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| << | < | > | >> |IndiceGondole 9 Temporale 25 Heinz 37 Fine settembre 81 L'ultimo pomeriggio 93 Paula 101 Paula II 125 Il punto estremo 141 Postfazione 145 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Le gondole sono ataviche: non ricordava dove l'avesse letto e non voleva nemmeno starci a pensare, perché altrimenti, ne era convinto, il pathos dell'istante si sarebbe in parte dissolto. Un sole basso, la nera forma d'uccello di una gondola nella nebbia sulla laguna, le pesanti briccole, solitaria falange in marcia che si perdeva in lontananza nella sua missione di morte e distruzione sull'invisibile riva opposta, e lui lì, sulla Riva degli Schiavoni, con una foto ingiallita e mezzo strappata tra le mani: se non era pathos quello... Lì, più o meno, aveva attraccato la gondola, lì, a quella scala o a quella successiva, più vicina alla statua della partigiana fucilata semi immersa nell'acqua, erano scesi. Il tempo era più o meno lo stesso, lo si capiva ancora dalla foto. Si erano seduti sui gradini e quasi all'istante era arrivato un giovane ufficiale a dire che la scala doveva restare libera per la polizia portuale, e aveva indicato un cartello. Dunque adesso doveva cercare quel cartello, non doveva essere difficile. E se lo trovo? Mi troverò esattamente nello stesso punto dove mi trovavo quarant'anni fa, e allora? Si strinse nelle spalle, come se fosse stato qualcun altro a fargli quella domanda. E allora niente. E proprio questo, pensò, era il punto. Aveva accettato l'incarico di scrivere qualcosa sulla mostra di Palazzo Grassi per poter compiere quello strano pellegrinaggio. Pellegrinaggio a un'ombra, no, nemmeno: a un'assenza. La scala l'aveva trovata subito, nelle città eterne le cose hanno la tendenza a non cambiare, e lì attraccava ancora la polizia portuale. Il cartello c'era ancora, attaccato al muro di mattoni di fianco. Ridipinto, questo sì. Si sedette sul gradino più in alto. Il giovane ufficiale di allora doveva essere in pensione da un pezzo, ma anche se in quei quarant'anni avesse conservato la sua giovinezza, non avrebbe riconosciuto l'uomo anziano che se ne stava lì seduto. La foto era stata scattata da uno sconosciuto che si era messo un po' più avanti, sul bordo della banchina, le spalle alla laguna. Un angolo di trenta gradi, così in lontananza si vedeva anche il Palazzo Ducale. Osservò la foto, e come sempre si stupì della sua inaffidabilità. Non solo una foto poteva raffigurare una morta, ma poteva anche metterti sul piatto una versione fuori corso di te stesso, un giovane irriconoscibile con i capelli lunghi, in così perfetto stile con la sua epoca da dare alla foto l'aroma ammuffito di un tempo passato per sempre. Che avesse ancora lo stesso corpo, questo era in realtà il miracolo. Ma naturalmente non era lo stesso corpo. Il suo proprietario portava ancora lo stesso nome, tutto qui. Quel che voleva davvero dire quella foto, pensò più come una constatazione che come una forma di tragicità o di autocommiserazione, era che cominciava ormai a essere tempo che sparisse anche lui. Sedeva alla sua sinistra, allora. Lei teneva la testa alta, sorridendo all'ignoto fotografo, i capelli rossi erano tirati un po' indietro e anche il suo corpo leggero si piegava un po' all'indietro, appoggiandosi al muro che costeggiava la scala e coprendo in parte il cartello. Guardò l'acqua grigiastra che si muoveva piano in fondo alla scala. Era sorprendente che tutto fosse rimasto uguale! L'acqua, la forma delle gondole, il gradino di marmo su cui stava seduto. Solo noi scivoliamo via, pensò, lasciandoci dietro la scenografia della nostra vita. Passò la mano sulla superficie di pietra granulosa accanto a sé, come per sentire la sua assenza. Sapeva bene che tutti i pensieri che si potevano avere al riguardo erano cliché, solo che nessuno aveva mai risolto quegli enigmi. "Realtà e perfezione sono per me la stessa cosa": di chi era quella frase se lo ricordava. Si poteva dubitare che Hegel si riferisse alla situazione in cui si trovava lui, comunque sembrava adattarsi bene. Provava uno strano entusiasmo perché le cose erano quelle che erano, perché non c'era pensiero che le potesse dissolvere. La morte era qualcosa di naturale, ma si accompagnava a forme quasi intollerabili di dolore, tanto immense da desiderare di perdersi dentro per abbandonarsi alla perfetta realtà del mistero. L'inizio era stato semplicissimo. Un'isola greca, la casa di amici di amici, tutto organizzato da loro perché faceva così pena dopo la sua separazione. Non era abituato a essere solo, era affamato di tutto ciò che sapeva di donna. Una stradina di pietra lungo il mare, dove camminavano o passeggiavano tutte quelle figure femminili cui avrebbe voluto rivolgere la parola, ma non osava farlo per paura di essere cacciato via tra le risa come un imbecille.
