Copertina
Autore Cees Nooteboom
Titolo Avevo mille vite e ne ho preso una sola
EdizioneIperborea, Milano, 2011, n. 194 , pag. 178, cop.fle., dim. 10x20x1,5 cm , Isbn 978-88-7091-194-7
OriginaleIch hatte tausend Leben und nahm nur eins. Ein Brevier [2008]
CuratoreRüdiger Safranski, Fulvio Ferrari
TraduttoreFulvio Ferrari
LettoreGiovanna Bacci, 2011
Classe narrativa olandese , narrativa nederlandese
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Indice


Premessa                         11


Lampi di genio                   17

Immagini                         27

Ritratti, caratteri              45

Perché viaggiare?                67

Luoghi, percorsi                 73

Stagioni, maree                  97

Momenti, storici                103

Sull'Europa                     121

Fantasticare e ricordare        129

Scrivere                        139

Leggere                         151

Amare                           159


Indice delle fonti              169
Cronologia                      173



 

 

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Pagina 11

PREMESSA



Non solo i poeti e gli scrittori, ma soprattutto loro dimostrano che in una vita c'è spazio per più biografie. Si fanno esperienze e poi si inventano storie che vi si richiamano. È il poeta ad avvalersi ín modo particolare di questo diritto a più vite. "La trasmigrazione delle anime", scrive Nooteboom, "non avviene dopo, ma durante la vita."

La trasmigrazione dell'anima di Nooteboom come autore ha inizio con il suo primo romanzo Philip e gli altri (1955). Qui si proietta con struggimento e nostalgia in un'altra realtà, sulle orme del vecchio romanticismo. "Sogno che sogno" è la massima ripresa da Paul Éluard. Si racconta di come Philip viaggi per l'Europa in autostop, incontri persone singolari, alla ricerca di una giovane dai tratti cinesi che non ha mai visto e che conosce solo attraverso racconti. La troverà alla fine, per perderla. "Il paradiso è li accanto." Una professione di magia poetica ancora incontrastata. L'ironia, che pure appartiene al romanticismo, arriva più avanti in Nooteboom. Viaggiatore appassionato, doveva aver fatto più conoscenza del mondo prima di poter relativizzare l'incanto della poesia, senza rifiutarlo.

L'ironia regge la tensione tra la realtà e la fantasia. Non cede né alla fantasia né all'asettico senso di realtà, ma con entrambe le prospettive conduce il suo gioco relativizzante. L'ironia romantica si impara molto bene viaggiando, perché si ha modo di constatare che a volte la realtà è più fantastica di qualsiasi fantasia.

Chi viaggia non scopre solo nuovi mondi ma conosce un nuovo se stesso. Diventa un altro. Era questo il desiderio del giovane Nooteboom. Dopo il suo primo romanzo era qualcuno. Uno scrittore. Vagava per Amsterdam, così racconta, da "dandy squattrinato", con giacca di velluto, sciarpa colorata e bastone da passeggio. Presto leva l'ancora, in un certo senso segue le orme dell'eroe del suo romanzo. Per via di una ragazza del Suriname si arruola da marinaio semplice e si imbarca per i Caraibi, scrive poesie, reportage, racconti brevi. Ma quel primo libro di levità poetica grava pesantemente su di lui. Come se fosse costretto a scrivere, solo perché un giorno ha iniziato a farlo. E così nel 1963 Nooteboom pubblica un secondo romanzo, per liberarsi dal primo: De ridder is gestorven. Il tema centrale è il disgusto per la letteratura. Nooteboom definisce quest'opera un "congedo dalla letteratura": "pensai, adesso è stato detto tutto, non c'è più niente da fare." Quello che non gli fu più possibile fare fu scrivere un nuovo romanzo, per diciassette anni. Nel frattempo pubblica poesie e libri di viaggio poetici, dando nuovo lustro al genere.

