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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 11 1. Dopo la caduta 19 2. Napoleone 37 3. Byron 54 4. Ruskin 82 5. I Brown 110 6. Rivoluzione 132 7. Wagner 143 8. Henry James 159 9. Robert Browning 178 10. I Layard 190 11. Whistler e Sargent 208 12. Corvo 225 Epilogo 248 Appendice. Toccata di Galuppi 251 Note 253 Bibliografia 267 Ringraziamenti 273 Indice analitico 275 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Sarebbe legittimo ritenere che io abbia scritto abbastanza su Venezia. Dopo due volumi di storia, un'antologia e innumerevoli articoli, la pubblicazione di un ennesimo lavoro sullo stesso argomento potrebbe essere accolta con un certo sgomento. Per giustificarmi, dirò anzitutto che amo questa città a tal punto da non poter veramente fare a meno di scriverne; in secondo luogo, che si tratta di portare un contributo alla storiografia. Tutti sanno che l'esistenza della Serenissima Repubblica, che pure si era protratta per oltre un millennio, fu troncata in maniera fin troppo umiliante dall'armata del giovane Napoleone nel 1797. Ma che cosa è accaduto dopo? Una risposta concisa è che dopo pochi, miserandi anni in cui era stata sballottata avanti e indietro tra Francia e Austria, Venezia fu saldamente posta dal Congresso di Vienna nelle mani degli Asburgo sotto la cui tutela rimase, tranne che per una breve, gloriosa ma donchisciottesca interruzione, per altro mezzo secolo. Infine, nel 1866 venne anch'essa assorbita dall'Italia unita. La sua indipendenza, tuttavia, non sarebbe mai ritornata. Se n'era andata anch'essa là dove erano finiti il doge, il Libro d'oro, i cortigiani e il Carnevale, i «balli e le feste in maschera iniziate a mezzanotte, che proseguivano animatamente fino a mezzogiorno» e, non ultimo dei suoi rimpianti, i giovani milord inglesi che compivano il loro Grand Tour e vi facevano sosta per qualche settimana di blanda sregolatezza prima di tornarsene a casa, piuttosto allegri, con qualche Canaletto e un principio di gonorrea. Venezia nel XIX secolo era una ben misera, triste ombra di ciò che era stata nel Settecento; qual era dunque il modo migliore di raccontare la storia di quel secolo? Non certo con una diretta ricapitolazione degli avvenimenti politici: una trattazione di questo tipo sarebbe risultata deprimente (il che è alquanto spiacevole) o noiosa (il che è molto peggio). Perciò ho avuto l'idea di guardare Venezia con gli occhi di altri: quelli di famosi viaggiatori o di residenti che, pur non avendo eletto la città a loro domicilio, se ne erano lasciati coinvolgere quanto bastava non solo perché le loro vedute su di essa fossero degne di essere raccontate, bensì perché i loro nomi meritassero di essere associati definitivamente alla città nella coscienza delle generazioni a venire. Ovviamente il primo personaggio da studiare sarebbe stato Napoleone, sebbene egli vi abbia fatto solo una breve sosta, durata meno di due settimane. Ho riflettuto a lungo e a fondo prima di decidere se fosse o meno il caso di includere l'enigmatica vicenda di Nahir de Lusignan, stabilendo alla fine per un compromesso e relegandola a un poscritto sotto forma di inciso. Non oso sperare che qualche lettore arrivi a fare luce sul mistero, anche se sarebbe meraviglioso se qualcuno vi riuscisse. Il secondo personaggio, altrettanto ovviamente, avrebbe dovuto essere Byron. Non ho mai provato simpatia per lui e, dopo aver ultimato il terzo capitolo, mi sono sentito ancora meno bendisposto nei suoi confronti. (Detto per inciso, non è un po' sorprendente che Byron abbia trascorso qualcosa come tre anni a Ravenna, senza mai dar mostra di sapere che quella città vanta i mosaici bizantini antichi più importanti del mondo, né tantomeno dare notizia che si era curato di visitarli?) Sono anche consapevole che, dopo gli innumerevoli libri su di lui (più frequenti di quelli su qualsiasi altro scrittore inglese, a eccezione di Shakespeare forse), la storia della sua vita a Venezia è già quasi fin troppo nota. D'altra parte quella storia è innegabilmente degna d'essere raccontata: e comunque, lasciare Byron fuori da un libro come questo sarebbe quasi altrettanto riprensibile della sua negligenza nei confronti di quei mosaici, per non