Copertina
Autore Paolo Nori
Titolo Pubblici discorsi
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2008, Compagnia Extra 5 , pag. 250, cop.fle., dim. 12x19x2,8 cm , Isbn 978-88-7462-214-6
LettoreRenato di Stefano, 2010
Classe narrativa italiana , critica letteraria
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Indice


  7  Le agenzie ippiche

 29  Abbagli

 52  Sputare negli stivali

 94  Meccanici

 98  Spaccarsi la testa

109  Comandano loro

131  Asterisco Ferretti

153  Come mai questo titolo (L'Antimateria, gli stivali e la cera)

196  Come mai questo titolo (I lamponi e il libero arbitrio)

237  Lunedì


 

 

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Pagina 7

Le agenzie ippiche


Discorso sulle biblioteche
pronunciato a Imola
in un mese e un giorno imprecisati del 2002
in occasione del convegno La biblioteca e l'immaginario



Una volta, nel dicembre del novantatre, ero nella biblioteca Lenin di Mosca, stavo facendo la tesi, non ne potevo più, volevo leggere qualcosa che mi facesse dimenticare che ero a Mosca, che ero in biblioteca, che dovevo scriver la tesi e che era il dicembre del novantatre, mi ero messo a leggere un libro che con la mia tesi c'entrava pochissimo, me l'aveva consigliato la mia insegnante di russo, era un romanzo di un filosofo russo che viveva in Inghilterra, Filosofia di un vicolo, si intitolava.

Un'altra volta, nel dicembre del duemila, ero alla Feltrinelli di Parma a presentare un romanzo che si intitolava Spinoza, non ne potevo più, volevo dimenticarmi che avevo scritto un romanzo, che lo avevo pubblicato, che dovevo presentarlo, che era uscita una critica su un importante inserto di un importante quotidiano nazionale e che questa critica diceva che io ero un grande appassionato di Spinoza e che la filosofia del pensatore olandese pervadeva tutto il romanzo.

In quel romanzo lì, al protagonista un suo amico gli consigliava di leggere le opere del filosofo olandese Baruch Spinoza; il protagonista andava in biblioteca, prendeva un'opera, L'etica dimostrata secondo l'ordine geometrico, l'apriva, Parte prima, leggeva, Dio, la richiudeva, tornava in biblioteca, restituiva L'etica dimostrata secondo l'ordine geometrico poi però questo nome Spinoza gli rimaneva dentro le orecchie andava avanti tutto il romanzo a citare Spinoza.

La vita è fatta a scale c'è chi scende c'è chi sale, come dice Spinoza, diceva il protagonista; La donna è come la castagna bella di fuori dentro ha la magagna, diceva il protagonista, come dice Spinoza; Con l'arte e con l'inganno si vive mezzo anno, con l'inganno e con l'arte si vive l'altra parte, come dice Spinoza, diceva il protagonista.

Allora quando era uscita la critica, immaginare che qualcuno aveva potuto immaginare che Spinoza aveva scritto davvero La donna è come la castagna bella di fuori dentro ha la magagna sarebbe stato anche bello, solo che a me era del tutto passata la fase dell'esaltazione ero nel pieno della fase della sensazione e poi lì, alla libreria Feltrinelli, quando la prima domanda mi avevano chiesto se io intendevo Dio come Spinoza intendeva il suo Dio, io ero stato costretto a spiegare come stavan le cose a dire che se qualcuno aveva letto il giornale e era venuto davvero per parlare con me del filosofo olandese Spinoza era meglio se andava via subito che io di Spinoza non avevo purtroppo niente da dire se non che il suo libro L'etica dimostrata secondo l'ordine geometrico cominciava così: Parte prima. Dio.

Che poi per fortuna, alla libreria Feltrinelli di Parma, qualcuno aveva fatto subito un'altra domanda per sciogliere l'imbarazzo che si era creato. Lei nei suoi libri parla spesso di biblioteche, che rapporto ha lei con le biblioteche? mi avevano chiesto, e io stavo per rispondere, qualcosa da dire ce l'avevo, sulle biblioteche ne sapevo sicuramente di più che su Spinoza, solo che prima che rispondessi mio fratello Emilio, che era tra il pubblico, Che domanda, aveva detto, per mio fratello le biblioteche sono come per me le agenzie ippiche.

Ecco. Adesso torniamo un momento in Russia nel novantatre.

[...]

Magari per motivi tecnici è chiusa anche la biblioteca, avevo pensato, invece la biblioteca era aperta lavoravano tutti, i poliziotti, le bibliotecarie, le guardarobiere, le cuoche, le cameriere, le lavapiatti, io avevo consegnato il cappotto, avevo preso i miei libri, avevo letto, avevo pranzato, avevo fumato, avevo ritirato il mio microfilm, avevo riconsegnato i miei libri ero tornato a casa in ulica Belozėrskaja prima a piedi poi in metrò poi in autobus io nell'ottobre del novantatre ero così preso dalla mia tesi, per me era così importante andare quasi tutti i giorni in biblioteca che facevo delle cose che raccontarle oggi in Italia uno può pensare che non ero mica tanto normale invece ero solo molto attaccato alla mia tesi ero in quella che i sufi chiamano la fase dell'esaltazione.