«Aggattarle» diceva il suo amico Wintrop.
La parola era bella, ma non ne era mai stato
capace. Com'era quel verso di Lucebert? "Vagabondo la sera lungo scafi di
donna". Era così,
in ogni caso. La passeggiata, avanti e indietro,
e poi di nuovo. Passeggiare, vagare, guardare.
Hydra, barche di pescatori bianche nella notte
che si faceva scura, dolcemente cullate, illuminate dalle luci al neon. Rondini,
cipressi, o se
lo stava inventando adesso? C'erano già le luci
al neon? Ma perché i suoi ricordi avrebbero
dovuto essere veritieri? Mettici una luce gialla
di lampioni, ascolta il richiamo di una civetta,
guarda le forme nere dei pini. Il mare rimane lo
stesso e batte piano contro la banchina. Tutto
il resto è intercambiabile, l'arsenale con cui si
arreda la memoria.
Non assomigliava a una nave quando gli passò davanti. O forse sì: molto leggera, con una sola piccola vela, pareva librarsi al di sopra dell'acqua. Doveva essere stato così ridicolo il modo in cui si era alzato di scatto dal molo facendo il gesto di un agente che vuoi fermare il traffico. E fu addirittura quel che disse: STOP! Ancora adesso ne provava imbarazzo. Anche se anni dopo, in California, quando tutto era ormai finito da tempo, ne avevano riso tante volte. Fu così sorpresa che si fermò immediatamente. Strano, non ricordava più se erano usciti insieme già quella prima sera. Rimasero a parlare a lungo in un bar sul porto. Americana, con un nome italiano. Sedici anni, diciotto, avrebbe voluto saperlo, ma non osò chiederlo. Aveva visto allora i segni che si era disegnata sulle mani e sulle braccia, i segni dello zodiaco, non tatuati, come se ne vedono parecchi oggi, ma tracciati con l'inchiostro nero sulla pelle bruna. Le aveva chiesto che cosa fossero, e lei aveva risposto soltanto: oh, io sono una strega. Anche di questo avrebbero riso in seguito, ma lui aveva conservato le sue lettere di quell'epoca, piene di chiacchiere su magia e incantesimi: fantasie che, come capì presto, non avevano alcun significato, ma che sul momento lo eccitavano. Si adattavano bene al periodo, ma soprattutto a quei capelli rossi, a quegli occhi color ardesia, alla voce sorprendentemente profonda, un po' roca. Nei giorni successivi aveva dormito da lui nella grande casa bianca. Da lui, ma non con lui. Era la condizione. Si lasciava accarezzare guardando dall'altra parte, poi scivolava in un sonno profondissimo, con l'assenza di un animale per cui il mondo non esiste più. Lui si sentiva un po' ridicolo e superfluo, ma la fiducia che gli dimostrava lo commuoveva. Meglio la compagnia dell'amore: aveva scritto qualcosa del genere nel suo diario. In seguito quel diario l'aveva buttato via e ora gli dispiaceva, quella frase comunque non l'aveva dimenticata. Qualche giorno dopo tutto era cambiato. Forse se lo stava inventando adesso, ma gli sembrava che lei avesse indicato uno di quegli strani segni che si era disegnata anche su altre parti del corpo e avesse detto qualcosa del tipo che era giunto il momento. Qualcosa che aveva a che fare con i pianeti, tutte storie che già allora gli sembravano idiozie.
