell'ombra era una sua teoria. C'è un'ombra dentro di te. Ma che genere di ombra? Nei tuoi occhi. Sotto i tuoi occhi, nella pelle, dappertutto. E che cosa sarebbe? Questo è il tuo segreto. E poi, la sera, mi guardavo allo specchio e non vedevo niente. O meglio: vedevo solo il mio viso. Io non so se ho un segreto. Non è questo il punto, diceva allora Almut. Tu sei un segreto, non lo sai nemmeno tu. Non si sa mai che cosa pensi, e se dici qualcosa il tuo sguardo non corrisponde a quel che dici, è sempre come se ci fosse qualcos'altro, qualcosa a cui gli altri non hanno accesso. Ti darà dei problemi, ma non devi averne paura.

Non so quando sia avvenuto questo dialogo, forse quando avevamo quindici anni, ma non l'ho mai dimenticato. E come se ci fosse sempre qualcuno con te, mi ha detto anche. Abbiamo sempre fatto tutto insieme, i nostri primi ragazzi non riuscivano a sopportarlo. Potevamo starcene per ore distese sull'amaca in veranda a parlare di cosa avremmo fatto in futuro. Avremmo studiato storia dell'arte, questo era deciso. Lei arte moderna, io il Rinascimento. Mi fanno star male tutte quelle crocifissioni e quelle annunciazioni, diceva sempre. Non eravamo mai d'accordo. Delle crocifissioni faccio volentieri a meno anch'io, per quanto sia interessante vedere come tanti artisti diversi trattino uno stesso soggetto ma se c'era una cosa per cui andavo pazza erano proprio le annunciazioni. Ho una mania per gli angeli. Raffaello, Botticelli, Giotto, basta che abbiano le ali. E perché vorresti poter volare anche tu, dice Almut.

E tu no? No, io no. Nella sua stanza c'era Willem de Kooning appeso alla parete. E Dubuffet, e tutti quei corpi e quei volti frammentati dei cubisti che io non sopportavo. Io invece avevo gli angeli. Almut diceva che era la mia voliera. Quel che mi irrita, diceva spesso, è che non sai se sono maschi o femmine.

"Sono maschi."

"Come fai a saperlo?"

"Perché hanno nomi da maschi: Michele, Gabriele."

"A me sembrerebbe più logico se fosse stata una donna ad andare a dire a Maria che aspettava un bambino."

"Le donne volano in modo diverso."

Questa affermazione, naturalmente, non aveva alcun fondamento, visto che non avevo mai visto volare una donna. Ma certe cose si sanno. Le discese in picchiata degli angeli in Giotto da Bondone derivano direttamente dall'osservazione di una cometa: quegli angeli attraversano il cielo a tale velocità da lasciare dietro di sé una scia luminosa in cui i loro piedi sono già svaniti. Una donna non volerebbe mai così.

"A volte sogno di volare", diceva Almut. "È sempre una cosa molto lenta, forse hai ragione tu. Come faranno ad atterrare?"

Mi ricordo ancora bene quel momento. Ci trovavamo di fronte al mio quadro preferito, agli Uffizi, a Firenze: L'Annunciazione di Botticelli. Nemmeno cinque minuti prima mi aveva detto che non ne poteva più di tutti quegli esser alati.

"Mi trascini su e giù per l'Europa a vedere quelle creature. Mettiti un po' nei panni di Maria. Te ne stai seduta tranquilla in camera tua, ignara di tutto, e ad un tratto senti il rumore di quelle ali, come se si stesse posando a terra un uccello enorme. Hai mai pensato al rumore che devono fare? Già senti volare un piccione, figurati quelle ali lì che sono cento volte più grandi! Devono fare un fracasso inimmaginabile. Crew prepare for landing."

Io però non volevo ascoltarla. L'ho fatto per tutta la mia vita. Se succede qualcosa che mi tocca nell'intimo, nel mio segreto, come direbbe Almut, io mi assento. So bene che ci sono persone intorno, ma per me non esistono più, di chiunque si tratti.

"E quasi fastidioso", ha detto una volta Almut.

"Sei via, completamente, e so che non fai solo finta."

"Concentrazione."

"No, è molto più di questo. È assenza. È come se non avessi più nessuno accanto. Prima mi offendevo, mi sembrava una forma di disprezzo. Come se non esistessi nemmeno più. In realtà però sei tu a non esistere più."