Che come dice Hazrat Inayat Khan nel suo La purificazione della mente, ci sono due modi di esperire la vita, un modo è la sensazione, l'altro è l'esaltazione, e l'esaltazione è quello che prova il mistico.

Non che io adesso mi voglio dar delle arie dire che in Russia nel novantatre ho fatto un'esperienza mistica, come dice Hazrat Inayat Khan Anche le creature inferiori come gli uccelli e le bestie hanno dei barlumi di esaltazione, e se approfondiamo maggiormente questo argomento comprenderemo ciò che si legge in un verso meraviglioso della tradizione islamica: Ci sono dei momenti in cui perfino le rocce si esaltano e gli alberi vanno in estasi.

E io nell'ottobre del novantatre ero proprio in una fase di esaltazione disturbata solo da qualche contrarietà come per esempio ogni tanto dei cetrioli ma soprattutto dal fatto che per andare e tornare dall'appartamento alla biblioteca ci mettevo tutti i giorni due ore allora forse è stato per quello, che il giorno dopo la rivoluzione ero sceso in ulica Belozėrskaja con le mie borse le mie valigie e avevo fermato un tassì.

Dove deve andare? mi aveva chiesto il tassista In centro, gli avevo detto, in ulica Trofimovica. Là sparano, mi aveva detto il tassista. Le do centocinquanta rubli? gli avevo detto. Ma là sparano, mi aveva detto lui. Se le do duecento rubli? gli avevo chiesto. Ma là sparano, mi aveva detto il tassista. Duecentocinquanta, gli avevo detto, Monta, mi aveva detto lui, e mi ero trasferito felicemente da ulica Belozėrskaja a ulica Trofimovica nella casa sul lungofiume dieci minuti a piedi dalla biblioteca Lenin e la mia tesi aveva cominciato a andare benissimo fino a un giorno in novembre che è stata la volta che mi son messo a piangere.

Che i primi tempi della mia tesi io ero in preda a quello che Hazrat Inayat Khan, nel suo La purificazione della mente, chiama un aspetto fisico dell'esaltazione, che si presenta quale reazione o conseguenza della visione dell'immensità dello spazio, e la visione esaltata dei panorami letterari che avevo davanti mi rimandava una promessa di libertà che rispondeva al desiderio della mia anima, se è vero che l'anima inconsciamente si strugge dal desiderio di trovare la libertà che in origine le apparteneva, come dice Rumi nel suo Masnavi, citato in La purificazione della mente, di Hazrat Inayat Khan.

Solo che questa esaltazione fisica, che aveva resistito ai cerchi alla testa, alle due ore di viaggio tutti i giorni, alla rivoluzione, alle incomprensioni con la mia nuova padrona di casa, è crollata un giorno di novembre del novantatre nella biblioteca Lenin di Mosca quando dalla comparazione di due diari scritti in epoche diverse dal pittore-musicista-editore-marito della poetessa futurista Elena Guro Michail Matjusin mi ero accorto che tra i futuristi, che io nella mia esaltazione vedevo come degli eroi senza macchia e senza paura, come si dice, c'erano anche delle mezze tacche di filibustieri, come il pittore-musicista-editore-marito della poetessa futurista Elena Guro Michail Matjusin, e questa scoperta, che ricordata oggi ha una significanza vicina allo zero, io nel novembre del novantatre, sarà stato che ero stanco per i cerchi alla testa, per la distanza dall'appartamento alla biblioteca, per la rivoluzione, per le incomprensioni con la mia nuova padrona di casa, per il fatto che le persone che avevo scelto da farci sopra la tesi non si capiva mai bene dov'eran sparite, sta di fatto che il momento che avevo fatto questa scoperta era stato il momento che ero passato dalla fase dell'esaltazione a quella della sensazione, da uno stato sottile a uno stato grossolano, come dice Hazrat Inayat Khan nel suo La purificazione della mente, che è poi quello che lo scrittore americano Kurt Vonnegut definisce Il momento che la merda tocca le pale del ventilatore, che è poi stato il momento che sono scoppiato a piangere nella biblioteca Lenin di Mosca mi vergognavo come un cane ho continuato a vergognarmi fino a quando nel dicembre del novantatre non sono andato alla festa di compleanno della mia padrona di casa.

[...]

Che com'ero tornato nella sala da pranzo mi era venuto incontro E lei, mi aveva chiesto, cosa fa? Io sono filologo, gli avevo risposto. Bene, mi aveva detto Volodja, brindiamo alla filologia, mi aveva detto, e mi aveva riempito il bicchiere, si era riempito il suo, avevamo brindato alla filologia. E come mai è qua in Russia? mi aveva chiesto. Per raccogliere materiale per la mia tesi di laurea, gli avevo risposto. Bene, mi aveva detto Volodja, brindiamo alla raccolta del materiale per sua la tesi di laurea, mi aveva detto, e mi aveva riempito il bicchiere, si era riempito il suo, avevamo brindato. E come si intitola, la sua tesi di laurea? mi aveva chiesto. Velimir Chlebnikov, la lingua nella quarta dimensione, teoria e pratica linguistica, gli avevo risposto. Bene, mi aveva detto Volodja, brindiamo a...