In amore era astuta e infantile insieme, altre
parole non gli venivano in mente. «Astuta» non
l'aveva mai convinto, era la parola sbagliata,
qualcosa di consapevole e forse anche di calcolato, ma neppure queste erano le
parole giuste.
Lui ne era eccitato perché attraverso quel
voluto infantilismo si infiltrava un elemento di
gioco proibito, come se lei volesse insinuargli
che andava a letto con una bambina, una sensazione che non aveva mai più
provato, né prima né dopo.
Tornò indietro in direzione della città. La mostra di Piero della Francesca l'aveva toccato nel profondo. Perché dovesse trovarci un parallelo con quella storia così lontana non lo capiva, forse solo perché sia il pittore che il ricordo gli occupavano la mente in quel momento, o forse perché in quei quadri c'era qualcosa di inaccessibile, qualcosa che corrispondeva alle brevi settimane in cui erano stati insieme. Non si poteva dire che fosse misteriosa, la storia della stregoneria era pura idiozia, ma la sua presente assenza di allora al suo fianco gli faceva pensare alle ieratiche figure dei quadri. Si era davanti, si desiderava penetrarvi con tutte le proprie forze, ma era un mondo a cui non c'era accesso. Non aveva la minima idea di cosa scrivere nel suo pezzo, come non sapeva che fare dei suoi ricordi. | << | < | > | >> |Pagina 25Sono già io un barometro, le aveva detto mentre erano lì, davanti al barometro. Me lo sento nello scheletro. Un altro avrebbe detto «nelle ossa», ma Rudolf disse scheletro perché sapeva che Rosita l'avrebbe trovato irritante. Sapeva anche perché lo trovava irritante, il che era ancora peggio. Lei prendeva tutto alla lettera e quindi si vedeva davvero davanti uno scheletro, cosa piuttosto spiacevole. L'epoca delle vanitas è passata, gli disse, neanche tu ti tieni un teschio sulla scrivania. Se tu me l'avessi detto un'ora fa non avrei fatto sesso con te. Nessuna voglia di avere uno scheletro sopra di me. Lo immaginava: costole che sbattevano una contro l'altra, teschi che si mordevano a vicenda. A volte sei proprio uno stronzo. Solo perché cambia il tempo. Lui non rispose, perché era vero, sia una cosa che l'altra. All'improvviso l'estate non c'era più. Grigi castelli di nuvole, il bianco delle case spagnole si era fatto a un tratto opaco, e presto il giardino sarebbe finito allagato, perché quando la pioggia veniva, veniva sul serio, a secchi. E l'inevitabile malinconia. Porte rimaste aperte tutta l'estate dovevano chiudersi, le lunghe passeggiate lungo la riva dovevano essere anticipate: un vuoto oscuro si insinuava tra il calare della sera e il momento in cui in Spagna si poteva andare a cena. Il che voleva dire incominciare prima a bere in un bar o starsene in casa – una casa che all'improvviso non era più tanto confortevole – a leggere accanto a una stufa elettrica, un po' infreddoliti. Era insopportabile che a lei non desse fastidio. A pensarci bene, in realtà, non c'era niente che le desse fastidio. Non l'insonnia, non la noia. Le bastava sparire nel suo studio, e lì evidentemente era felice. Come potesse essere felice una persona che da anni lavorava a una storia del movimento operaio olandese per lui era un mistero. Tutto quello che gli raccontava, da Ferdinand Domela Nieuwenhuis fino a Henriette Roland Holst, gli ispirava una profonda diffidenza. Tutta gente con il doppio cognome che si era così seriamente impegnata in favore della classe degli sfruttati. Adesso che era passato un secolo, i membri della classe che avevano tanto voluto emancipare, se ne stavano arrampicati su una scala, tatuati come Maori e con la radio a tutto volume a dipingere la casa del vicino. Miagolii e pestar di piedi, le voci grasse dei dj popolari, l'eloquio triviale delle nuove celebrità in televisione, eroi stagionali di una qualche soap opera. Vorrei proprio vederli tornare una volta, diceva allora, i Gorter e i Van Eeden. Si prenderebbero un colpo dallo spavento. Eccola realizzata, la dittatura del proletariato, l'arte per il popolo. "Vedo i lavoratori danzare in argentee schiere sulla riva dell'oceano", un verso del genere. Gorter, credo. Anche questo si è realizzato, alla discoteca di Torremolinos. La sua risposta in genere si limitava a un canticchiare sommesso che lui non sapeva mai con certezza se interpretare come una manifestazione di disprezzo o di profonda pietà. Era un ronzio leggero, acuto, simile al mormorio di un uccello, come se fosse già sul punto di volar via e abbandonarlo.