Ma io non ascoltavo. Vedere per la prima volta un quadro che si conosce solo in riproduzione è una specie di allucinazione. Non può essere vero che questo sia l'oggetto reale, che un giorno di centinaia di anni fa lo stesso Botticelli, data l'ultima pennellata, sia rimasto a contemplare con occhi ormai scomparsi da secoli. Sento che il pittore deve trovarsi ancora vicino al quadro, che vorrebbe toccarlo, ma non può. È passato tanto tempo che quel quadro è diventato qualcosa di completamente diverso, e tuttavia è sempre lo stesso oggetto materiale: è questo che mette i brividi. L'incanto dell'autentico mi dà una specie di vertigine che non sono in grado di descrivere. Se poi dovessi anche prestare attenzione alla gente che si avvicina al quadro, si ferma un attimo a guardarlo e poi prosegue, credo che sverrei. Ho assistito una volta a una sessione di candomblé, a Bahia. La donna che danzava era completamente distaccata dal mondo, se qualcuno l'avessa strappata alla trance in quel momento sarebbe caduta a terra. È una cosa del genere.

Isterismo silenzioso. Anche questo l'ha detto Almut. Ridendo, ma l'ha detto.

Io ormai sono all'interno del quadro. Un pavimento rosso a piastrelle rettangolari, uno schema severo, una quantità di linee rette a fare contrasto con il turbinio di pieghe e drappeggi nelle vesti delle due figure. Anche per loro il resto del mondo non esiste. C'è un assoluto silenzio, l'angelo è appena arrivato, è inginocchiato su un ginocchio solo, ha sollevato la mano destra verso la donna che, leggermente piegata verso di lui, lo sovrasta. Le loro mani quasi si sfiorano, c'è un senso di lancinante intimità. Entrambi hanno allargato le dita, come se fosse questo il linguaggio in cui vogliono esprimersi, perché non è stata pronunciata ancora alcuna parola. La donna non guarda l'angelo, altrimenti scorgerebbe il timore che accompagna la venerazione. Penso che la maggior parte delle persone non rifletta mai sulla follia di quell'annuncio. Un uomo alato è appena entrato in volo, le sue ali sono ancora un po' sollevate. Fuori, l'indifferente paesaggio con quell'unico, alto albero nella luce mediterranea. È latore del messaggio di un mondo che è lontano milioni di miglia e, allo stesso tempo, vicinissimo, in cui tempo e distanza non esistono, un mondo che si è ora annidato dentro la donna. Io non so cosa sia il divino, o meglio: non so descriverlo. Non so se gli esseri umani possano sopportare il contatto con il divino, non credo che sia possibile. Ma se davvero accade, deve essere come in quel quadro.

"Ma tu credi a tutte quelle assurdità?" Era ovvio che Almut me l'avrebbe chiesto.

"No, ma in quel quadro è tutto vero. Questo è il punto."

In quell'istante fuori si mise a suonare l' angelus, e anche questo era il punto. Certi racconti hanno il potere di far suonare le campane duemila anni più tardi, in un mondo di computer, e Botticelli lo sapeva.

Più o meno un'ora dopo eravamo sul Ponte Vecchio a guardare l'acqua dell'Arno che scorreva rapida sotto di noi, e Almut ha detto: "Immaginati un po'..."

"Immaginati un po' che cosa?"

"Di andare a letto con un angelo. Le ali sono un extra, un gran sbattere e frusciare al momento dell'orgasmo. Poi le dispiega e ti porta in volo con sé. L'esperienza più simile che ho avuto è stata con un pilota, e non è stata un gran che."

"L'unico angelo di cui ci si può innamorare è quello di Toledo, quello del Greco, con quelle ali fantastiche, che sale verso il cielo come se ce lo trascinassero."

"Con quel nasino all'insù? Lascia perdere. Però ha forza, questo è vero."

Almut mi riporta sempre con i piedi per terra.

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Il giorno dopo, quando ripartiamo, è in piedi sulla terrazza. Il nostro vecchio macinino giapponese fa un rumore d'inferno, ma noi siamo entusiaste. Almut canta mezzo repertorio di Maria Bethania, di tanto in tanto veniamo sospinte di lato da un road train, gli autisti ci urlano dietro ridendo e facendo gesti osceni. È ottobre: the Wet, la stagione umida è incominciata, ma le grandi piogge arriveranno solo tra un po'. Dopo quaranta chilometri svoltiamo a sinistra in direzione della Terra di Arnhem. Almut mormora i nomi dei posti, Humpty Doo, Annaburroo, Wildman Lagoon. A un certo punto dobbiamo scegliere tra Jabiru e Ja Ja, ma sulla carta non riesco a trovarle e la strada si trasforma in una pista rossa, e la pista rossa in un'infinita ripetizione di se stessa, circondata da una boscaglia secca e immobile.