Con questo congedo temporaneo Nooteboom aveva creato una distanza necessaria, per poter tornare al romanzo con nuova leggerezza, saggezza, e appunto ironia. Nel 1980 uscì Rituali. Tra questo romanzo e il geniale esordio c'è una frattura, ma anche continuità. In entrambi si parla d'incanto. Philip e gli altri incanta, Rituali illustra con ironico distacco come altri si lascino incantare. Si gironzola con i protagonisti attraverso la scena di Amsterdam degli anni Settanta, si osservano i rituali dietro cui si barricano le persone per dare senso e significato alla propria vita. Sicuramente il tono non è più lirico, ma il potere vitale dell'immaginazione e della fantasia è anche qui il grande tema. L'immaginazione può traviare, ma è anche un aiuto contro la desolazione. "Per me", scrive Nooteboom, "esiste un'unica forza che consente di sopportare quest'esistenza terrena posta fra le nostre due infinite assenze, ed è la forza della fantasia."

Nel suo racconto Il canto dell'essere e dell'apparire (1981), Nooteboom formula una domanda che ribolle nel profondo di ogni poeta degno di questo nome: "Perché aggiungere un'altra realtà, inventata, accanto a quella esistente?"

Se siamo già abbastanza impegnati a convivere con la realtà, perché complicare le cose confrontandoci anche con delle finzioni? Ma, così Nooteboom, è davvero possibile separare in modo netto la realtà dalla finzione? La realtà non viene mai vissuta direttamente. In mezzo si insinuano sempre immagini, alcune assorbite dall'esterno, altre prodotte dalla nostra immaginazione. Viviamo in un bozzolo di immagini, e molto dipende dalla loro natura: se sono ricche, allora anche la nostra realtà sarà ricca, se sono povere, vivremo in un deserto. Il rapporto tra realtà e finzione è dunque più complesso di quanto si creda. E se è così difficile distinguere tra finzione e realtà, allora la poesia ha una chance. Può di nuovo rappresentare qualcosa che non può essere messo in discussione senza demolire la cosiddetta realtà. Come possono le persone reali "far comprendere l'una all'altra i problemi della loro breve e passeggera vita, se non dispongono delle parole chiave che da sempre le persone inventate hanno loro offerto sotto forma dei lori nomi?"

Consideriamo le nostre vite in prospettiva ai destini di persone inventate, Edipo, Antigone, Amleto, Don Giovanni, Josef K., Faust, Werther, Stiller. E spesso non sono tanto le cose e le persone reali a impressionarci, quanto le opinioni su di loro e le immagini che di loro ci siamo fatti. Ma così scivoliamo di nuovo nel mondo delle invenzioni, nella finzione. Anche in politica, come ben sappiamo, dominano le invenzioni. Le società vivono di miti, di grandi narrazioni che danno loro un senso d'identità. E in quale mondo vivono coloro che stanno seduti davanti a uno schermo dal mattino alla sera? Nel frattempo la poesia, l'antica potenza immaginativa, deve fronteggiare una concorrenza sovrastante.

Il saggio di Nooteboom su Cervantes (Verso Santiago, 1992) sembra un resoconto dell'epoca eroica della poesia, quando era ancora regina incontrastata nel regno delle invenzioni.

Con vena umoristica Nooteboom racconta di come vorrebbe seguire le orme di Cervantes e viene invece trascinato su quelle di Don Chisciotte, Dulcinea e Sancio Panza, come se loro e non Cervantes fossero realmente esistiti. Don Chisciotte, la cui immagine si trova ovunque, ha messo in ombra il suo autore, e ancora oggi si può visitare la casa di Dulcinea, con gli arredi amorevolmente conservati. "Per uno che della scrittura ha fatto una ragione di vita è un momento particolare. Entrare nella casa autentica di uno che non è mai esistito non è cosa da poco.