Ma in realtà non ne aveva nessuna intenzione. Quando ti ho comprato, le tue
lagne erano comprese nel prezzo, gli aveva detto in
uno dei suoi rari momenti di rimorso. Si era
innamorata di un uomo che intagliava statuette
di legno, che era un barometro e che soffriva
di eclissi di sole. Non appena il sole spariva
bisognava ricorrere a risorse segrete, elaborare strategie per respingere una
cupezza che minacciava di impadronirsi di tutto. La notte
e l'inverno erano i suoi nemici naturali. Allora
il legno rimaneva intatto nel suo laboratorio,
non veniva intagliata nessuna creatura di sogno
e le gallerie non ricevevano risposta. Diventava come una nave senza rotta che
andava alla deriva nel buio. Lei si rendeva conto che
la sua serenità lo infastidiva, ma sapeva anche
che l'insensibilità a quella che lui chiamava
la sua bile nera gli permetteva di resistere
finché non si fosse abituato al cambiamento
di stagione e all'oscurità che comportava. La
strategia migliore era quella di tirare diritto.
E se andassimo a San Hilario?
Lui si strinse nelle spalle. San Hilario si
trovava a una trentina di chilometri di distanza.
Per arrivarci bisognava attraversare una zona
piuttosto selvaggia. Era una piccola baia con
una spiaggia che avevano scoperto quando era
ancora vergine, ora però un promotore immobiliare ci aveva costruito un albergo.
Non lontano
da lì, sopra la spiaggia, c'era un vecchio bar
dove si poteva mangiare qualcosa, uno di quei
locali che gli spagnoli chiamano
chiringuitos.
L'interno era tutto bianco, tavoli di plastica, una
grande terrazza in mattoni, sedie di alluminio
che producevano uno stridio acuto quando le si
spostava. Con un tempo così scuro le lampade
al neon, fuori, dovevano essere già accese. Il
neon serviva, per lei era un dato confermato
dall'esperienza senza bisogno di dirglielo. Un
surrogato di sole bianco, freddo e oblungo
come placebo, che funzionava.