Scendiamo quando arriviamo a un fiume, il silenzio sussurra con suoni ignoti. Crocodiles frequent this Area. Keep Children and Dogs away from Water's Edge. Guardo la superficie nera, scintillante, la terra rossa ai miei piedi, foglie secche di eucalipto come lettere dell'alfabeto di una cassa di composizione rovesciata. Su questa strada non c'è quasi traffico, siamo sole nella nostra nuvola di polvere, e così vediamo arrivare da molto lontano quei pochi che passano: nuvole, apparizioni. Sono felice. A Ubirr dobbiamo camminare per un'ora.

"Maestoso", mormora Almut. La guardo per capire a cosa si riferisce e lei indica tutt'intorno a sé, poi mi passa il braccio intorno alla spalla come per proteggermi da qualcosa, ma da cosa?

"È tutto così antico", dice infine. "Ho la sensazione di essere smisuratamente antica anch'io, come se fossi sempre stata qui. Il tempo non è niente, una scoreggia. Qualcuno potrebbe semplicemente soffiarci via, mille anni in più o in meno non significano nulla. E tornando indietro non ci riconosceremmo nemmeno più. Lo stesso cervello, ma con un altro software. So di cosa parlo, ho guardato troppo a lungo negli occhi degli aborigeni. A te non dà problemi? Mille anni, diecimila anni e sempre gli stessi occhi, lo stesso paesaggio. Sono l'eternità di se stessi, è impossibile sopportarlo." Poi si mette a ridere e dice: "Licenziata per eccesso di serietà." Ma ha ragione. Pietre, alberi, massi, tutto cerca di piantarti dentro la sua schiacciante antichità; non c'è voce umana a distrarti; la grigia, maligna lucentezza delle pietre respinge gli intrusi, non c'è da meravigliarsi se pensano che questa terra sia sacra. Mormorio di cespugli, brusio di animali invisibili. Abitavano qui, sotto questa parete di roccia inclinata cercavano riparo, giù in basso e sopra le loro teste dipingevano e disegnavano gli animali da cui traevano nutrimento, e di cui più tardi annoto i nomi: barramundi, il grande pesce; badjalanga, la tartaruga dal lungo collo; kalekale, il pesce gatto; budjudu, l'iguana.

"Io mi sdraio", dice Almut. "Mi viene il torcicollo."

Mi sdraio accanto a lei.

"Si dovrebbe poterlo fare anche nella Cappella Sistina", esclama, ma io mi sono già persa, è come se mi trovassi all'interno di un grande vaso miceneo di ceramica, pesci immaginari nuotano verso il fondo, la raffinatezza del tratto, i piccoli uomini bianchi lì accanto, così umili, senza volto, come se volessero dire che loro in realtà non c'erano. Continuando a osservare noto che la roccia ha cento colori: l'erosione, la disgregazione, i funghi, il tempo, tutto si è annidato nella pietra, e sopra è tracciata l'immagine che era esistita lì fuori come realtà viva, e che ha dovuto passare attraverso qualcuno per poter rinascere qui nei colori del suolo, immobile, iscritta, incisa nel tempo.

Vorrei dire qualcosa, ma non so come. Qualcosa su quel che ha appena detto Almut, che il tempo è una scoreggia, ma cose del genere sa dirle solo lei, a me vengono sempre fuori parole confuse e solenni. Questi disegni hanno ventimila anni, così ha detto Cyril, e gli zeri smettono di essere numeri e si trasformano in materia, in un tessuto che mi avvolge. Quello che vedo e quello che sono si trovano sospesi in uno stesso continuum che, come un tappeto magico, abolisce il tempo, lo annienta, gli toglie valore, facendone un elemento come l'acqua e l'aria, un elemento in cui posso muovermi in qualsiasi direzione, non solo in quell'unica che porta al punto dove si conclude la parte che mi appartiene.

"Ferma, ferma", dice Almut, ma ormai ci siamo già alzate e dalla roccia siamo salite verso il plateau. Giù in basso si apre un paesaggio che si protrae fino ai limiti del mondo visibile. È il paesaggio di un sogno, dimora di figure divine. Un rapace si libra in alto, immobile, come se avesse solo il compito di sorvegliarlo. Altri uccelli, bianchi, nuotano su una superficie paludosa ai margini di un bosco. Sotto di noi, ai piedi della roccia, aguzze piramidi di termitai, palme minuscole come fili d'erba, blocchi di pietra d'un tempio distrutto.