parlare del suo atteggiamento, alquanto diverso, nei riguardi delle gentildonne di Venezia, sulle quali sembra aver gettato un incantesimo così potente. Poi naturalmente c'è Ruskin, il quale non esercitava alcun incantesimo sulle signore, ma la cui prosa, quando ne sfrutta tutti i registri, mi risulta preferibile, lo confesso senza vergogna, a gran parte della poesia di Byron. Era una sorta di genio, benché sicuramente segnato da una profonda imperfezione: ma per quanto la città lo affascinasse e per quanto numerosi siano stati i benefici che le ha arrecato, non ha mai compreso realmente quale fosse la posta in gioco. Sir Kenneth Clark, ora scomparso, era solito affermare che il motivo per cui la maggior parte dei viaggiatori inglesi del XIX secolo preferiva Firenze a Venezia era che il volumetto di Ruskin Mattinate fiorentine era abbastanza smilzo da poter entrare nella tasca di una giacca del Norfolk, mentre per Le pietre di Venezia sarebbe stata necessaria una carriola. Avrebbe potuto aggiungere che, di tutte le grandi opere della letteratura inglese, il maestoso trattato di Ruskin è sicuramente quella più difficile da leggere dall'inizio alla fine. Di solito disapprovo le edizioni ridotte, ma nel caso delle Pietre sono pronto a fare un'eccezione. (Quanto a Il Riposo di San Marco, meno se ne parla, meglio è.) Dopo Ruskin la scelta non era più così facile. Sono in pochi, a parte i veri appassionati di Venezia, ad aver mai sentito parlare di Rawdon o di Horatio Brown, ma mi sembrava che i due meritassero di essere inclusi semplicemente perché, insieme, hanno rappresentato la colonia britannica a Venezia per quasi un secolo, in anni in cui nessun visitatore inglese della città avrebbe tralasciato di andare a trovare l'uno o l'altro. Inoltre, gli storici, soprattutto quelli del periodo Tudor, hanno un incommensurabile debito di riconoscenza nei confronti delle infaticabili ricerche di Rawdon Brown. Anche Horatio ha fatto molto per restituire dignità a Venezia nelle carte geografiche e del resto basta il suo rapporto con John Addington Symonds a giustificare ampiamente il fatto che in questo libro vi siano alcune pagine a lui dedicate. Non avrei potuto omettere Henry James, la cui formidabile intelligenza era in grado di penetrare ben più a fondo nell'animo veneziano di quanto fosse dato a qualunque altra delle figure ricordate in questo libro, sebbene Browning gli sia arrivato molto vicino. Per anni, James è stato un regolare frequentatore di Daniel e Ariana Curtis a palazzo Barbaro, cioè di persone che avrebbero meritato un capitolo tutto per loro. Conosceva Venezia come il palmo della sua mano e Il carteggio Aspern, pur essendo così breve, è a mio avviso il più grande romanzo che sia mai stato ambientato in questa città. C'è poi la tragica vicenda di Constance Fenimore Woolson e lo strano rapporto che legava i due amici. (Ancora oggi non passo mai davanti a palazzo Semitecolo senza pensare alla spaventosa notte del suicidio di lei: fu un colpo da cui, credo, James, gravato com'era dai sensi di colpa, non si riprese mai.) Arriviamo così ai Layard. Sir Henry, a detta di tutti, era più noto per le sue imprese in Mesopotamia che per qualsiasi cosa abbia fatto a Venezia, sebbene il suo impulso alla rinascita dell'industria del mosaico non sia stato di poco conto; tuttavia sua moglie regnò (penso che questa sia la parola giusta) per quasi quarant'anni dallo splendido palazzo Cappello, con gran dispetto, è legittimo immaginarlo, del povero Horatio Brown, il quale deve essersi sentito disperatamente messo in ombra. (Mi piace ancora pensare, tuttavia, che vi sia stato più di un lunedì sera in cui un ospite del «frigorifero» se la filò silenziosamente dirigendosi verso la meno raggelante atmosfera di Ca' Torresella.) Un'altra ragione per dedicare ai Layard un capitolo è che questo mi ha consentito di inserire la spassosa lettera del loro nipote, sicuramente la più bella mai scritta da Venezia, che altrimenti avrei dovuto omettere. James Abbott McNeill Whistler e John Singer Sargent erano entrambi pittori americani fuori dal loro ambiente, ma le analogie tra i due finiscono qui. Le loro personalità non avrebbero potuto essere più diverse e lo stesso vale per le condizioni in cui lavorarono a