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| << | < | > | >> |Pagina 111.Ma quelli che scrivono sopra ai giornali, non gli capita mai che gli viene il dubbio che quello che scrivono son delle cagate? Perché a leggerli sembra di no. Han sempre un tono che anche quando scrivono «Sembra che sia successa la tal cosa», tu diresti che sono sicuri al cento per cento che quella cosa lì che sembra che sia successa è successa davvero. Come se non ci pensassero, che magari non è successa e stan facendo dei danni, come se non ci pensassero. Be', beati loro. Io invece ho avuto sempre tanti di quei dubbi, nella mia vita. Be', beati loro. Io invece a me, non lo so. Mi verrebbe da ricominciare. | << | < | > | >> |Pagina 211.Mi chiamo Ermanno Baistrocchi e faccio l'editore. Sono il figlio del fondatore delle edizioni Barbarini, fondate da Ivano Baistrocchi a Bologna nel 1959, quando io avevo sei anni. Si chiamano Barbarini perché, a mio babbo, non sarebbe piaciuto avere una casa editrice che si chiamava come lui, edizioni Baistrocchi. Né, peggio ancora, edizioni Ivano Baistrocchi. Né, la stessa cosa, Ivano Baistrocchi editore. Secondo lui non era un nome da editore, Baistrocchi. E poi a lui non gli piaceva, tanto, essere l'editore. L'editore con la e maiuscola, quello che faceva tutto lui, quello che tutti gli andavano a chiedere a lui, quello che senza di lui non si muoveva una foglia, no, no. No, lui voleva essere uno, lì in mezzo. Gli piaceva esser lui a decidere, per forza, l'idea era sua, i soldi eran suoi, ma gli piaceva anche un'idea, non so come dire, democratica, socialista, dell'editoria. Allora cosa aveva fatto?, allora aveva preso in prestito il cognome di un suo compagno di classe delle medie che, secondo lui, non lo sarebbe mai venuto a sapere perché era uno che i libri non sapeva neanche com'erano pitturati. Ma aveva quel cognome lì, Barbarini, che secondo mio babbo era un cognome molto editoriale, mi raccontava mia mamma. Secondo mio babbo i nomi col suffisso -ini, oltretutto, erano i nomi ideali, per aprire un marchio commerciale, «Pensa a Martini, diceva tuo babbo» mi diceva mia mamma. Allora ne aveva passati in rassegna un po', Arduini, Bergamini, Barabini, Battistini, Benini, Bernardini, Bertini, Bertolini, Bertoldini, Bianchini, Rossini, Biondini, finché non gli era venuto in mente quel suo compagno di classe che non gli piaceva studiare, e da quel momento noi siamo stati, un po', i Barbarini, mi diceva mia mamma «anche se siamo rimasti i Baistrocchi, eh? Noi, sotto sotto» mi diceva mia mamma «siamo Baistrocchi dalla testa ai piedi» mi diceva lei che non era Baistrocchi, si chiamava Vescovi, mia mamma, di cognome. Anche se dopo, forse, era diventata Baistrocchi anche lei che quando la gente si sposa, c'è sempre uno che diventa un po' l'altro, forse, mica sempre ci riescono, mia mamma ci è riuscita, mia moglie, per esempio, non c'è riuscita per niente, né io son riuscito a essere lei. | << | < | > | >> |Pagina 222.Mia moglie, la Marta, adesso sembra un discorso un po' presuntuoso, non lo dico per presunzione, lo dico perché mi sembra così, secondo me mia moglie ha passato la vita a provare a diventar come me, che lì, è una cosa strana: a me lei, la Marta, mi piaceva perché era diversa, da me, e lei tutti i suoi sforzi che ha fatto li ha fatti per provare a diventar come me è saltata fuori una cosa che non si guardava, alla fine, e la stessa cosa, più o meno, è successa con mio genero, l'elettricista, che lui però, secondo me, più che a diventare come mia figlia, che è una Baistrocchi, lui ha provato a diventare un Barbarini che non esistono, i Barbarini, ci voleva anche un bagaglio come l'elettricista, che lui, però, anche da scapolo, che si chiamava, non so neanche come si chiamava, di cognome, Forconi, Fanfaloni, Mastonardoni, non mi ricordo, Baldasseroni?, non faccio apposta non mi ricordo, Baldasseroni, credo, o Frugiferenti, ma tanto è lo stesso, che comunque, anche prima, all'inizio, prima