La storia di Don Chisciotte racconta del trionfo dell'immaginazione sulla realtà e sollecita l'interrogativo che muove Nooteboom: quanto reale è la realtà? Certe cose sono meno reali di quanto appaiano, altre sono vere anche se appaiono soltanto. Le esperienze lette si fondono con quelle vissute. Chi come Nooteboom ricorre alle finzioni, abita luoghi reali e immaginari, è un contemporaneo del presente e del passato e ha il sentore del futuro che inizia in ogni istante. Così Nooteboom è diventato un ricettivo errante tra i mondi, quelli passati e presenti, quelli visitati e inventati. In quanto viaggiatore sempre all'erta, è sul posto quando la realtà prende una piega sorprendente, inaspettata: Budapest 1956, Parigi 1968, Berlino 1989. Osserva attentamente perché in grado di stupirsi. È quanto ha imparato come poeta, a non accontentarsi del comune e del consueto e a non lasciarsi abbagliare dalle ideologie. Cerca storie nella storia. Evita astrazioni, apprezza le idee purché abbiano un volto, un luogo. Le apprezza in modo particolare quando, come nel suo romanzo berlinese Il giorno dei morti (1998), affiorano dalle catacombe delle bettole, nelle chiacchiere tra vino e würstel, circolano, si moltiplicano, si intrecciano e scompaiono. Da alcune si lascia anche rapire. Allora pensare e fantasticare si fondono. Di questo parlano i suoi romanzi, laboratori poetici per esperimenti con pensieri vivificanti. E lo stesso accade nelle sue poesie. In Nooteboom si osserva come anche i pensieri scaturiscano dalla facoltà immaginativa, e finché non rinnegano tale fonte rimangono vivi. "E questo il più antico dialogo sulla terra. / La retorica dell'acqua / esplode sul dogma di pietra."

Questa antologia presenta Nooteboom come romantico con e senza ironia, come poeta-filosofo, testimone politicamente attento, amante dei luoghi, viaggiatore e scrittore che non solo guarda al rapporto tra i viaggi reali e immaginari, ma lo vive.

Le orme di Nooteboom portano comunque lontano.

Rüdiger Safranski

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Pagina 17

Lampi di genio



La trasmigrazione delle anime non avviene dopo, ma durante la vita. Autoritratto di un altro, p. 57


La storia è uno strano elemento come lo spazio, o il tempo. Ci si è sempre dentro. In realtà non so bene se faccia parte del tempo, anche se la storia non è concepibile senza gli uomini, mentre il tempo sì. Verso Santiago, p. 100


Gli scrittori non sono nelle loro statue ma nei libri. Verso Santiago, p. 88


Invecchiare è una forma di morte. [...] Cosa c'entra questo con l'invecchiamento come forma di morte? C'entra con il fatto che c'è stata un'epica prima volta in cui ci si è trovati davanti a Parigi e che venticinque anni dopo non si riesce nemmeno più a immaginare quel che si è visto allora. Quell'immagine si è persa, è scomparsa per sempre, coperta da immagini successive, sempre diverse, e con quella scomparsa è scomparso anche colui che l'ha vista, ovvero io. Voorbije passages, p. 116-117

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Pagina 45

Ritratti, caratteri



MIGUEL DE CERVANTES

Il pellegrino letterario — chiamiamolo così — che segue le orme del Cavaliere e del suo Scudiero, non deve mai cercare. Prima di ogni località che si trova lungo la Ruta de Don Quijote, anime pie hanno affisso a un muro le immagini metalliche dei due eroi, sempre uguali, tanto che è impossibile dimenticarle. Ritagliati come neri dagherrotipi di ferro, quei due percorrono la strada che segui anche tu, l'alta figura del cavaliere con la lancia e il basso trippone sull'umile asinello sotto di lui. Ma anche nelle varie località gli scultori si sono sfogati, da Ciudad Real fino a El Toboso. Talvolta agli incroci sono perfino riportati passi del LIBRO, tanto che alla fine non si sa più se si viaggia in un'opera letteraria o nel mondo reale. Che dire quando si visita la casa di Dulcinea? Si trova a El Toboso, ed El Toboso è immerso in uno di quei silenzi in cui la fantasia comincia a galoppare. Al centro del paese si erge la chiesa di Santiago, che nella fantasia di Don Chisciotte era il palazzo dell'amata. Seguo le parole scritte sui muri, e dopo l'ultima iscrizione, "en una callejuela sin salida", in una stradina senza uscita... m'imbatto anche nella casa di Dulcinea. C'è, puoi toccarla e puoi perfino visitarla. Per uno che della scrittura ha fatto una ragione di vita è un momento particolare. Entrare nella casa autentica di uno che non è mai esistito non è cosa da poco. Il Don Chisciotte per Milan Kundera è il primo vero romanzo, e se il trionfo della fantasia sulla realtà è uno degli elementi essenziali da cui riconoscere un romanzo – con tutti i trucchi per sottrarsi alle oppressioni della cosiddetta realtà –, la genialità di Cervantes ha messo in evidenza una volta per tutte la forza di questa fantasia, se non altro in virtù del fatto che ora, a quasi quattro secoli di distanza, mi tiene qui a guardare la casa, il camino, il letto e le terraglie di un personaggio puramente fittizio. L'emozione che provo qui è paragonabile soltanto a quella che provai un'unica altra volta, e cioè sotto il balcone di Romeo e Giulietta a Verona, circondato da cento giapponesi armati di telecamere.