Venezia. L'esuberante Whistler era costretto a vivere in condizioni di relativa miseria, dopo essere finito in bancarotta; Sargent al contrario era benestante, era ricercato da tutte le padrone di casa veneziane e frequentava i migliori palazzi e i salotti della città, vivendo in un lusso pari solo a quello dei Curtis a palazzo Barbaro. Anche lui era un regolare visitatore di Venezia, mentre Whistler fece un unico soggiorno nella città, sebbene molto più lungo. Questi due personaggi sono qui ricordati soprattutto perché Venezia significò molto per entrambi: con la sua bellezza, la sua luce e il suo colore continuamente cangiante ispirò alcune delle loro opere più splendide. Lo stesso, penso, si potrebbe dire di Richard Wagner: forse non avrà vissuto in questa città per un periodo considerevole della sua vita; e in effetti, in occasione della sua prima visita non ne rimase particolarmente impressionato. Eppure è chiaro che, anche se non avesse ispirato il secondo atto di Tristano e Isotta, Venezia sarebbe stata comunque importante per lui. Non sapremo mai se Wagner abbia deciso di morirvi. Certamente, quando scelse palazzo Vendramin-Calergi per il suo ultimo soggiorno, non si faceva illusioni sullo stato della sua malattia; deve aver saputo, anche, che Venezia avrebbe potuto offrirgli un funerale più sontuoso di qualsiasi altra città d'Europa, il che essa debitamente fece. (Il virtuosismo veneziano, sotto questo profilo, sarebbe stato dimostrato dalle sbalorditive esequie che si sarebbero svolte ottantotto anni dopo in onore di un compositore quasi altrettanto grande, Igor Stravinskij. Era morto a New York, ma aveva chiesto di essere sepolto accanto al suo amico e mecenate Sergej Diaghilev, nella parte ortodossa del cimitero che si trova sull'isola di San Michele. Penso che ognuno di coloro che hanno presenziato al servizio funebre celebrato nell'aprile del 1971 nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo ne serberà per sempre il ricordo.) La storia di Robert Browning e Venezia ruota soprattutto intorno a due figure: suo figlio Pen e la signora Katharine de Kay Bronson. Pen rimane una figura avvolta nell'ombra, forse a causa della sua eccezionale mancanza di personalità, una caratteristica, questa, che emerge da tutte le descrizioni di lui che ho letto. Il padre gli era molto affezionato e si impegnò a fondo nel tentativo di ammirarlo; tuttavia i risultati pittorici di Pen mostrano ora una profonda mancanza d'ispirazione ora una spiccata quanto imbarazzante inettitudine e la sua sola vera opera sembra essere consistita nel restauro, senza limiti di spesa, di Ca' Rezzonico, forse il più grandioso di tutti i palazzi che si affacciano sul Canal Grande (iniziativa che gli fu resa possibile da un infelice matrimonio con un'ereditiera americana). La signora Bronson, invece, fu per Browning una fonte di ospitalità e generosità illimitate, così come lo fu per molti altri visitatori inglesi e americani di Venezia. Nell'ottavo capitolo di questo libro Henry James la descrive (non c'è bisogno di dirlo) mille volte meglio di quanto potrei fare io; aggiungerò soltanto che senza di lei e sua figlia a Ca' Alvisi (e senza i Curtis a palazzo Barbaro) questo libro sarebbe risultato assai più esiguo di quanto non sia. Grazie a Pen e alla signora Bronson (e naturalmente alla stessa Venezia) Robert Browning fu più felice nel corso dei suoi successivi soggiorni in città di quanto fosse mai stato dopo la morte della moglie. Non credo avesse previsto che un giorno questa città avrebbe fatto da sfondo alla sua morte; ma la prospettiva non lo avrebbe certamente angustiato. Venezia d'inverno (Browning spirò due settimane prima di Natale) è avvolta da un'atmosfera funerea e sicuramente vi sono sorti peggiori che morire, se proprio morir bisogna, in un glorioso palazzo veneziano affacciato sul Canal Grande. L'ultima delle nostre morti a Venezia è quella occorsa nel 1913 all'insopportabile Frederick William Rolfe, conosciuto anche con il nome di Baron Corvo. Il mio progetto iniziale per questo libro prevedeva che il suo contenuto rimanesse circoscritto al XIX secolo; ma se mi fossi attenuto troppo strettamente a tale criterio sarei stato obbligato a omettere la storia di questo personaggio formidabile, che getta