E si era fermato a metà della frase, aveva allargato gli occhi, era scoppiato a piangere. Che tutti si eran fermati, nel loro parlare, si eran messi a guardare tutti Volodja che nessuno capiva cos'era successo. Volodja, cos'hai? si eran messi a chiedergli tutti, e Volodja lui niente, si era seduto, si era preso la testa tra le sue mani, stava lì sulla sedia piegato in due il corpo scosso da dei singhiozzi fortissimi tanto più sorprendenti se si considera che scuotevano il corpo di un architetto moscovita alto, grosso, con i due denti davanti sporgenti grandissimi molto distanziati l'uno dall'altro. Ma cosa gli ha detto? mi aveva chiesto la padrona di casa con uno sguardo cattivo. Io? le avevo risposto, Niente.

La padrona di casa, mi aveva guardato come mi ha guardato l'anno scorso un signore a San Pietroburgo un mattino del duemilaeuno che ero nel parco tra la prospettiva piccola e la prospettiva media dell'isola Vasilevskij, avevo appena fatto i miei quattro giri del parco ero lì per terra che fumavo una sigaretta aspettavo di riprendermi per fare poi dopo i miei addominali, vedo che s'avvicina questo signore, un po' barcollante, nell'andatura, con in mano una bottiglia di vino rosso, viene da me, Hai un cavatappi? mi chiede. Un cavatappi? gli chiedo. Un cavatappi, mi dice lui. Ce l'hai? mi chiede. No, gli dico, non ne ho, di cavatappi, gli dico, e questo mi guarda con uno sguardo, un misto di delusione e disprezzo, poi agita la mano nell'aria Aaaàh, dice, e si volta si avvia con il passo suo barcollante alla ricerca di qualche frequentatore del parco con un cavatappi.

La padrona di casa, nel novantatre, nella casa sul lungofiume, non aveva agitato la mano, non aveva detto Aaaàh, ma mi aveva guardato nello stesso identico modo poi si era chinata su Volodja, aveva cominciato a accarezzargli la schiena squassata da dei singhiozzi rumorosissimi, Su, coraggio, aveva cominciato a dirgli, ti sei impressionato perché non esci da un sacco di tempo ma non è successo niente, siamo qui tra amici, ti vogliam tutti bene, càlmati, Volodja, gli aveva detto la padrona di casa a Volodja e si vede che un po' l'aveva tranquillizzato, perché Volodja aveva tolto le mani da davanti alla faccia, aveva alzato la testa, mi aveva indicato con l'indice, Lui... aveva detto, lui... lui... Cosa ti ha fatto? gli aveva chiesto la padrona di casa, e mentre gli chiedeva così mi aveva guardato in un modo, ancora peggio che se non avessi un cavatappi, Cosa ti ha fatto? gli aveva chiesto a Volodja la padrona di casa. Non aver paura, gli aveva detto, diccelo, che ci pensiamo noi.

Lui, aveva detto Volodja con la voce che gli tremava, lui, aveva detto intanto che mi indicava col dito, lui, aveva detto, fa la tesi su... su... su... su Chlebnikov! aveva detto Volodja, e era scoppiato ancora a piangere, si era preso ancora la testa in mano, si era raccolto ancora su se stesso, aveva ricominciato a singhiozzare fortissimo.

Aaah, aveva detto la padrona di casa, ho capito. Cos'hai capito? gli aveva chiesto un collega architetto alla padrona di casa. No, aveva detto la padrona di casa, dicevo così per dire, non ho capito niente.

E infatti era vero, nessuno aveva capito niente. Che dopo, a Volodja, per fargli spiegare perché il fatto che facevo la tesi su Chlebnikov era una cosa così toccante che lo colpiva così nel profondo ce n'era voluto, del tempo, nella casa sul lungofiume, nel novantatre, che ogni volta che smetteva di piangere che si riprendeva che gli chiedevano E be'? E allora? Anche se fa la tesi su Chlebnikov c'è bisogno di piangere?, Volodja tutte le volte lui alzava la testa, alzava il braccio mi indicava Lui, cominciava a dire, lui... lui... fa la tesi su... su... su... su Chlebnikov, e scoppiava a piangere tutte le volte.