Guardo il giardino, il cortile, l'olivo e il torchio e ascolto il parlottio della guida che ha il fare di una suora che cerca di svelare il mistero spiegando che fu l'ispiratrice di Dulcinea. Ma io non voglio sentire nemmeno una parola, non voglio che l'invenzione sia inquinata con una qualche presunta verità storica, voglio andare, e subito, nell'altro luogo a meno di cinquanta chilometri da qui dove Dulcinea è stata inventata, ad Argamasilla de Alba, e non me ne importa niente di sapere se questo sia vero o meno. Ma prima devo passare in municipio, dove un solerte sindaco ha messo insieme una raccolta di Don Chisciotte (di carta, dei libri, cioè). Il dramma è che i capolavori appartengono a tutti, anche alle persone che odi o disprezzi. Questo vale per l'Amleto e vale anche per il Don, Un vecchio ci fa passare in mezzo a una classe di bambini frastornati e ci porta in una saletta in cui sono esposti i libri. Chi non ha letto il Don Chisciotte? Ognuno ha inviato il proprio esemplare, con dedica, quasi che loro stessi fossero l'autore: Mitterand, il principe Bernardo d'Olanda, Margaret Thatcher, Adolf Hitler, Hindenburg, Mussolini, re Juan Carlos di Spagna, Alec Guinness, Juan Perón e Ronald Reagan, una schiera di santi e furfanti tra cui manca soltanto Stalin, perché il libro con la sua dedica è misteriosamente scomparso. Verso Santiago, pp. 91-93

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Pagina 47

MARCEL PROUST

Quí qualcuno aveva disegnato nella sua mente una gigantesca cattedrale non ancora eretta, aveva già posato l'ultima pietra quando non c'era ancora nulla; sapeva già che le ultime frasi del libro che avrebbe scritto, avrebbero trattato di un libro che doveva ancora scrivere, un libro in cui avrebbe parlato del posto così limitato che gli uomini occupano nello spazio rispetto a quello infinitamente più grande che è loro riservato nel tempo, "un posto prolungato a dismisura dato che, come giganti immersi negli anni, sfiorano epoche così distanti, tra le quali si è inserita un'infinità di giorni — nel Tempo."

A posteriori penso che la quintessenza della mia lettura sia stata la sensazione che quel libro fosse stato scritto solo per me, al lettore viene infatti data l'illusione di poter essere spettatore invisibile, non solo delle feste mondane dell'alta borghesia, ma anche della decadenza e del volgare snobismo di un mondo di cui nessuno vorrebbe più ricordarsi se il protagonista, osservatore per non dire spia, che si identifica e non si identifica con lo scrittore, non l'avesse descritto. La raffinatezza è tanto maggiore in quanto l'autore fa sì che anche i personaggi si osservino a vicenda, con tutti gli equivoci e le distorsioni prismatiche conseguenti. In questo modo si è partecipi di una mascherata e di uno smascheramento allo stesso tempo, si diventa voyeur e, con la stessa accezione negativa, auditeur: l'origliare, l'ascoltare per caso, il disgustoso e devastante mormorio dietro alle spalle degli altri svolgono un ruolo decisivo. Alla fine sappiamo più del necessario, e dinnanzi ai nostri occhi sfila questa gigantesca panoramica di eroi e di farabutti, di santi e di pervertiti, di antisemiti e di bigotti, in tutta la sua gloria e la sua nudità. Nootebooms hotel, pp. 176-177


Alla fine del libro che stiamo leggendo, il Narratore si prepara a scrivere il suo libro e si domanda se avrà tempo a sufficienza per concluderlo. Con quella frase lascia il lettore nella sua solitudine, con in mano un libro in cui Marcel Proust, con i metodi psicologici del modernismo, ha abolito l'opposizione di mito e psicologia. La rivelazione di questa possibilità ne fa per me il più grande scrittore del XX secolo. Nootebooms hotel, p. 183

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Pagina 67

Perché viaggiare?