ancora di sposarsi, fin dalla prima volta che l'ho visto, facevi fatica a guardarlo senza doverti schermare gli occhi, che lì, io, certe cose non le capirò mai, una ragazza così intelligente come mia figlia, lasciamo perdere, andiamo a letto che poi domattina, sai cosa facciamo? Ricominciamo. | << | < | > | >> |Pagina 619.Paride, all'inizio, i primi tempi, quando l'ho conosciuto, io non lo chiamavo Paride, lo chiamavo Zioboja, e ero convinto che tutti lo chiamassero Zioboja, dappertutto, nel suo bar, per esempio, anche se probabilmente nessuno lo chiamava Zioboja, e io, anch'io, non lo chiamavo Zioboja con nessuno, a pensarci, che io, all'epoca, quando l'ho conosciuto, che parliamo di quasi vent'anni fa, che lui lavorava in una libreria di Parma, e avrà avuto trentasei anni, e io ne avevo forse trentanove, e era un periodo che io, a parte quando andavo in giro per far notare le impercettibili differenze tra i libri che facevo io e quelli che facevano gli altri, e a parte portare in giro mia figlia, che allora, quando era piccola, io la chiamavo Daguntaj, che significa, in parmigiano, «Dacci un taglio», perché, quando era piccola piccola, che piangeva, di notte, quando ancora io e sua mamma vivevamo insieme, che ci siamo poi separati che lei aveva due anni, quando mi svegliava, di notte, e la prendevo in braccio, e la cullavo, per farla riaddormentare, io le dicevo, piano, «Daguntaj, Daguntaj, Daguntaj», glielo cantavo, anche, sulle note di Fra Martino campanaro «Dag-un-taj, Dag-un-taj, Dag-un-taj, Dag-un-taj, Dagun, Daguntaj, Dagun, Daguntaj, Daguntaj, Daguntaj», che non era bellissima, c'era un po' da vergognarsi, ma non mi vedeva e non mi sentiva nessuno, e poi a lei piaceva, mi sembra, e di solito non si addormentava, ma almeno, non so, passavamo il tempo, e Daguntaj è stata una delle prime parole che ha imparato a dire, e anche lei a me, per un po', mi ha chiamato Daguntaj, e io a lei, e ogni tanto mi vien da chiamarla ancora così, Daguntaj, che è un nome stupido, però, non so perché, mi commuove, io, dicevo, quel periodo lì che avevo conosciuto Zioboja, se dovessi dire se mi piaceva, la mia vita, secondo me allora non mi piaceva mica tanto, a riguardarla adesso invece non era mica brutta. | << | < | > | >> |Pagina 6814.Cioè io per esempio, quando Daguntaj, dopo che è morta sua mamma, è venuta a abitare con me, io abitavo da solo, allora, ho accettato di avere una donna di servizio, e abbiamo assunto Pilar, che adesso lavora ancora sotto da loro, che la pago io, neanche da dire, però non lavora da me, io in casa mia non la voglio, che io, in casa mia, io quando ho assunto Pilar, che con una bambina di nove anni, e la casa editrice, io da solo, non so come dire, non ce la facevo, mia mamma non poteva aiutarmi che stava a Parma, lei, ma io, prima di assumere Pilar, io per me avere una donna di servizio, non so, io mi ricordo che ho telefonato a mia mamma, avevo vergogna a confessarle che in casa mia sarebbe entrata una donna di servizio, ci ho messo venti minuti, per dirglielo, che poi quando gliel'ho detto lei m'ha detto «Sì sì», come se fosse la cosa più naturale del mondo, ero stupefatto, dall'indifferenza di mia mamma rispetto a questa novità epocale che a casa mia entrava una donna di servizio. Che io, mi son sempre considerato un socialista, come fa un socialista a avere una donna di servizio? Secondo me non può. I socialisti, soprattutto dopo la fine del socialismo, soprattutto se restan socialisti nel disastro, soprattutto se socialista per loro vuol dire socialista, non socialista, ecco loro non possono mica, secondo me. Anche se potrebbero, anche se avrebbero i soldi, nel senso, io ce li ho i soldi, difatti la pago, Pilar, ma la pago per pulire di sotto, a casa mia non voglio che ci metta piede, ma non perché è cattiva, perché casa mia, se facessi entrare a casa mia una donna di servizio io poi, alla fine, sono sicuro, farei come un poeta della Guyana belga. | << | < | > | >> |Pagina 960.Chiuse dentro