Fino alla fine che poi dopo era riuscito poi a controllarsi s'era spiegato, alla fine, e aveva detto che in Russia, dopo la fine dell'impero sovietico, era venuta su una generazione di russi che badavano solo ai soldi e a come ostentarli, una generazione che parlavan l'inglese pagavano in dollari e avevan fatto girare il paese sul suo asse portante che adesso tutti nella Russia post perestrojka le loro vite eran cambiate alla ricerca del soldo a studiare l'inglese a pagare coi dollari per star dietro all'occidente, dicevano, E anche le nostre, di vite, diceva Volodja, sono cambiate, per star dietro all'occidente, e io sapere che in occidente c'è della gente che viene in Russia a studiare Chlebnikov, il più grande poeta russo del novecento che non aveva mai neanche una lira che gli occidentali non li sopportava, io sapere che Chlebnikov in occidente lo studiano qui in Russia Chlebnikov i nostri ragazzi non sanno neanche chi è, diceva Volodja nel novantatre, io questa cosa la trovo ingiusta, una presa in giro, una beffa, non c'è l'ho con te, mi aveva detto Volodja nella casa sul lungofiume, e ci eravamo abbracciati ci eravam stretti forte mi veniva da piangere mi ero trattenuto avevo cercato un diversivo mentale per non scoppiare in singhiozzi rumorosissimi che se scoppiavo in singhiozzi rumorosissimi anch'io ce ne veniva una gamba, nella casa sul lungofiume, nel novantatre, e da sopra la spalla di Volodja avevo cercato lo sguardo della padrona di casa che aveva appena finito di dire Aaaah, ho capito, e l'avevo guardata con uno sguardo prima di sfida dopo di pace Te sei una testa di cazzo, le avevo detto con il mio sguardo, ma io ti perdono, le avevo detto, e con Volodja poi alla fine eravam diventati amici mi aveva poi dato anche il suo numero mi aveva detto di chiamarlo di andarlo a trovare Mangiamo insieme due cetrioli, mi aveva detto, Sì sì, avevo pensato, li conosco i tuoi cetrioli.

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Pagina 94

Meccanici


Discorso pronunciato a Scandiano (RE) il 2 ottobre 2007
in occasione dell'uscita del libro
Tentativo di esaurimento della città di Scandiano



Buonasera. Mi son scritto un discorso che durerà quattro minuti. Mi rendo conto che forse è un po' ridicolo, vedere uno che legge un discorso che dura quattro minuti, che uno che lo vede pensa, Ma perché se l'è scritto? Lo poteva dire, e in effetti per le cose che devo dire stasera, le potevo anche dire, solo che quando devo parlare in pubblico, mi succede che io quando parlo, mi viene spontaneo far degli incisi, aprire delle parentesi, anche quando scrivo, solo che quando parlo dopo di solito non mi ricordo mai da dove ero partito resto lì che non so cosa dire e è proprio bruttissimo, non aver niente da dire di fronte a della gente che ti ascoltano, anche dei cinque sette secondi senza niente da dire che son proprio lunghissimi, cinque sette secondi di silenzio se c'è della gente lì che ti ascolta, e di solito quando mi succede così, per toglier di mezzo il silenzio che produce un imbarazzo che fa gravare sul posto dove succede la cosa una specie di nebbia fitta e spiacevolissima, io di solito prima faccio dei rumori del tipo Mmmmm, Mmmmm, oppure Eeeeee, Eeeee, poi di solito dico la prima cosa che mi viene in mente, che di solito non c'entra niente con l'argomento del discorso che devo fare quella volta lì. Allora dopo poi sto malissimo.

Invece quando scrivo, se per caso non mi ricordo da dove ero partito, cosa che mi succede forse anche più spesso di quando parlo, vado a rileggere quello che avevo scritto prima e mi torna in mente, quello che volevo dire.

Allora quando scrivo, dopo succede lo stesso che dico delle cose che non c'entrano niente, ma lo faccio consapevolmente, per esempio ultimamente di qualsiasi argomento trattino i miei discorsi, è un periodo che io non so come mai, mi chiamano a fare un sacco di discorsi, di qualsiasi argomento tratti il discorso che sto facendo a me vien sempre da dire che Guerra e pace non è un romanzo di formazione, perché Pierre Bezuchov alla fine è ridicolo.

Il corso che abbiam fatto a Scandiano, e che ha prodotto questo libretto che esce stasera, Tentativo di esaurimento della città di Scandiano, titolo ispirato a Perec e al suo Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, io per me questo corso, che s'è incrociato l'inverno scorso con un altro corso che abbiam fatto a Reggio Emilia insieme a Daniele Benati e Ugo Cornia e che si chiamava Scuola elementare di scrittura emiliana, ecco per me c'è stato un momento, l'inverno scorso, che s'è realizzata quella condizione che qualsiasi cosa uno legga, diventa interessante.

Io l'inverno scorso per un paio di settimane qualsiasi romanzo mi capitava in mano, qualsiasi racconto, qualsiasi poesia, io lo leggevo con un interesse, non era importante se mi piaceva o se non mi piaceva, era importante come era fatto. Che è una cosa che mi succede rarissimamente e son sempre contento, quando mi succede, è un sintomo di buon umore, per me, di animo sgombro dalla cattiveria e dall'acidume che di solito grava negli animi.

Ecco questa cosa qua, concentrarsi sulle cose come son fatte, lasciar perdere per un momento la discussione mi piace non mi piace, che è una discussione che ha come unico approdo possibile la celebre frase di Daniil Charms Tu la pensi in un modo io la penso in un altro, concentrarsi sulle cose come son fatte era una delle cose che abbiam provato a fare nel corso, trasformarci tutti in meccanici.

Si trattava di guardare alle frasi, ai racconti, ai romanzi, nello stesso modo in cui i meccanici guardano le macchine: Quel carburatore lì, funziona? Arriva, la benzina? Non consumerà troppo? Ce la fa con un pieno a far trecento chilometri?