Com'è che vanno queste cose? Un giorno, e io so quanto questo possa apparire romantico e superato, ma nella mia vita è successo davvero, ho preso uno zaino, ho salutato mia madre e sono salito sul treno per Breda e un'ora dopo, conoscete le dimensioni dell'Olanda, vicino alla frontiera con il Belgio mi sono messo sul lato della strada e ho alzato il pollice, e in realtà da allora non ho più smesso. Ogni pensiero meditativo, ogni pretesa metafisica in quel momento erano lontani da me, quelle cose arrivano solo dopo; in effetti è come con il mulino da preghiere dei tibetani: il movimento precede il pensiero. In altre parole, non ho mai smesso di muovermi e a poco a poco ho cominciato anche a pensare, e volendo si può chiamarla meditazione. Hotel nomade, p. 8


Viaggiare ha di per sé un elemento di brutalità, di curiosità, di sconvenienza. Ci si introduce in società le cui sfumature, gerghi, usanze e particolarità non si possono comprendere né si comprenderanno mai del tutto e in questo senso si è degli intrusi. Een avond in Isfahan, p. 23


A chi viaggia molto viene chiesto fino alla nausea se non sia in fuga da qualcosa, ma il punto non è questo. Il punto è scomparire e allo stesso tempo restare. Si mantiene la propria vita — si può comporre un numero telefonico e, se va tutto bene, all'altro capo c'è sempre qualcuno che sa chi siamo —, ma allo stesso tempo ci si eclissa. Ognuno ti può vedere ma la tua persona resta invisibile. Si potrebbe benissimo, per modo di dire, essere qualcun altro. Ti sei liberato dall'aneddoto della tua esistenza, ora sei un abitante della Provenza o di Rio de Janeiro o sei appena decollato verso Samoa su un aereo della New Zeland Air. Sotto di te c'è l'oceano con quelle isole, tutt'a un tratto tanto piccole, su cui hai trascorso gli ultimi giorni. L'illusione consiste nell'avere in tutti questi luoghi, che si visitano per la prima volta o a cui si fa ritorno, una seconda vita che si svolge parallelamente all'altra. Nella migliore delle ipotesi viaggiare è anche una forma di meditazione che si può praticare sia alle Zattere di Venezia che a Zagora, ai margini del Sahara. Contrariamente a quanto viene sempre sostenuto, per colui che viaggia con se stesso il mondo è ancora smisuratamente grande. Rode regen, pp. 215-216


Chi viaggia di continuo è sempre da qualche altra parte, e questo vale per te stesso, e quindi sempre assente, e questo vale per gli altri, gli amici; perché è vero che per te sei sempre "in qualche altro posto", il che vuol dire che in qualche posto non ci sei, però in un posto ci sei sempre e comunque, ossia con te stesso. E per quanto semplice possa sembrare, ci vuole molto tempo prima che te ne renda completamente conto. Perché ci sono sempre gli altri intorno a te con la loro incomprensione. Non so quante volte ho già dovuto ascoltare il detto di Pascal "La sventura del mondo viene perché gli uomini non riescono a rimanere ventiquattr'ore nella stessa stanza", fin quando pian piano ho capito che io ero proprio quello che rimaneva sempre a casa, vale a dire con me stesso. Hotel nomade, pp. 8-9