la sua ombra minacciosa sulla città soltanto nel primo decennio del Novecento. Un'omissione simile non sarebbe stata solamente triste: sarebbe stata anche imperdonabilmente pedantesca. Perciò la presenza di Corvo è forse un po' forzata, tuttavia lo accolgo con un caloroso benvenuto, che è più di quanto chiunque avrebbe fatto a Venezia, almeno da molto tempo a questa parte. Un'altra ragione per averlo incluso (oltre al divertimento di scrivere su di lui) è il fatto che, sia sull'una sia sull'altra sponda dell'Atlantico, sono rimasto colpito dal numero di persone a cui questo stesso nome è ignoto: coloro che non hanno mai letto Alla ricerca di Baron Corvo di Alphonse James Albert Symons oppure sono troppo giovani per aver apprezzato la sfolgorante interpretazione di Alec McCowen nella riduzione teatrale di Hadrian the Seventh. È un peccato: scrive come nessun altro e, in Il desiderio e la ricerca del tutto, ci fornisce un ritratto della Venezia al volgere del secolo che è rimasto insuperato. C'è ancora un breve capitolo che non ho menzionato. Sono consapevole del fatto che non si accorda troppo armoniosamente con il resto, dato che non riguarda nessuno in particolare; ma come si può scrivere di Venezia nell'Ottocento senza parlare, sia pur brevemente, della rivoluzione del 1848? Per fortuna è una vicenda affascinante e il suo protagonista, Daniele Manin, ben lungi dall'essere un avventuriero romantico, pare fosse animato da autentico eroismo. Manin doveva sapere fin dal principio che Venezia non aveva alcuna reale speranza di tenere in scacco l'impero asburgico; eppure combatté fino all'ultimo e la sua resa finale fu provocata non tanto dal bombardamento austriaco quanto da un'epidemia di colera, che minacciava di spazzare via praticamente l'intera popolazione della città. Ma anche dopo aver scritto questo capitolo, rimaneva un problema: dove collocarlo? La sua posizione attuale è dunque in gran parte arbitraria: il lettore può leggerlo quando gli sembra più opportuno. Ma, a pensarci bene, lo stesso si potrebbe dire per la maggior parte dei capitoli: dopo Napoleone e Byron, le sovrapposizioni sono troppe per consentire un qualsiasi ordine cronologico rigoroso. Non importa. Lo scopo di questo libro è dipingere un quadro del secolo, non registrare il suo decorso cronologico. Allora, ancor più di oggi, Venezia offriva un rifugio dal mondo esterno. Era una città in cui il ritmo della vita scorreva più lento, essendo scandito o dal passo del pedone o dallo scivolare di una gondola; in cui il sole splendeva, se non sempre, almeno molto più spesso che nella maggior parte delle latitudini settentrionali; e in cui la bellezza si poteva incontrare a ogni angolo. Certo, Napoleone la odiò; ma Napoleone era un'eccezione a ogni regola. Per il resto di noi (e qui includo non solo le persone di cui trattano i capitoli seguenti ma altresì le Bronson, i Curtis, William Dean Howells e James Fenimore Cooper, Bernard Berenson e Isabella Stewart Gardner e innumerevoli altri), Venezia è stata un'esperienza corroborante e ispiratrice, un elemento indispensabile delle nostre vite. Ecco il perché di questo libro. John Julius Norwich Londra, maggio 2002 | << | < | > | >> |Pagina 19Che cosa accadrà ora alla città di Venezia? Questa città ha potuto esistere in tutta la sua opulenza, splendore e bellezza solo quando era una capitale abitata dall'aristocrazia che governava la Repubblica. Quando tutti voi, patrizi, ve ne sarete andati a vivere sul continente, Venezia si consumerà. Non è vero che partirete? Che cosa ci farete qui a Venezia, non avendovi più niente da fare? GIACOMO CASANOVA a Pietro Zaguri, 4 dicembre 1797 Un giorno di novembre del 1798, Lorenzo Da Ponte, il più grande librettista di Mozart, già sacerdote gesuita, giunse a Venezia per la prima volta dopo essere stato espulso dalla città per oscenità e immoralità diciannove anni prima. Nelle sue Memorie racconta di come entrò in piazza San Marco sotto la torre dell'orologio e descrive l'orrore che provò di fronte a ciò che vide: Giudichi il mio lettore della sorpresa e cordoglio mio quando in quel vasto recinto, ove non solea vedersi a' felici tempi che il contento e la gioia dell'immenso concorso del vasto popolo, non vidi, per volger gli occhi per ogni