Dopo poi, quello che a uno gli piace, è un altro discorso. A uno gli piace più una Lamborghini, l'altro preferisce una macchina più modesta, che consuma meno, come una Prinz, chissà se ci sono ancora, le Prinz, da noi a Parma le chiamavan le saponette, non era una gran macchina secondo la maggior parte dei miei conoscenti, a me piaceva, e poi, in generale, piuttosto di una Lamborghini che non funziona, è meglio una Prinz che funziona. Bisogna dire che se neanche la Prinz non funziona, forse piuttosto è meglio una Lamborghini, che non funziona, se uno la usa per dormire almeno è più comoda, credo. Per dormire son meglio le Lamborghini, se uno è sveglio secondo me son meglio le Prinz, ma queste son questioni di gusti, invece al corso non era questione di gusti, la domanda lì al corso non era Ti piace o Non ti piace, la domanda era Funziona? Passa la benzina? Quanto consuma? e alla fine del corso di macchine ne avevamo provate parecchie e dopo ciascuno s'è costruito la sua e ha deciso lui come farla, e anche dove andare, e il risultato è raccolto in questo libretto, dove, vedrete, forse dipende da chi teneva il corso, prevalgono le Prinz, come tono. Che io, non discuto, la Lamborghini ha un'utenza, come si dice, molto più trendy, come si dice, ma le Prinz, io devo dire preferisco le Prinz.

Quando vedo una Lamborghini, io, in giro per strada, provo sempre un imbarazzo che fa gravare sul posto dove passa la Lamborghini una specie di nebbia fitta e spiacevolissima.

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Pagina 108

Ecco io più che della letteratura italiana del novecento io un'idea più compiuta ce l'ho della letteratura italiana del nuovo secolo, Bella forza, si potrebbe pensare, son passati tre anni, sì ma, anche in tre anni, ci son delle cose da dire.

La cosa che un po' mi stupisce, dei libri italiani del nuovo millennio, anche dei miei, è che sian così strani. E che sian così strani è evidentissimo, secondo me, basta leggere le quarte di copertina. Son tutte un ossimoro.

Un romanzo lieve e pensieroso, Un'opera leggera e profonda, Una prosa calma e nervosa, Un'allegra, trascinante cattiveria, Un libro tranquillo e scatenato, Un mondo di certezze insicure, Un romanzo in cui la cornice conquista lo sfondo, lo sfondo conquista i primi piani, In questa scrittura i dettagli sono capitali, Una prosa prevedibile e sorprendente, Un romanzo dove un fratello sembra uno straniero, Un romanzo che ha dato vita a un fantasma, Una trama dove i veri protagonisti sono le comparse, Un personaggio che retrocede, o avanza, Un canile che un canile non è.

Allora, se voi siete d'accordo, io vi lascerei con una domanda: ma perché scriviamo dei libri così strani?

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Pagina 109

Comandano loro


Discorso sulle lingue inventate
pronunciato a Udine il 20 ottobre 2007
in occasione di una rassegna di discorsi intitolata
Testi e contesti



Buonasera.

Io stasera avrei forse dovuto parlare di un libro di Alessandro Bausani, Le lingue inventate, che è uno dei libri che ho letto quando ho fatto la tesi.

Quando fai la tesi è un periodo che leggi dei libri che non avresti mai letto, se non facevi la tesi.

Io, per esempio, ho letto dei libri di psicologia della fine dell'ottocento di ambiente anglosassone, A New Era of Thought, di James Howard Hinton, un libro che è una specie di manuale con degli esercizi per i bambini che, secondo Hinton, se li avessero seguiti fin da quando erano piccoli, i bambini si sarebbero accorti che il mondo non è, come pensavano i loro genitori, tridimensionale, è tetradimensionale, ha quattro dimensioni, un libro che Hinton appena finito di scriverlo era dovuto scappare dall'Inghilterra, una fuga misteriosa, che ha fatto scrivere a Borges che si era forse suicidato, invece Hinton era fuggito da una condanna per bigamia e era finito prima a Singapore, se non ricordo male, e poi negli Stati Uniti, dove aveva inventato una macchina per allenare i battitori di baseball, una specie di cannone che sparava le palle fortissimo, e poi era morto ad un pranzo dopo aver fatto un brindisi al genere femminile e io mentre facevo la tesi, che era una tesi che si intitolava La lingua nella quarta dimensione, ho letto tutti i suoi libri, di Hinton.

E ho letto anche il libro di Alessandro Bausani, Le lingue inventate, e anche The Cosmic Consciousness, di Raymond Maurice Bucke, presidente dell'associazione nordamericana di psichiatria, morto in Canada davanti a casa sua, una notte che ghiacciava, scivolando sulla veranda e picchiando la testa, un libro che diceva che era imminente la comparsa dell'uomo cosmico, che era già apparso sporadicamente nel corso dei secoli precedenti.

Buddha, Cristo, Maometto, san Paolo, Dante, Balzac, Whitman, secondo Bucke erano tutte persone che nel corso della loro vita avevano avuto momenti in cui erano stati degli uomini cosmici, che si erano resi conto della vera natura del mondo, e nel futuro imminente era evidente, secondo Bucke, che la maggior parte degli esseri umani sarebbero stati uomini cosmici; Bucke, nei primissimi anni del novecento, prevedeva per il futuro imminente un mondo fatto tutto di Buddha, di Cristi, di Maometti, di san Paoli, di Danti, di Balzacs e di Whitmans, il superuomo di massa ma vero, non come quello che descriverà poi Umberto Eco.