Viaggiare è qualcosa che bisogna imparare, è un'interazione continua con gli altri, mentre allo stesso tempo si è soli. Il paradosso sta proprio qui: si viaggia da soli in un mondo che è controllato da altri: i proprietari della pensione dove vorresti prendere una stanza; quelli che stabiliscono se c'è ancora un posto per te su quell'aereo che parte solo una volta alla settimana; quelli che sono più poveri di te e che da te possono guadagnare qualcosa; quelli che sono più potenti di te perché possono negarti un timbro o un documento. Parlano lingue che non capisci, ti stanno accanto in piedi sul traghetto o seduti sul bus, ti vendono qualcosa da mangiare al mercato e ti indicano la direzione giusta o quella sbagliata, a volte sono pericolosi, il più delle volte non lo sono e tutto ciò va imparato: cosa fare, cosa no, e cosa non fare assolutamente; bisogna imparare a gestire la loro ubriachezza e la propria, bisogna saper decifrare un gesto e un'occhiata, perché per quanto soli si voglia viaggiare, si è sempre circondati da altri, dai loro sguardi, dai loro approcci, dal loro disprezzo, dalle loro aspettative, e ovunque è diverso e mai è come ci si è abituati nel paese da cui si proviene. Questo lento apprendimento di ciò che mi sarebbe poi servito in Birmania, Mali, Persia e Perù ha avuto inizio lì e anche questo lo ignoravo ancora a quei tempi, ero troppo preoccupato di tenere testa a quella bufera di impressioni, non avevo tempo per riflettere su di me, viaggiavo e scrivevo come uno che non sapeva ancora viaggiare e scrivere. Sapevo solo osservare e cercavo di girare intorno con le parole a ciò che avevo visto, non avevo teorie sul mondo da mettere a confronto con la realtà sconcertante che mi circondava, e tutto ciò che non sapevo fare emerge piuttosto chiaramente da questi racconti. De koning van Suriname, pp. 12-13

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Pagina 74

AMSTERDAM, 1200
Tra mare e mare
i sedimenti
dietro dighe di alghe.

Gente d'acqua, fabbricatori di terra,
angeli neri,
avi che scivolano nel fango.

Sono i primi.
Sognano muri di legno portato dalle onde
nel fiume errabondo.

Ame, acqua.
Stelle, luogo sicuro.

Il nome della loro liquida
città.

Bitterzoet, p. 16

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Pagina 75

AMSTERDAM

Di cosa è fatta una città? Di tutto ciò che vi viene detto, sognato, distrutto, vissuto. Di ciò che è stato costruito, di ciò che è scomparso, di ciò che è stato sognato e non si è mai realizzato. Di quel che è vivo e di quel che è morto. Delle case di legno demolite o incendiate, dei palazzi che avrebbero potuto esserci, del ponte sullo IJ che è stato sì progettato ma mai costruito. Delle case che ancora oggi ci sono, in cui intere generazioni hanno lasciato i loro ricordi. Ma c'è molto di più di questo. Una città è tutte le parole che vi sono state dette, un incessante, interminabile mormorare, sussurrare, cantare e urlare che è riecheggiato attraverso i secoli per poi disperdersi. Per quanto sia svanito, una volta ne era parte; anche ciò che non può più essere recuperato ne fa parte, per la semplice ragione che è stato urlato o pronunciato qui, in questo posto, in una notte d'inverno o in una mattina d'estate.

La predica in piazza, la sentenza del tribunale medievale, l'urlo dei flagellati, le offerte durante un'asta, l'ordinanza, il manifesto, la manifestazione, il pamphlet, l'annuncio di una morte, il grido dell'ora, le parole di suore, puttane, re, reggenti, pittori, scabini, boia, marinai, lanzichenecchi, guardiani di chiusa e capomastri, quest'incessante conversazione lungo i canali, nel suo stesso corpo vivente, tutto questo è la città. Chi vuole lo può sentire. Sopravvive negli archivi, nelle poesie, nei nomi delle vie e nei modi di dire, nel lessico e nella cadenza della lingua, così come le facce dei dipinti di Hals e Rembrandt sopravvivono nelle facce che vediamo oggi, e così le nostre parole e le nostre facce scompariranno tra tutte quelle parole e quelle facce, ricordate e non ricordate, disperse nel vento, dimenticate eppure ancora presenti, racchiuse in quella parola che designa la città: Amsterdam. [...]

La città è un libro, chi va in giro a passeggio il suo lettore. Può iniziare da una pagina qualsiasi, può andare avanti o indietro nel tempo e nello spazio. Forse il libro ha un inizio, ma è ben lontano dall'avere una fine. Le sue parole sono frontoni, scavi, nomi, date, statue. [...]