verso, che mestizia, silenzio, solitudine e desolazione. Non v'erano che sette persone quando entrai in Piazza. [...] Anche le botteghe di caffè erano vuote. Non c'è motivo di meravigliarsi. Appena diciotto mesi prima, minacciata dal giovane Napoleone Bonaparte, giunto al culmine della sua trionfale campagna d'Italia, la Repubblica di Venezia era caduta. Era durata, secondo le stime più caute, millesettant'anni, un periodo di tempo considerevolmente più lungo di quello che separa la regina Elisabetta II da Guglielmo il Conquistatore; e i veneziani non avevano ancora superato il trauma. Molti di loro provavano non poca vergogna, poiché erano ben consapevoli di essere stati ampiamente responsabili della rapidità e della immediatezza del loro crollo. Venezia aveva da molto tempo perduto le ultime vestigia della sua trascorsa grandezza e perfino del prestigio di cui, in passato, aveva goduto in tutta l'Europa e oltre. Il suo primato mercantile, fonte di tutto il suo benessere, non era riuscito a sopravvivere alla scoperta della rotta per le Indie, che a poco a poco aveva ridotto il Mediterraneo a un bacino interno; inoltre, l'inarrestabile avanzata dei turchi ottomani, sia prima sia dopo la conquista di Costantinopoli da parte del sultano Maometto II nel 1453, aveva portato alla distruzione, una dopo l'altra, di tutte le sue colonie commerciali nel Vicino Oriente. Cipro era caduta nell'agosto del 1571; e anche se, nove settimane dopo, Venezia, la Spagna e il papato avevano ottenuto una spettacolare vittoria sui turchi a Lepanto (l'ultima battaglia navale della storia a essere combattuta con le galee a remi), questo impegno, pur risollevando temporaneamente il morale dell'Occidente, aveva avuto scarsi risultati a lungo termine. Infine la caduta di Candia nel 1669, dopo un assedio durato ventidue anni, aveva definitivamente posto termine alle ambizioni imperiali di Venezia nel Mediterraneo orientale. E vero che i veneziani avevano reagito e, nell'ultimo quarto del secolo, erano riusciti, sia pur per breve tempo, a riconquistare alcuni dei loro precedenti possedimenti (centrando anche il Partenone con i loro proiettili, nel corso dei combattimenti); ma nel 1718, quando le frontiere vennero tracciate per l'ultima volta, essi videro ridotti i loro territori, a parte le provincie sulla terraferma italiana, alle sole Istria e Dalmazia, all'Albania settentrionale, alle isole Ionie e all'isoletta di Citera, a sud del Peloponneso. Poi, all'inizio del XVIII secolo, per combinazione o in maniera deliberata, la Serenissima Repubblica si mise su una rotta completamente diversa. Assunse le vesti di capitale europea del piacere e nel far ciò, durante gli ultimi decenni della sua esistenza, ottenne una straordinaria ripresa della sua prosperità finanziaria. Quella, infatti, era l'epoca del Grand Tour. Giovani nobili provenienti dall'Europa settentrionale e occidentale, ma soprattutto dall'Inghilterra, scendevano in Italia con l'ostentato proposito di completare la propria istruzione. La loro meta principale era, inevitabilmente, Roma, con tutte le opportunità che quella città offriva per studiare i grandi monumenti dell'antichità; ma erano ben pochi quelli che, lungo la via del ritorno, non facevano tappa a Venezia, dove il Carnevale durava più a lungo, il gioco d'azzardo consentiva puntate più alte e le cortigiane erano più disponibili ed esperte che in qualsiasi altro luogo sul continente. I viaggiatori dai gusti più intellettuali avevano a disposizione libri, dipinti e sculture da acquistare, chiese e palazzi da ammirare, per non parlare della musica e dell'opera, per le quali Venezia era famosa in tutto il mondo civile. Era la città più confortevole d'Italia e di gran lunga la più bella; per un'ulteriore, fortunata combinazione vantava un gran numero di artisti dotati di enorme talento, che negli ultimi cinquant'anni avevano portato l'arte della pittura dei paesaggi urbani a un livello di eccellenza mai raggiunto prima. Una circostanza favorevole fu anche che il maggiore di questi vedutisti, Giovanni Antonio Canal, generalmente noto come il Canaletto, avesse scelto come agente un inglese, un certo Joseph Smith, che era giunto a Venezia nel 1700 all'età di diciotto anni, per rimanervi fino alla morte, settant'anni