La stagione era alla fine, di turisti ce n'erano ben pochi, o forse nessuno. Lungo la strada scoppiò il temporale. Le nubi si erano fatte grigie come piombo, grevi masse che incombevano sul verde degli oleastri come per divorarli. D'un tratto il paesaggio si rischiarò in modo strano: il primo lampo. Dopo il lacerante secco tuono che seguì, la grandine si abbatté sull'auto in raffiche selvagge, martellando sul tetto. Lei si voltò, sapeva che ora avrebbe cominciato a esaltarsi. Dovrebbe esistere una lingua – le aveva detto una volta – in grado di descrivere tutti i tipi di nuvole. Granito grigio, calcare, ardesia, lanugine bianca, rischioso pietrisco. Sapeva che lui ora avrebbe voluto scendere dalla macchina, immergersi nel temporale. L'importante era che fosse drammatico. Quello di cui ho bisogno sono grandiosi eventi di ordine naturale, così si era espresso. Ed eccolo servito, accontentato al primo cenno, come sempre. Faceva fatica a tenere in carreggiata la piccola Seat. Un motociclista solitario era sceso dalla sua moto e per un istante venne intagliato dal lampo nel paesaggio come una statua. Il parcheggio del bar era quasi vuoto e quando scese dalla macchina si ritrovò nell'acqua fino alle caviglie. Mentre correvano verso la terrazza coperta sentivano il fragore della risacca acuito dal fischio della tempesta. Il grigio del mare si fondeva con il grigio del cielo, si distingueva a stento l'isoletta davanti alla costa. | << | < | > | >> |Pagina 81Suzy pesa ormai solo quarantotto chili, per cui è meglio che non tiri troppo vento sulla larga strada che conduce al mare. Tamerici, pini, ficus, fogliame che si agita e stormisce. Stay the course, mormora opponendo la fragile spalla sinistra alle raffiche che dal mare danno l'assalto alla terra. Stay the course, lo diceva il viceammiraglio che aveva assistito negli ultimi anni della sua vita, in quel luogo, dopo la morte della moglie. Annabelle, sua amica fin dai tempi del collegio. In modo del tutto naturale aveva occupato la tavola e il letto subito dopo il funerale. Avevano accompagnato Annabelle nel muro del cimitero, dove lui ora le riposava accanto, e poi si era trasferito con la sua vecchia Triumph a casa di Suzy, nell'altro paese. Nel Galles, da dove venivano tutti e tre, non l'avrebbero mai fatto. In effetti era un po' scandaloso, ma ne avevano parlato con Annabelle poco prima che abbandonasse la vita in punta di piedi. Una candela che si spegne. Alla fine non aveva quasi più fiato. Ah, aveva sussurrato con quella sua voce sdegnosa e nobile, don't make a fuss about it, siamo tutti così vecchi, gli unici che avranno qualcosa da dire sono quelli del giovedì, e di quelli che cosa ce ne importa. Il giovedì tutta l'inglesità si riuniva nella cittadina per giocare a bridge, spettegolare e insultare gli spagnoli. I vestiti di Annabelle: quelli erano stati la cosa più difficile. I maglioni Pringle di cachemire non aveva potuto buttarli via. Li aveva fatti lavare a secco e poi li aveva lasciati per un po' stesi al vento per togliere lo Chanel numero 5 di Annabelle, lui non se ne era nemmeno accorto. O forse sì, ma in ogni caso non aveva detto niente. Il letto non significava più niente, era solo questione di caldo, lei non aveva niente in contrario. E a lui non importava quel che diceva la gente del paese. Lui era l' almirante, e lì significava ancora qualcosa. Era diverso dalla gentaglia che ora arrivava con easyJet e se ne stava a bere mezza nuda ai tavolini dei bar. Lei capiva lo spagnolo meglio di come si parlava lì. Lui non le dava noia. Bastava che avesse il suo Daily Telegraph, il suo Famous Grouse e potesse parlare della guerra. Non voleva risposarsi, e lei neppure, aveva ancora la pensione di suo marito morto tanto tempo prima. Anche lui era stato in Marina, ma non era vice-ammiraglio. La casa l'aveva intestata a Suzy, lei avrebbe potuto venderla e andare ad abitare in uno degli appartamentini costruiti più avanti sulla costa. Fine settembre, ma sembrava già ottobre. Tutto era in anticipo quell'anno.
Quella stagione a lei dava comunque dei
problemi. La Spagna non era un paese per l'inverno. Bisognava organizzare tutto
nel modo più inglese possibile, riportare tutto all'interno,
tenere chiuse le finestre sui terrazzi, abat-jour,
scones
e tè con un goccio di rum. Dovette
fermarsi un momento. Da lontano vide Luis
uscire un istante dal bar Estrella per controllare
se stava arrivando. Ai tavolini con le sedie di
metallo non c'era seduto nessuno, Luis sarebbe
stato scontroso. Un altro giorno senza mance.