le tasche, chiuse con le cerniere, a andare a correre lungo il muro della Certosa, tintinnavano a tutti le chiavi di casa, stasera. E io pensavo alle traduzioni dei classici, che ci son delle traduzioni, dei classici, che sono così curate, così perfette, così impeccabili, così inattaccabili, ripetono così esattamente la lezione dell'originale che sono praticamente illeggibili, mi è venuto da pensare stasera intanto che correvo, che a me quando corro, alla sera, mi succede così, mi vengon da pensare delle cose che non c'entrano niente. Dopo poi quando sono arrivato, dopo aver fatto i miei allungamenti, che intanto che li facevo pensavo «Guarda, messo come son messo, non solo vado ancora a correre, faccio anche ancora gli allungamenti», mi è venuto in mente che Paride, tre giorni prima di buttarsi giù dal suo ex condominio, ha giocato al Superenalotto. E poi mi è venuto in mente uno scrittore della Guyana belga che c'era un suo personaggio che, quando stava per morire, che si era ammalato di una malattia incurabile, pensava che il sillogismo elementare che aveva studiato nel manuale di filosofia, «Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale», per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo per Caio, non per se stesso. Un conto era Caio, un conto era l'uomo in generale, e allora quel sillogismo era giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l'uomo in generale, ma un essere particolarissimo, completamente diverso da tutti gli altri esseri: era stato piccolo con sua mamma, suo babbo, i suoi giochi, la sua tata, poi si era innamorato di una ragazza che si chiamava Lisa, e poi tutte le gioie, e le amarezze, e gli entusiasmi dell'infanzia, dell'adolescenza, della giovinezza. Aveva mai sentito Caio l'odore del pallone di cuoio? Aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai pianto, per avere i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era mai stato innamorato? E Caio sapeva cosa voleva dire l'uscita di un libro, con tutta la fatica che hai fatto per farlo? Caio è mortale, certo, è giusto che muoia. Ma per me, per me, scriveva quello scrittore della Guyana belga, per me, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, per me è tutta un'altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile, scriveva quello scrittore, mi è tornato in mente stasera dopo che sono andato a correre. | << | < | > | >> |Pagina 13335.E a Parma, a proposito, avevan votato, e erano andati al ballottaggio uno del Partito democratico e uno di un partito nuovo che diceva che non erano un partito che loro erano la politica nuova che era la gente che finalmente prendeva il potere. E mi avevano chiesto, un quotidiano, che risultato mi auguravo, per il ballottaggio di Parma, e io gli avevo riposto che non mi auguravo niente. E stavo per dirgli che, invece di chiedersi chi andare a votare al ballottaggio, secondo me sarebbe stato più sensato se i parmigiani si fossero chiesti qual era il prossimo libro che valeva la pena di leggere, solo che non gliel'avevo detto perché mi vergognavo. E non me ne vergognavo perché ero vergognoso, me ne vergognavo perché una volta avevo letto, nei Pensieri di Pascal, «Vuoi che la gente dica bene di te? Non dirne». E me ne vergognavo per quello, che io, che facevo dei libri, volevo che la gente parlasse bene di me, e allora come facevo a dire che i libri erano importanti? Non potevo. | << | < | > | >> |Pagina 136[...]Questo è un periodo, mi sembra che sto per finire, che ho a che fare con una specie di marcia indietro che ogni tanto, ciclicamente, mi sembra mi guidi, e ho questa sensazione di vuoto, di niente, di silenzio, di giornate senza parlare con nessuno, e mi è tornata in mente la frase che avevo letto il giorno prima e che Lev Tolstoj aveva scritto nel 1884, a cinquantasei anni: «Se c'è qualcuno che dirige le cose della vita, vorrei rimproverarlo. È troppo difficile e spietata». E che i libri, mi è tornato in mente, quelli belli, e gli scrittori, quelli