dopo. Nel 1742 Smith sarebbe stato nominato console britannico, e in tale veste si sarebbe premurato di fare la conoscenza di tutti gli inglesi ricchi che passavano per la città, assicurandosi che ognuno di loro ricevesse l'invito a visitare lo studio del maestro. Così, quando finalmente i giovani rampolli facevano ritorno in patria, forse un po' più saggi ma di certo più poveri, un po' di gonorrea doveva sembrare un piccolo prezzo da pagare per un paio di Canaletto e per il ricordo delle settimane più felici ed entusiasmanti della loro vita. | << | < | > | >> |Pagina 82Cercherò di delineare i tratti di quest'immagine prima che sia perduta per sempre anche per registrare, per quanto mi è dato, il monito che mi sembra venga espresso da ciascuna delle onde incalzanti che battono, come campane che passano, contro LE PIETRE DI VENEZIA. JOHN RUSKIN, «Introduzione» a Le pietre di Venezia «Grazie a Dio sono qui» scrisse John Ruskin nel suo diario il 6 maggio 1841 «questo è il paradiso delle città.» A quell'epoca aveva ventidue anni ma era ancora sotto l'autorità dei suoi anziani e profondamente devoti genitori scozzesi: in realtà sua madre e suo cugino l'avevano accompagnato a Oxford, dove erano rimasti per tutti i tre anni in cui aveva studiato per conseguire il diploma. I suoi studi tuttavia si erano interrotti quando si era follemente innamorato di Adèle Domecq, la figlia del socio di suo padre, che aveva una ditta di importazione di sherry; quando aveva scoperto che il suo sentimento non era corrisposto, John era stato colpito da una forma preoccupante di esaurimento nervoso. Era principalmente per distrarlo che i suoi genitori avevano deciso di mandarlo a fare un lungo giro dell'Europa occidentale. Tuttavia l'Europa occidentale era molto diversa da quella che era stata un quarto di secolo prima. Lunedì 18 ottobre 1813, meno di tre anni prima che Byron e Hobhouse arrivassero a Venezia, i francesi avevano perso la battaglia di Lipsia e Napoleone aveva assistito al crollo del suo impero. Sei mesi dopo aveva abdicato senza porre condizioni e si era adattato all'esilio sull'isola d'Elba. Era chiaro che la carta geografica continentale doveva essere ridisegnata e nell'autunno del 1814 i rappresentanti di tutte le principali nazioni europee si erano incontrati a Vienna a questo scopo. Stavano ancora deliberando allorché, il 1° marzo 1815, l'imperatore fuggì dall'isola e, quando i suoi avversari si furono mobilitati, all'inizio di giugno, si era reinsediato alle Tuileries: devono essere stati in molti, a Vienna e altrove, a domandarsi se il documento finale del Congresso valesse la carta su cui era stato stampato. Di fatto, non c'era motivo di allarmarsi: solo una settimana dopo, Napoleone ricevette il suo castigo a Waterloo. L'Europa poteva nuovamente tirare il fiato. I veneziani però, che non avevano avuto nessuno che prendesse le loro parti a Vienna, vedevano ben poche ragioni per esultare. Ancora una volta si trovavano sottoposti al governo austriaco: quella non era altro che una parte poco significativa della provincia imperiale del Lombardo-Veneto, il quale comprendeva non solo i loro precedenti territori ma altresì gli ex ducati di Milano e Mantova, nonché parte dell'ex territorio pontificio di Ferrara. Ufficialmente la provincia aveva due capitali: Milano e Venezia, e il governatore austriaco passava sei mesi dell'anno in ognuna delle due; ma era generalmente riconosciuto che tra le due la più importante era Milano, al di là di ogni possibile confronto. I veneziani si consolavano solo con la considerazione che qualsiasi cosa era meglio di Napoleone, che li aveva sfruttati senza pietà, attingendo da loro denaro e manodopera. E poi, l'imperatore d'Austria Francesco II, non era forse quasi un italiano? Suo padre, Leopoldo II, non era forse stato granduca di Toscana prima di diventare imperatore? E del resto non era nato lui stesso a Firenze, dove aveva trascorso i primi diciassette anni della sua vita? Essendo poi sposato a una napoletana, si poteva perlomeno confidare che comprendesse di certo le aspirazioni italiane, pur non potendo condividerle. Ahimè, avrebbero dovuto rimanere delusi. Con il passar del tempo, apparve sempre più chiaro che Francesco era un autocrate reazionario del