Quattro tavolini sul marciapiede, tutto qui, ma
se non c'era proprio nessuno il bar appariva a
un tratto grande e triste. Autunno, questo non
significava solo che veniva buio presto, ma
anche che per il
Mail –
lei non leggeva il Telegraph – bisognava andare nel centro della cittadina.
Sapeva guidare, ma se non fosse stato per
il giornale se ne sarebbe rimasta a casa. Due
volte alla settimana al supermarket era sufficiente, si poteva surgelare tutto.
E naturalmente c'erano i giovedì, non se ne poteva fare totalmente a meno.
Sentiva il mare. La strada terminava all'improvviso su un terreno incolto in cui
in estate cresceva l'aglio selvatico, o almeno lei
lo chiamava così. Lunghi steli sovrastati da una
sfera viola, se si scavava un po' con un coltello
li si poteva portar via. Lui l'aveva sempre presa
in giro per questo. Gli spicchi d'aglio erano
stretti uno all'altro all'interno di un involucro
bianco che pareva di carta. Tolto quello, ci si
trovava in mano dei ditini piccoli e duri, avvolti
anch'essi in una pellicina bruna. Erano un po'
appiccicosi, ma le aveva dato sempre soddisfazione prendere qualcosa che
cresceva così da sé, gratis. A lui l'aglio non piaceva, ma lei ne
usava sempre un pizzico per la quiche, e lui ne
prendeva una piccola fetta. Più avanti il terreno
era molto più sassoso, e alla fine era solo roccia
battuta dal mare. Quando ancora camminava
bene, lui voleva sempre andare fin là prima di
mangiare. Si fermavano lì per un po' a guardare e ad ascoltare. So con esattezza
cosa dice il mare, sosteneva lui, ma non diceva mai cosa
fosse. A lei piaceva il rumore. Oggi si accompagnava bene alle nubi, grandi,
grossi, grassi giganti. Lui portava sempre con sé un cannocchiale, nel caso
passasse una nave. A volte lasciava guardare anche lei. Oggi il mare era
troppo grosso, non si vedevano navi da nessuna
parte. I pescatori erano rimasti a terra, aveva
visto le piccole barche nella caletta dietro casa,
ormeggiate con il doppio delle funi per via della
tempesta annunciata.
Luis, che un attimo prima era fuori, ora era rientrato. Sapeva che era uscito solo per vedere se stava arrivando. Faceva parte del gioco, un accordo mai dichiarato. Se non c'era nessuno, lui rimaneva dentro finché non si era seduta sulla sua sedia. Solo allora usciva. Il suo principale, un uomo alto e grasso, con un penoso codino dietro la testa calva che gli dava un'aria da attempato batterista americano, non lo si vedeva, se ne stava in cucina a preparare le tapas che a lei non piacevano. Troppo olio. Guardò dentro. Luis faceva finta di essere indaffarato, spostava qua e là delle ciotole. Per lei non c'era bisogno che lo facesse, sapeva che non prendeva mai niente, al massimo qualche mandorla. Posò la borsetta bianca sul tavolo ed estrasse il pacchetto di Dunhill. Erano tavolini da niente, ma a lei piaceva il riflesso d'alluminio del ripiano, la borsetta risaltava bene sopra e il rosso e l'oro del pacchetto si intonavano all'anello di Annabelle che le aveva regalato. Alle mani dedicava sempre molta cura. Erano vecchie mani bianche, lo sapeva bene, ma se si laccavano le unghie nel modo giusto, le venuzze azzurre non si notavano molto, e se poi si posava la mano tra la borsetta e il pacchetto di sigarette la si poteva anche guardare con piacere. Prima non gliene era mai importato gran che, ma adesso che aveva tutto il tempo del mondo quelle cose erano diventate importanti. Luis apparve accanto al tavolino. Indossava una camicia marrone pulita. Le camicie marroni erano parte della sua divisa, non ne portava altre. Lei sapeva che non era sposato, ma le camicie erano sempre ben stirate. Pantaloni neri, sempre. Scarpe nere. Aveva piedi piccoli. Delle scarpe inglesi gli