bravi, fan questo effetto che ti feriscono. E mi è venuto in mente Giorgio Manganelli, che in un pezzetto inedito recentemente pubblicato in rete dalla figlia Lietta scriveva: Non vi sono libri innocui, e non v'è cultura «che non fa male a nessuno» e rende migliori. Un grande libro è terribile, perché la sua storia dentro di noi non si spegnerà mai; e sarà la storia della nostra libertà. Una biblioteca è molte, strane, inquietanti cose; è un circo, una balera, una cerimonia, un incantesimo, una magheria, un viaggio per la terra, un viaggio al centro della terra, un viaggio per i cieli; è silenzio, ed è una moltitudine di voci; è sussurro ed è urlo; è favola, è chiacchiera, è discorso delle cose ultime, è memoria, è riso, è profezia ha scritto Manganelli, e io, in questi ultimi mesi, è una cosa che mi viene in mente spessissimo, insieme a un'altra cosa, che ha scritto Lev Tolstoj quando aveva cinquantasei anni che mi viene in mente spesso in questi ultimi giorni e insieme a una cosa che ha scritto un poeta della Guyana belga che mi è venuta in mente spessissimo da quando l'ho letta, più di vent'anni fa: «La legge delle altalene prescrive / che si abbiano scarpe ora larghe, ora strette. / Che sia ora notte, ora giorno. / E che i signori della terra siano ora il rinoceronte, ora l'uomo». | << | < | > | >> |Pagina 1436.E più andavo avanti più avevo l'impressione che la letteratura, sia quella di carta (cartacea) che quella elettronica, non avesse niente a che fare con gli uomini d'affari, e con i centri congressi, e col valore aggiunto, io più andavo avanti più mi sembrava che la letteratura, più che nei centri congressi, fosse più facile trovarla nella spazzatura, nei cassonetti, negli ospedali, sui filobus, nelle sale d'attesa degli ambulatori veterinari, nei bagni dei cinema, nei sottopassaggi abbandonati, sotto i cavalcavia, nei prati dopo che avevan smontato i tendoni dei circhi, nelle tabaccherie, nelle collezioni di francobolli, negli espositori delle cartoline, nei pavimenti dei bar quando eran cosparsi di segatura, nelle file alle casse dei supermercati, sui marciapiedi delle stazioni, in tutti gli uffici di oggetti smarriti, nella paura di chi faceva una cosa per la prima volta, un farmacista, o un medico di guardia, o uno scrutatore, o una bambina delle medie, nel passo di quelli che davano le dimissioni, nel respiro che si prendeva prima di aprire l'esito di una lastra ai polmoni, nel toccare i muri quando era saltata la luce, dappertutto, tranne che in un albergo per uomini d'affari, avevo l'impressione, ma probabilmente mi sbagliavo, perché probabilmente si trovava anche in un albergo per uomini d'affari, forse, nel sospiro delle cameriere nel momento in cui si chinavano per guardar sotto i letti, o nel rumore delle stoviglie a apparecchiare per la colazione, o nei monologhi dei tassisti che arrivavaano dalla stazione o anche che non arrivavano dalla stazione, ma da qualche altra parte, nei monologhi dei tassisti da qualsiasi parte arrivassero. | << | < | > | >> |Pagina 15526.E quella poesia lì di Gianni Rodari, da quando l'avevo letta la prima volta, vent'anni prima, mi era tornata in mente un sacco di volte, tutte le volte che avevo sentito piangere un bambino, in treno, o in libreria, o nella sala d'attesa di un dottore, e che mi aveva dato fastidio, e subito mi era venuta in mente la poesia di Rodari e avevo pensato che i bambini avevan diritto, di piangere, e il fastidio era stato sostituito da un altro fastidio, cioè dal fastidio per il mio fastidio, che cazzo avevo da avere fastidio? E avevo pensato, lì a Roma, dentro il palazzo dell'Eur, non so, adesso, a Parma, per esempio, si era appena votato, e le votazioni di Parma, come di tutti gli altri posti, per come si era abituati a considerarle, consistevano nel decidere chi avrebbe governato Parma e i parmigiani per i successivi cinque anni, il che voleva dire che io, lì in Emilia, dove abitavo, tra Bologna e Casalecchio di Reno, ero governato