genere più retrivo e che la monarchia austriaca intendeva governare con mano ferma. Il prelievo fiscale rimase crudelmente esoso. La ferma di leva, già abbastanza gravosa sotto i francesi, venne prolungata da quattro a otto anni: per coloro che avevano la sventura di essere convocati, era di poco conforto sapere che rappresentavano una quota inferiore della popolazione rispetto a quanto era accaduto al tempo dei francesi. I porti italiani di Trieste e Fiume avevano relegato Venezia al terzo posto fra i porti dell'Adriatico settentrionale. Ma la cosa peggiore di tutte, per il veneziano di media cultura, era la censura. Non era consentito esprimere idee sia pur lontanamente liberali in alcuna sede, né sui giornali né nei libri a stampa. Perfino nel corso delle conversazioni era opportuno essere cauti: gli informatori del governo erano ovunque e a volte sembrava che anche i muri avessero orecchie. L'inevitabile conseguenza era un proliferare di società segrete, tutte dedite a tramare contro gli oppressori austriaci: le loro attività avrebbero portato da ultimo alla rivoluzione. Da un altro punto di vista, e sempre a condizione che i loro sudditi veneziani fossero pronti a comportarsi bene, gli austriaci fecero quello che poterono per ricostruire l'economia della città che Napoleone aveva lasciato in rovina. Nel 1830 dichiararono tutta Venezia porto franco, ma la cosa si dimostrò un successo minore di quanto essi avevano sperato; un beneficio di gran lunga più duraturo lo portò l'apertura, il 13 dicembre 1842, del ponte ferroviario sorretto da 222 archi, lungo 2,4 chilometri, che finalmente collegava Venezia con la terraferma. Certo non avrebbe potuto essere costruito in un momento peggiore: meno di sette anni dopo, durante l'assedio, fu gravemente danneggiato e scampò di stretta misura alla distruzione completa da parte delle granate austriache. Ma a lungo andare l'opera si sarebbe dimostrata una benedizione. Prima della sua costruzione, Venezia veniva normalmente raggiunta, come avevano fatto Byron e Hobhouse, in gondola, da Mestre o Fusina e attraversando il bacino di San Marco fino alla piazzetta: un viaggio di circa quattro ore o più. Ora, da Mestre, era questione di pochi minuti. In tal modo il ponte trasformò efficacemente Venezia in una città di terraferma, facendola nello stesso tempo ruotare: il suo principale punto di accesso veniva a trovarsi ora in corrispondenza di quello che in precedenza era l'approdo mercantile, cioè nella parte nord-occidentale della città, anziché in quella sud-orientale. Quando fu ultimata la costruzione del ponte della ferrovia, l'imperatore Francesco era già nella tomba da un pezzo. Era morto il 2 marzo 1835, sorprendentemente amato dai suoi sudditi austriaci ma detestato dai liberali di tutta l'Europa; lasciava il trono al figlio Ferdinando, mezzo scemo e del tutto inadatto a regnare. Così il potere effettivo passò all'anziano cancelliere, il principe di Metternich, che proseguì le vecchie politiche reazionarie e fu in gran parte responsabile dell'inquietudine crescente che andava montando ovunque giungesse l'autorità degli Asburgo, e in realta anche oltre. Questo era lo stato d'animo diffuso a Venezia quando, l'8 febbraio 1841, John Ruskin arrivò con i suoi genitori all'Hotel Danieli. | << | < | > | >> |Pagina 248Con Frederick Rolfe la nostra storia giunge al termine. Avrebbe potuto proseguire per un altro secolo, anzitutto con Diaghilev e Stravinskij, poi con Cole Porter e la sua famiglia, con Peggy Guggenheim ed Ezra Pound, con Ernest Hemingway e Carlos de Beistegui e (Dio ce ne scampi) Elsa Maxwell: ma Venezia nel XX secolo era una città molto diversa da quella che era stata nel XIX. Dopo la Prima guerra mondiale, divenne un luogo di soggiorno prediletto dai ricchi di tutto il mondo; e dopo la Seconda, grazie allo sviluppo dell'aviazione civile e l'avvento del turismo di massa, anche dalle folle. Come ho accennato nell'introduzione, includendo Baron Corvo, che rientra nell'inizio del XX secolo, ho già approfittato troppo della mia fortuna, e non ho intenzione di approfittarne oltre. Questo libro è già abbastanza lungo così. Eppure, mentre depongo la penna dopo quello che sarà quasi certamente il mio ultimo libro veneziano, c'è ancora un dubbio che