sarebbero state meglio, non quella robaccia spagnola. L'ammiraglio avrà anche saputo cosa diceva il mare, lei sapeva sempre di che umore era Luis. Non buono. In realtà non avrebbe nemmeno avuto bisogno di uscire, sapeva esattamente cosa avrebbe ordinato. Ma anche quello faceva parte del gioco. Se non fosse venuto nessun altro si sarebbe messo a raccontarle tutto quello che lei già sapeva. Lei non parlava bene lo spagnolo, ma aveva ascoltato così tante volte le sue storie che avrebbe potuto raccontargliele lei. Inoltre l'inglese che parlava lui era un disastro, lo capiva a malapena, dunque erano pari. In fondo non era necessario che lo ascoltasse, era come in chiesa: parole vagamente note che scorrevano sopra le teste sotto forma di predica o di litania. Qui si accompagnavano al mare in lontananza, alla camicia marrone, ai capelli pettinati lisci all'indietro, troppo lunghi sulla nuca. L'anno prima il figlio del proprietario lavorava lì e le conversazioni erano diverse, ma quell'anno non era tornato. Troppo poco da fare. Si accese una sigaretta. Avrebbe dovuto portarsi lo scialle rosa, ad Annabelle stava tanto bene. Lady Annabelle. La mano le tremava leggermente, ma era colpa del vento. All'interno Luis aveva abbassato un po' la musica. Poi le avrebbe portato il gin tonic, un bicchiere con molto ghiaccio e due fette di limone al posto di una, l'acqua tonica lì accanto. Lui si era dovuto abituare alle due fette. Inoltre lei preferiva la Nordic Mist alla Schweppes. Esaltava meglio il sapore del gin. La Nordic Mist la compravano apposta per lei, le avevano fatto capire che era un trattamento di favore. Quando il proprietario non c'era le veniva servito più gin, quanto di più dipendeva dall'umore di Luis. Più era depresso più il gin aumentava, era semplice. Allora cominciava con la prima moglie, poi con la seconda, infine con i figli. A questi ultimi si riferiva l'espressione che la sera, a letto, lei ogni tanto ripeteva tra sé: Romper la intimidad. Ma questa arrivava solo al secondo gin. Come si potesse tradurre con esattezza, ancora non l'aveva deciso. Rompere l'intimità? Suonava assolutamente non-inglese. Ma d'altra parte una donna spagnola forse non avrebbe indossato il maglione della sua amica morta. Del resto anche in quel momento aveva indosso qualcosa di Annabelle, una di quelle camicette a roselline rosa, di Laura Ashley. Dio, Annabelle. Bastava un gin per renderla ubriaca fradicia. Sentiva Luis, dentro, versare il ghiaccio nel bicchiere alto, e quando vide il bicchiere capì subito che aveva indovinato il suo umore, quasi mancava lo spazio per l'acqua tonica. Significava che aveva dei progetti. Pensò alla propria mossa d'apertura. Si direbbe che oggi non ci sia molta gente. Lui strinse le spalle. A quell'unica frase lui ne avrebbe fatta seguire almeno una decina delle sue. Funzionava dieci a uno, si era detta tra sé. No, era una stagione di merda (temporada de mierda). Non sarebbe mai dovuto venire in quel posto. A Siviglia faceva ancora un caldo soffocante ma lì era già inverno. Il giorno prima il proprietario aveva calcolato che fino a quel momento avevano guadagnato seimila euro in meno rispetto all'anno scorso. Non avesse mai visto quel maledetto annuncio. Ora comunque aveva risposto a un altro annuncio, a Oviedo. Se la prima moglie non l'avesse derubato avrebbe avuto ancora il suo negozio. Oviedo, là bevevano il sidro, roba da vomitare. D'altra parte non erano nemmeno veri spagnoli. Le Asturie, lì c'erano ancora gli orsi. Tanto valeva andare in Siberia. Un sivigliano non poteva trovare niente di buono da quelle parti.
Ma non aveva scelta. La vita gli aveva dato cattive carte.
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