dalla giunta regionale emiliana, e dalla giunta comunale di Casalecchio di Reno, e ero stato governato da quella di Parma, quando abitavo a Parma, e da quella di Bologna, quando abitavo a Bologna in via Oberdan. Solo che io, secondo me, e era una cosa che, a pensare a Pascal, sarebbe stato meglio non dirla, difatti io non la dicevo, la pensavo, e pensavo che io, magari poi mi sbagliavo, ma io, mi era venuto in mente lì a Roma, a ripensare al Maestro e Margherita di Bulgakov, che nelle prime pagine c'era una signora che aveva un chiosco di bevande nel centro di Mosca e apriva due succhi di albicocca e intorno si spandeva odore di parrucchiera, e io, da quando avevo letto quella cosa lì, tutte le volte che sentivo odore di parrucchiera pensavo al Maestro e Margherita, e se non avessi letto Il maestro e Margherita probabilmente non avrei mai riconosciuto, nella mia vita, l'odore di parrucchiera, o a ripensare a Pascal, «Vuoi che la gente dica bene di te? Non dirne», o a Voltaire, «Se un delinquente sapesse come ci si sente bene a comportarsi bene, si comporterebbe bene per delinquentaggine» o al narratore del Grande Gatsby, e a suo babbo che gli insegna, una cosa sola, Non giudicare, o a Camilla Cederna, e cosa fa un poliziotto quando va al gabinetto? «Si porta nel locale adibito a toilette», o alle opere di Learco Pignagnoli, filosofo emiliano, e a tutte le volte che mi è tornato in mente che «Tranne me e te, il mondo è pieno di gente strana, e poi anche te sei un po' strano» o a Iosif Brodskij «I rintocchi del campanile / che ha messo radici nel cielo veneziano: / frutti che cadono senza toccare / il suolo. Se esiste un'altra vita, / lì qualcuno si occupa della raccolta / di queste cose» ecco, lì a Roma, dentro al palazzo dell'Eur, mi era venuto da pensare che io, invece che dai vari governi pentapartito o monocolore che si dice si siano alternati alla guida del paese negli anni della mia adolescenza e della mia giovinezza, io, piuttosto che da loro, ero stato governato da Bulgakov, da Fitzgerald, da Brodskij, da Pascal, da Voltaire, da Balzac, da Erofeev, da Vonnegut, da Camus, da Anna Achmatova, da Lev Tolstoj, da Gogol', da Dostoevskij, da Learco Pignagnoli, da Gianni Rodari, per non parlare degli scrittori della Guyana belga, e ero stato, a volte, per degli attimi, per dei giorni, per dei mesi, un suddito felice e riconoscente. Allora per me, avevo pensato lì al palazzo dell'Eur, un evento politico più importante delle elezioni di Parma, o di Roma, o di Strasburgo, o di Mosca o di Washington, sarebbe stato che qualcuno, da qualche parte, in Emilia, o in Russia, o in Ucraina, o in Francia a Parigi, o in Borgogna, o a Indianapolis, o a San Pietroburgo, qualcuno, di notte, nel suo appartamento, uno che non sapevo neanche come si chiamava, e che faceva, probabilmente, un mestiere normale, come ispettore delle mense scolastiche, o qualcosa del genere, sarebbe stato importante che quello lì continuasse a scrivere il romanzo al quale stava lavorando da dei mesi, che avesse continuato a rubare tempo al sonno per tirare fuori dalla sua pancia il romanzo destinato a governarci e a fare di nuovo di noi, che non avevamo altro che il nostro spaesamento e la nostra disperazione, dei sudditi felici e riconoscenti, speriamo, speriamo, avevo pensato a Roma, al palazzo dell'Eur. | << | < | > | >> |Pagina 18859.Il nonno di Paride era un signore che aveva fatto il partigiano, e era stato tra i primi, a Parma, a andare in montagna. Che era una cosa, non so, quando te vieni a sapere che uno ha fatto il partigiano, e che è stato tra i primi, a andare in montagna, lo guardi con uno sguardo che lo squadra in un modo diverso, come se dicessi, con quello sguardo, che non l'avresti mai detto, che stavi parlando con un partigiano, che era stato tra i primi, a andare in montagna, e sei come obbligato, a guardarlo, come quando qualcuno trova un quadrifoglio, che ti dice «Guarda, ho trovato un quadrifoglio», e te cosa fai, non lo guardi?