"Non volevo prenderti in giro", dice Almut. "Capisco quel che vuoi dire, solo che non potrei mai esprimermi in quel modo. Ha qualcosa a che fare con la malinconia, ma anche con l'esultanza."

"Sì", concordo, e vorrei aggiungere che l'esultanza sta nel fatto che per lo spazio di un istante sei consapevole di essere al tempo stesso mortale e immortale, ma non dico niente. "Il tempo è una scoreggia" è molto più breve, e forse vuol dire la stessa cosa. Il paesaggio che vedrete ha sessanta milioni di anni, ha detto Cyril. Yellow Water, Alligator River, il colore della cenere, alberi della gomma rivestiti di bianco tra gli acquitrini color verde muschio, la traccia di un fiume morto, l'insanguinata parete rocciosa dove un mostro ha morso la terra, basta, dobbiamo andare. Una volta, molto tempo fa, in una stanza di São Paulo, abbiamo iniziato questo viaggio. Ora siamo arrivate.

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Gli angeli non esistono, ma hanno una gerarchia, come nell'esercito. Volano qua e là negli affreschi, portano liete novelle in Raffaello e in Giotto, si ergono come guardiani pietrificati presso le tombe dei ricchi a Genova e a Buenos Aires e accompagnano con una spada infuocata gli esiliati alle porte del paradiso. Hanno nomi, corpi e ali; non hanno sesso, comunque non sono donne; sono immortali e nessuno ha mai trovato un loro scheletro, e così nessuno ha mai potuto studiare come le ali, più grandi di un essere umano, si colleghino al resto della loro struttura ossea. In breve, appartengono al mondo che conosciamo pur senza esistere, e tuttavia la donna snella e piuttosto piccola che ora gli stava davanti in un'austriaca stanza per i massaggi aveva, l'ultima volta che l'aveva vista, due grandi ali grigie, scintillanti d'argento. Al loro primo incontro non aveva potuto vederla in viso, perché allora stava rannicchiata sul fondo di un armadio, rivolta al muro e con le ginocchia sollevate, e non l'avrebbe visto nemmeno adesso, perché con il tono di tutte le massaggiatrici del mondo gli disse che doveva stendersi a pancia in giù. Ubbidì. Sentiva battere forte il cuore come sentiva tremare le sue mani, mani che avevano toccato il suo corpo per l'ultima volta tre anni prima. Era accaduto a Perth, nell'Australia sud-occidentale, a qualche migliaio di chilometri da Sydney, dalla parte opposta del continente. Lei non disse niente, nemmeno questa volta. Il tempo tra passato e presente venne risucchiato via con forza inaudita, provocandogli una vertigine che lo costrinse ad aggrapparsi con entrambe le mani al lettino da massaggio.

"Non essere così nervoso", gli disse piano la voce ancora familiare, un po' roca, con quell'accento che la prima volta non aveva saputo collocare. Provò a rispondere qualcosa, ma la posizione e il panno gettato con noncuranza sull'apertura del lettino fecero sembrare le sue parole un singhiozzo. Lei gli posò per un istante la mano sul capo, il che non fece che peggiorare le cose. Tutto il dolore che evidentemente aveva tenuto nascosto tanto bene da illudersi che non esistesse più ritornò con forza e con rabbia, come se una benda venisse tolta con uno strappo brutale e malvagio da una ferita. Provò ad alzarsi per guardarla, ma lei ora gli premeva la testa sul lettino con una specie di presa a terra. "Dopo", gli disse. "Dopo", e come se fosse una parola magica lui sentì il proprio corpo rilassarsi, sentì fluire di nuovo a sé il tempo perduto, si sentì di nuovo avvolgere dalla follia della loro storia, una storia che, nonostante quella follia, era così comprensibile. Voleva chiederle cento cose tutte in una volta, ma sapeva che ora non era possibile. Era l'unico uomo a essere stato abbracciato da un angelo, sentiva ancora quelle ali, che ora lei non aveva più, chiuderglisi intorno, e mentre lo massaggiava, no, proprio perché lo stava massaggiando, si abbandonò a tal punto al suo ricordo da sembrargli di tornare a scivolare nel suo passato come per nascondervisi dentro. Forse sprofondò addirittura nel sonno.

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