Il quale Umberto Eco, ma dopo, alla fine del ventesimo secolo, scriverà un libro, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, che egli stesso dichiarerà essere ispirato dal libro Le lingue inventate, di Alessandro Bausani, libro che anch'io ho letto quando ho fatto la tesi e del quale avrei dovuto forse parlare stasera, solo che ormai anche in pubblico ho detto che parlerò di una cosa diversa.

[...]

Queste cose Chlebnikov le scrive in un articolo del 1919 intitolato Il nostro fondamento, articolo nel quale si occupa anche di slovotvorcestvo, o logopoiesi, o creazione verbale, della quale inevitabilmente avrei parlato stasera se avessi parlato delle Lingue inventate, di Alessandro Bausani.

La creazione verbale, secondo Chlebnikov, è l'esplosione del silenzio linguistico, degli strati sordomuti della lingua. Sostituendo all'interno di una vecchia parola un suono con un altro, scrive Chlebnikov, noi creiamo una via da una collina della lingua all'altra, come ingegneri ferroviari apriamo vie di comunicazione nel paese delle parole sopra le gole del silenzio linguistico. La parola, secondo Chlebnikov, si può suddividere in pura e ordinaria, e si può credere che in essa sia celato l'intelletto notturno stellare e diurno solare. Questo succede, scrive Chlebnikov, perché uno dei significati della parola copre tutti i suoi rimanenti significati, esattamente come di giorno spariscono tutti i corpi celesti della notte stellare. Ma per il duca del cielo, scrive Chlebnikov, il sole è un semplice granello di polvere, come tutte le altre stelle. E è semplice consuetudine, è un caso, che noi ci troviamo proprio intorno al sole in questione.

Tempo fa, scrive Chlebnikov, le lingue univano gli uomini. Trasferiamoci all'età della pietra, scrive. Notte, fuochi accesi, lavorìo di neri martelli di pietra. All'improvviso dei passi, tutti si precipitano alle armi e si pietrificano in pose minacciose. Ma ecco che dall'oscurità emerge un nome noto, e di colpo tutto diventa chiaro: arrivano i nostri. Nostri!, arriva dall'oscurità con ogni parola della lingua comune. Proprio così univa la lingua, come una voce conosciuta, scrive Chlebnikov nel 1919 in Nasa Osnova e sarebbe stato interessante parlarne, se avessi deciso di cominciare dalle Lingue inventate, di Alessandro Bausani. Solo che ormai anche in pubblico ho detto che parlerò di una cosa diversa.

Tra l'altro Umberto Eco, nel suo libro La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, proprio nella prima pagina, se non ricordo male, dice che in quel libro lì non si occuperà della lingua di Chlebnikov perché è una lingua pensata per soli fini poetici, che io all'epoca quando l'ho letto ho pensato Ma cosa dici, Umberto Eco? Poi subito dopo ho pensato Vacca, ne so più io di Umberto Eco, su Chlebnikov, cosa che mi ha confermato nel mio pensiero che siamo tutti dei semicolti, anche Eco.

Ogni tanto c'è della gente, mi permetto una piccola parentesi personale, ogni tanto c'è della gente che quando escono i miei libri scrive che io sono una persona coltissima che fa finta di esser un semicolto, si sbagliano. Io non sono affatto coltissimo. E a parte me, che non c'entro niente e non capisco perché mi sono tirato in ballo, nessuno, oggi, è coltissimo. Uno poteva esser coltissimo nel 1700, nel 2007 non è possibile, essere coltissimi, e neanche colti, è possibile essere, è possibile al massimo portare pazienza. Chiusa la parentesi. Veniamo al tema dell'odierno discorso.

Vi leggo l'inizio di un romanzo italiano:

Per quasi un'ora, trascorso il tramonto, il mondo di piante e acqua e ogni cosa aveva regnato sotto un celeste regno in cui il profilo della luna, ancora pallida nel contrasto, bianca e tardiva, non appieno si lasciava distinguere.

Lungo l'orizzonte si riflettevano, immense e remote, vivide lingue d'incendio che pure, in quell'aereo fuoco, parevano conferire pace e misura al dileguare del sole dietro le colline; così che in tanta quiete era come se ogni litigio di voce umana avesse chinato docile il capo, lasciandosi condurre per mano, smorendo pian piano la luce, fin dentro il cuore fresco e ristoratore della sera.

Adesso, suonata la mezzanotte, il mite grecale che ci avvolgeva appena scostando piano, a tratti, i rossi bordi delle tovagliette dai tavoli all'aperto del caffè Moldavia, aveva preso a soffiare. Vibrava e produceva il suo suono, la sua voce, fra i rami e le foglie a milioni che, specie in estate, a ora tarda, potevano trasformare la tua sosta d'avventore in qualcosa di solitario e verde, preparatorio all'imminente riposo.


Sembra I promessi sposi, di Alessandro Manzoni, 1840, è Il compagno di mezzanotte, di Silvia Ballestra, 2002.