Lo devi guardare, e la stessa cosa se trovi un partigiano, uno che, ai tempi
del fascismo, era stato antifascista, che se uno ti dice «Io sono di
centrodestra», o «Io sono di centrosinistra», o «Io sono di
centro», o «Io sono di un partito non partito di cittadini che finalmente
prendono il potere», o «Io sono un progressista», o «Io sono un conservatore»,
ecco, questi qua a te non ti vien da guardarli, e magari ti viene anche da
chiedergli, a quello che ti dice
di essere un conservatore «Ah, davvero, e cosa conservi? Che cosa hai trovato,
di così interessante, da conservare, che magari la cerco anch'io la conservo
anch'io», ecco, a uno che ti dice di essere un partigiano te non glielo chiedi,
che cosa ha trovato, di così
importante, da andare in montagna, è come se lo sapessi, anche se non ti piace,
anche se, mettiamo, non sei d'accordo, anche se sei un fascista, anche se sei
un fascista lo sai, o credi di saperlo, cos'hanno trovato, di così importante,
da andare in montagna.
60.
E quando la guerra poi era finita, il nonno di Paride, che si chiamava Oreste, Oreste Spaggiari, quando hanno detto «Dovete consegnare le armi», che c'era stato l'armistizio, che avevano ordinato a tutti di riconsegnare le armi, anche ai partigiani, lui, come anche molti altri, non le aveva riconsegnate, le armi. E poi, dopo, come si sa, ci son stati dei posti, non dappertutto, dei posti, in Italia, che quelle armi lì, i partigiani le hanno usate per regolare dei conti, se così si può dire, che io non voglio parlare di questo, voglio dire che ci son stati dei posti dove è successo, che di cose del genere ne sono successe, anche se io, non lo so, non è una materia che io l'avevo studiata, non era una cosa che mi sono informato, non posso dir niente di preciso, l'unica cosa: sono iscritto all'ANPI, ma ne so poco. Quello che so, che a Parma, quei partigiani parmigiani che non avevano restituito le armi, le armi, sembra, non le avevan mica usate per uccidere gli ex fascisti per regolare dei conti, no. Sembra che la maggior parte, le armi, le abbiano usate per rubar dei formaggi. Che avevan formato una banda che si chiamava La banda del formaggio, e il nonno di Paride, Oreste, faceva parte della banda del formaggio. Dicono. Che non è che lo dicono, ci son stati i processi, ma non adesso, nel febbraio del 1946, che li avevano presi, «Una banda di saccheggiatori di magazzini di grana», c'era scritto sopra ai giornali, ma non adesso, nel 1946, che erano «Trenta, quaranta persone, armate di tutto punto e munite di autocarri di tipo americano o inglese».
Che, ancora alla fine del 1945, c'era scritto sul
giornale, «in combutta con tre disertori inglesi» avevano rapinato:
«quattrocentocinque forme di grana, settecento uova, quaranta scatole di
conserva di pomodoro, ventidue chilogrammi di strutto, tre quintali di frumento,
ottanta chilogrammi di miele e altri generi».
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