mi assilla: ho reso giustizia a questo luogo? Tentando di vedere Venezia attraverso gli occhi degli stranieri, non mi sono concentrato troppo su quegli occhi, più che sull'oggetto che essi osservavano? A un certo punto ho addirittura riflettuto se non sarebbe stato opportuno aggiungere un capitolo sui cambiamenti fisici (alcuni dei quali rappresentarono dei netti miglioramenti, mentre altri furono disastrosi) avvenuti sotto il governo austriaco e dopo il Risorgimento. Sono da annoverare tra di essi lo spietato sventramento per realizzare la Strada Nuova, una nuovissima arteria pedonale situata fra campo dei Santi Apostoli e campo Santa Fosca: un esempio di vandalismo di cui lo stesso barone Haussmann sarebbe stato fiero; la creazione della calle Larga XXII marzo, così stranamente priva di fascino, che da piazza San Marco porta in direzione di campo Santa Maria del Giglio; l'interramento di dieci canali; la pavimentazione di quarantanove calli; la costruzione di non meno di cinquantacinque ponti, trentatré di pietra e ventidue di legno; i due ponti di ferro sul Canal Grande, uno all'Accademia e uno agli Scalzi (entrambi sostituiti nel corso della mia vita); e, fatto forse più notevole di tutti, la costruzione di un enorme e stupefacente stabilimento balneare, i Bagni galleggianti del dottor Rima, che ogni anno, da maggio a settembre, veniva ancorato nelle adiacenze della Dogana. Ma un capitolo del genere non sarebbe stato in armonia con il resto del libro; né, a rigore, sarebbe stato necessario. Nessuna città del mondo è cambiata di meno negli ultimi due secoli; e quantunque si possa deplorare la scomparsa di tutte quelle belle navi a vela e dei bei burchi, tanto amati da John Singer Sargent e da Henry James, o addirittura esecrare, con Ruskin, il viadotto che la collega alla terraferma, la Venezia di centocinquant'anni fa rimane pur sempre la Venezia della nostra epoca. Le vecchie fotografie dicono tutto. Ne ho riportato il maggior numero possibile, perché nessuna città è stata raffigurata fin dagli albori della fotografia con risultati più splendidi e con maggiore sensibilità. Quelle immagini ci raccontano molto e, fra parentesi, indicano anche una delle principali differenze tra la Venezia di oggi e quella di ieri: la stupefacente calma del Canal Grande. Oggi, con tutti i vaporetti, i motoscafi e le motobarche, l'acqua non è mai quieta. Anche se si lasciasse il tempo necessario a spianare le increspature più piccole, la vitrea levigatezza ottocentesca del Canal Grande ci induce a trarre un'ineludibile conclusione: la principale via di transito di Venezia ha perduto la pace di un tempo e, sfortunatamente, non la riconquisterà mai.
Occorre prendere coscienza di un dato di fatto: le imbarcazioni
a motore, insieme a tutte le altre innovazioni degli ultimi due secoli, sono
destinate a rimanere. Venezia nel XXI secolo non può affidarsi solamente ai
remi, come sa fin troppo bene chi abbia mai cercato di trasportare in gondola
una televisione o un congelatore. Dopotutto, la città è di gran lunga più
confortevole, sia per i suoi abitanti sia per i suoi visitatori, di quanto lo
fosse ai tempi di Ruskin e di Rawdon Brown; e il progresso è una marea che non
possiamo fare altro che seguire. L'epoca moderna ha portato un livello di
inquinamento ancora sconosciuto nei giorni in cui mio padre, per
motivi che indubbiamente all'epoca dovevano sembrare validi, si
tuffava, vestito da sera con la cravatta bianca, nel Canal Grande,
raggiungeva a nuoto la riva opposta e sopravviveva per raccontarcelo; e
l'inondazione praticamente ininterrotta, sia dei turisti sia
dell'acqua alta, è un incubo crescente; lo stesso dicasi della continua
emorragia della popolazione residente. Questi problemi sono
abbastanza odiosi: eppure possiamo trovare motivo di conforto se
ricordiamo che Venezia, oggi, è una città incomparabilmente più
felice di quanto lo fosse centocinquant'anni fa; che, se vogliamo che
rimanga un organismo vivo, che respira e reagisce, anziché diventare un museo
allagato, occorre permetterle di crescere in maniera
organica, al pari delle altre città; e che il suo futuro, benché tuttora
incerto, è per la massima parte affidato a mani sicure e premurose.
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