Io questo libro l'ho comprato che ero appena tornato dalla Russia, il giorno stesso che ero tornato, ero stato in libreria, avevo visto un libro della Ballestra, avevo sentito parlare, della Ballestra, un'innovatrice, una sperimentatrice, avevo letto anche già qualcosa, di suo, La guerra degli Antò, Aspetta che vediamo da che parte è andata la Ballestra, avevo pensato, e avevo preso il libro al volo, l'avevo pagato, come ero stato fuori dalla libreria l'avevo aperto, avevo letto le prime righe, l'avevo richiuso, avevo guardato la copertina, l'avevo riaperto, avevo riletto le prime righe, l'avevo richiuso, mi ero guardato intorno per veder se era vero davvero, il mondo c'era intorno.

Vi leggo un pezzo di un altro romanzo italiano:

L'altro giorno, mentre stavo guidando a gran velocità per presentarmi in perfetto orario all'istituto Don Ercole Magnani di Sassuolo, luogo nel quale avrei dovuto fare la mia prima supplenza vera e propria, a un certo punto, proprio mentre pensavo a com'è doloroso alzarsi alle sette di mattina, passando in una mezza curva ben precisa seguita da un semaforo, mi è venuta addosso una grande allegria. Allora ho pensato che tante volte sotto quel semaforo dell'incrocio per Corlo io sono stato contentissimo.

Immediatamente mi sono chiesto come mai accada così spesso che nella mia vita esista questo sentimento di affetto così intenso per delle curve e dei semafori. Quasi sempre, quando sono stato in macchina con una ragazza che mi piaceva molto, se era una ragazza che mi piaceva veramente non ho potuto fare a meno di dirle che stavamo passando in una curva che amavo moltissimo, e ho cercato sempre di fargliela apprezzare perché se non avessi detto niente mi sarei sentito uno che nasconde qualcosa.

Mi ricordo che un giorno stavo andando per la prima volta a prendere una mia amica, una donna di una bellezza straordinaria, e per una fortunata circostanza del caso sono passato in una grande curva in pendenza, di quelle da fare ai centodieci all'ora, una curva che non avevo dimenticato più, e in cui ero già stato in una bella sera di giugno. Quella curva l'avevo cercata per cinque o sei anni senza mai trovarla perché confondevo una pedemontana con un fondovalle, e mi ostinavo a sbagliare sempre. Appena ho visto quella donna le ho detto subito che avevo ritrovato una curva che avevo cercato per degli anni, gliel'ho descritta, e ci siamo andati immediatamente perché anche lei mi ha detto che quel posto le piaceva moltissimo.


Questo è l'inizio del capitolo 12 di un romanzo di Ugo Cornia, romanzo che in origine si intitolava Tra poco saremo tutti morti, titolo che a me piaceva moltissimo, e mi aveva fatto pensare a una cosa che prima di leggere quel titolo lì non ci avevo mai pensato, che tra poco, tra pochi decenni soltanto, anche noi che siamo seduti qui oggi, saremo tutti morti, solo che quel titolo lì non è piaciuto all'editore di Cornia, Sellerío, dove sembra che i redattori, prima dell'uscita, non nominassero mai il titolo del libro di Ugo. Hai letto quel romanzo là di Cornia? si chiedevan tra loro, e quando poi il libro è uscito, alla fine del 99, non si intitolava più Tra poco saremo tutti morti, si intitolava Sulla felicità a oltranza.

E dopo poi, non c'entra molto ma ormai che ci sono lo dico, quando qualche anno dopo con Ugo abbiamo partecipato a un'antologia sulla morte, pubblicata dall'editore Marcos y Marcos, con dei racconti a tema tutti sulla morte, per vincere il tabù sulla morte così diffuso nel mondo occidentale, quell'antologia lì avrebbe dovuto intitolarsi Tra poco saremo tutti morti, invece alla fine quando è uscita si è intitolata Racconti di un giorno che sai. Che io poi, alla presentazione dell'antologia, sono andato su ho letto il mio pezzo poi ho detto, agli editori, che erano presenti, che loro eran stati bravi, a fare un libro per vincere il tabù così diffuso nel mondo occidentale sulla morte, ma intanto che c'erano potevano anche sforzarsi di vincere un tabù dell'editoria e il libro chiamarlo Tra poco saremo tutti morti, non Racconti di un giorno che sai. Che se uscissero oggi, ho detto, Morte a Venezia e La morte di Ivan Il'ic si chiamerebbero Un giorno che sai a Venezia o Un giorno che sai di Ivan Il'iè e non mi sembrava un gran progresso, e così facendo ho inavvertitamente introdotto un'altra parentesi personale del quale mi scuso torniamo pure al nostro discorso.

Ecco allora il pezzo della Ballestra, uno lo legge pensa Caspita, com'è scritto bene. Senti che parole che usa, il mite grecale. Questa è proprio una che ha studiato. Solo che a leggerlo, non ti salta addosso nessuna immagine. Usa una lingua, la Ballestra, in questo inizio, che l'unica reazione che produce è il fatto che uno dice Accidenti, senti che roba, sembra un libro stampato. Difatti è un libro stampato, a pensarci.