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Pagina 121

Sull'Europa



È impossibile osservare la cartina dell'Europa senza pensare alla storia. Una volta, al mercato delle pulci di Budapest, ho comprato con un amico ungherese una mappa dell'Europa Centrale su cui erano segnati tutti i passi di danza che la storia, solo nell'ultimo secolo, ha eseguito in quest'area: un frenetico, continuo movimento e rimaneggiamento di frontiere e di minoranze che non ci mette molto a farti venire le vertigini.

L'Ungheria non è più parte dell'Impero austro-ungarico, la Cecoslovacchia non appartiene più al cosiddetto blocco orientale, la Slovacchia si è separata dalla Repubblica Ceca, ma quel ponte continua ad attraversare il Danubio e l'acqua li sotto scorre vorticosa come sempre, senza preoccuparsi dell'agire umano là sopra. Così era allora, così è oggi. Tutto questo continente è ricoperto di cicatrici e di tutte queste cicatrici conosciamo i nomi, Srebrenica, Rotterdam, Guernica, Canterbury, Sarajevo, Ouradour, Dresda, nomi che si inseriscono in elenchi molto più lunghi e antichi, dalle Termopili e Sagunto fino a Hastings e Waterloo, litanie di sciagure impresse nella memoria, dove trova spazio anche la distruzione di Santiago ad opera di Al-Mansur, parte di uno scontro tra cristianesimo e islam, il cui esito ha segnato per sempre il volto dell'Europa. "Lagen en lagen van voorbije tijd"


Permettete che vi racconti tre piccoli apologhi. Pur non possedendo nessun fondamento reale, come peraltro non ne hanno mai gli apologhi, essi esprimono ciò che intendo dire meglio di qualsiasi trattazione politica ex cathedra, che non rientra né nel mio stile né nel mio campo di competenze. In un club ampio ed elegante, quantunque leggermente decaduto, come se ne trovano a Londra, erano convenute le valute europee. In uno stanzino attiguo al club veniva misurata loro ogni giorno la temperatura, il cui risultato era poi esposto a beneficio di borse, banche e speculatori. Non stupirà certo il fatto che, a dispetto del genere grammaticale, questo era un consesso esclusivamente maschile. Non so se vi siate mai figurati che aspetto possano avere il marco o il fiorino, ma in confronto alla dracma o all'escudo, per non parlare del dinaro, del leu o dello zloty, i due hanno un'aria florida, addirittura spudoratamente sana. "In fondo, però, sono degli spacconi" disse la sterlina al franco francese, che per tutto il tempo aveva cercato di attirare su di sé le attenzioni del marco. Il franco non rispose e si alzò vedendo venirgli incontro il rublo. "L'ho sempre detto, che non ne sarebbe sortito nulla" bofonchiò la sterlina, ma il fiorino, che aveva udito le sue parole, osservò: "E tu hai pure fatto di tutto perché si giungesse a questo punto". Anche la peseta era scontenta. "Sulle prime hanno detto che potevamo unirci anche noi" disse alla lira, "e poi, di colpo, non andavamo più bene. Si fa per anni il meglio che si può, si crede a tutto ciò che dicono, e un bel giorno ti rimproverano di non avere risparmiato abbastanza, di non guadagnare a sufficienza e, ammesso di esserti comportato bene, ti dicono di riprovare a inoltrare la domanda fra un paio d'anni". "L'ago della bilancia pende dalla parte del più pesante" disse la lira distrattamente, occupata com'era ad allontanare il lek albanese e sforzandosi contemporaneamente di trovare qualcosa di intelligente da dire al marco. In quell'istante la porta si spalancò ed entrò baldanzoso un ragazzo in tuta da jogging. "Mio Dio, ci mancava solo questo!" la sterlina sospirò rivolta al franco svizzero. "Se solo penso di dovermi mettere insieme a quest'ultimo arrivato, un simile parvenu!"

L'ecu, giacché non si trattava d'altri che di lui, sembrò non udire un simile commento. Diede una sonora pacca sulle spalle alla sterlina ed esclamò: "Allora vecchia mia, come va? Un po' meglio? La signora Thatcher sta bene?" Puntò quindi verso il marco e il fiorino, che evidentemente avevano aspettato con una certa impazienza quel suo gesto. "Posso parlarvi un attimo a quattr'occhi?" disse loro. "Da McDonald ho appena incontrato il dollaro e lo yen, e secondo loro..."

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