Il pezzo del libro di Ugo, viceversa, Ugo Cornia lo chiamo Ugo perché è un mio amico, una volta l'ho presentato lo chiamavo Cornia lui è andato avanti un anno a prendermi in giro, il libro di Ugo uno non fa in tempo a pensare se è scritto bene o se è scritto male, perché viene assalito dalla curva.

In quell'inizio della Ballestra succede una cosa simile a quel che dice Chlebnikov, i significati delle parole coprono le cose, esattamente come di giorno spariscono tutti i corpi celesti della notte stellare.

Nel libro di Ugo, succede il contrario. Una curva, dopo aver letto quel pezzo lì di Ugo, assume tutto un altro significato, quel pezzo lì di Ugo illumina tutte le curve che un lettore vedrà poi nella sua vita, quello di Ugo è un pezzo illuminante sull'ontologia della curva, ammesso che ontologia voglia dire quello che penso io, io dopo aver letto quel pezzo lì di Ugo è come se nella mia testa la curva aveva cambiato mestiere.

Uno dice Ma te quel pezzo lì di Ugo ti piace perché lui è un tuo amico, no, a me quel pezzo lì di Ugo mi piace per via che ho le orecchie. Basta avere le orecchie, per capire quel pezzo di Ugo. E basta avere le orecchie per sentire che la Ballestra va da una parte tutta diversa, che è una parte dove vanno in molti, non verso la creazione di immagini, ma verso il riconoscimento, il riconoscimento della letterarietà di un testo, intesa come appartenenza alla letteratura. Sembra che la Ballestra si preoccupi che sia subito chiaro, a tutti, che quello che stanno leggendo è un romanzo, un'opera letteraria con un alto tasso di letterarietà.

Solo che, a badare al tasso di letterarietà, succedono poi delle cose strane. Facciamo un esempio.

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Asterisco Ferretti


Discorso su Cesare Zavattini
pronunciato a Reggio Emilia il 5 novembre 2007
in occasione della prima dell'opera
di Giorgio Battistelli Miracolo a Milano



Buonasera. Quando i teatri di Reggio Emilia mi chiedono di scriver qualcosa, non so perché comincio sempre dicendo che di quella cosa lì, io, ne so poco, o non ne so niente.

Così era successo per Musorgskij e il Borìs Godunòv, avevo scritto una cosa sul Borìs Godunòv, che non era un discorso, come questo, era un periodo che non avevo ancora pensato tutte le volte che intervenivo in pubblico, se così si può dire, di scrivermi dei discorsi, era un intervento scritto diviso in quindici parti che si intitolava Quindici note sul Borìs Godunòv e la prima nota era questa:

1. Distanze

Non so niente di musica, e so poco di tutto, e sono anche abbastanza impreciso, ma quando mi han chiesto di scriver qualcosa sul Borìs Godunòv sono stato contento.

Per via di Zavattini, so poco anche di Zavattini, e con tutti gli zavattiniani che ci sono in giro ci vuol del coraggio, mettersi a far dei discorsi su Zavattini, e io, adesso non è che voglio farmi dei complimenti, ma si vede che io quel coraggio lì io ce l'ho, perché lo faccio lo stesso, il discorso su Zavattini.

Non l'ho mai conosciuto, Zavattini, quando lui è morto, nel 1989, io mi ero appena iscritto all'università e mai avrei pensato di occuparmi un giorno di Zavattini, anche perché Zavattini, per me che sono di Parma, mi stava abbastanza sui maroni, come dicono a Parma con un'espressione gergale che è talmente gergale che è intraducibile.

Adesso mi viene il dubbio che non sia proprio gergale, come espressione, comunque è lo stesso. No perché gergale significa poi una cosa abbastanza precisa, a usarle bene, le cosiddette parole.

Zavattini, per uno di Parma, che quando abitava a Parma tutti i giorni apriva la Gazzetta di Parma e nella pagina della cultura sentiva parlare quasi sempre di gente che era nata a Parma, Verdi, Bottego, Toscanini, Pizzetti, Ildebrando si chiama, Barilli, Guareschi, Pezzani, Bertolucci, che sono in tre, Malerba, Franco Nero, Alberto Bevilacqua e Zavattini, per uno di Parma dopo un po' per questa gente gli veniva il cosiddetto effetto Aiazzone che piuttosto che mettersi a leggere un libro di Verdi, o di Bottego, o di Toscanini, o di Pizzetti, Ildebrando si chiama, o di Barilli, o di Guareschi, o di Pezzani, o di Bertolucci, tutti e tre, o di Malerba, o di Franco Nero, o di Alberto Bevilacqua o di Zavattini piuttosto andava al bar a bere dei vermouth, e così ho fatto io, c'è stato un periodo che i pomeriggi li passavo nei bar a bere dei vermouth e a mangiar dei ghiaccioli.

Dopo uno si chiede Ma Zavattini, è di Parma? No, non è di Parma, ma avendo vissuto un po' a Parma la Gazzetta di Parma lo considerano come se era di Parma, non solo Zavattini, anche il Correggio e il Parmigianino, che il Parmigianino si potrebbe pensare Va be', lì c'è il nome, ma il Correggio, è difficile sbagliarsi, è di Correggio, solo che a Parma, per loro anche Stendhal, che come è noto è francese, a leggere la Gazzetta di Parma sembra di Parma anche Stendhal.

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