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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE Gli amori di Michelangelo: da Bateson a Leopardi 7 Marcello Cini 1. POLITICA, AMBIENTE, SCIENZA 23 Seveso e il capitalismo arcaico 25 Giulio Maccacaro e gli operai di Castellanza 29 Bistecche al petrolio 33 Basaglia politico 37 Demografia, gli scenari oltre il duemila 39 Il disastro del territorio 43 2. TRA ECONOMIA E SOCIETÀ 45 Il paradosso del disoccupato 47 Il capitalismo italiano, modernissimo e straccione 51 La fredda utopia del mercato 55 Tra stato e mercato, il bisogno di una nuova socialità 59 La normale rivoluzione partenopea 63 Il debole potere dei giudici 69 3. RILEGGENDO IL PASSATO 73 Il Pci ha sessant'anni 75 Yalta e il mito delle origini 81 Quando il Pci si scoprì governo 89 Fascismo, una malattia della modernità 95 Una scrittura per macchine e corpi «operai» 99 Salerno, dove nacque il caso italiano 103 Quel Gramsci nascosto 111 Dossetti, la radicalita profetica di un politico 115 La breve vita del Partito d'Azione 119 Gramsci e Tatiana, due vite tra le righe 123 Un Furet di malumore 129 Di Vittorio e l'ombra di Stalin 133 Millenovecentosessantotto 139 Moriremo socialdemocratici 143 4. ESPLORAZIONE TRA I CLASSICI 147 Pace e libertà nel mondo antico 149 Bentornato Machiavelli 153 Il fuoco e l'acqua del Millennio 157 Teologia e rivoluzione scientifica 161 La memoria a rischio 165 Leopardi e le passioni 169 Antidoto sicuro al male del secolo 173 Il Leopardi della sinistra 175 5. ESERCIZI DI PENSIERO CRITICO 179 Lo Stato secondo Claus Offe 181 Non celebriamo Marx 185 La sfida alla storia di Karol Wojtyla 189 Le preoccupazioni del padre della cibernetica 193 Hans Jonas, tecnica ed etica 197 Gregory Bateson e i paradossi della mente 201 APPENDICE 205 Il seme della tua curiosità 207 Lucio Magri, «il manifesto» 5 settembre 1998 Un uomo senza obbedienze 221 Rossana Rossanda, «il manifesto» 28 agosto 1998 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Pochi giorni fa mi è capitato di leggere che Isabel Allende, rievocando quello che le aveva detto una volta suo nonno, ha scritto: «La morte non esiste: le persone muoiono solo quando le dimentichiamo». Non conoscevo questa frase quando, più di cinque anni fa, morì Michelangelo, ma lo stesso concetto mi era ben chiaro: «Questo — scrissi allora sul manifesto — dovremmo continuare a fare: farlo parlare nella nostra testa. Non solo, ma anche dargli la parola nella rete dei nostri rapporti quotidiani. Non gli sarebbe piaciuto essere idealmente imbalsamato e diventare oggetto di pellegrinaggio mentale, ma avrebbe preferito sapere che dialoghiamo ancora con lui quando ci interroghiamo su un problema che lo avrebbe incuriosito o pensiamo a una questione che ci avrebbe aiutato a capire». Personalmente non ho dubbi: Michelangelo è ancora il riferimento politico e culturale che più mi manca. | << | < | > | >> |Pagina 189Non è un libro facile né davvero adatto a tutti i palati, il best-seller del papa. Certo, le parole che incontriamo a ogni pagina ci sono tutte o quasi familiari, vengono da un'infanzia eticamente cattolica, dalle prediche in parrocchia, dal catechismo. Note, non propriamente né impropriamente conosciute. Nessuno è così ignorante in tema di religione come un italiano passabilmente coltivato, laico o cattolico che sia. La nostra cultura alta, tra Dante e Manzoni, è stata la più irreligiosa tra le culture europee, o almeno così ce l'ha fatta leggere il compromesso neutralizzante tra alto e basso in cui viviamo da secoli. I termini della tradizione religiosa per un intellettuale italiano non erano traducibili in linguaggio moderno e comune, non rimandavano alla cultura in cui si parla e si vive, alludevano a riti, vincoli, formule e abitudini chiuse. In certo modo non è più così, da qualche anno. La religione della libertà (e della scienza) non è più la fede degli intellettuali, quella dell'obbedienza e del costume tradizionale non è più dominante nel popolo. La secolarizzazione è parsa da noi un cammino più agevole e repentino che altrove, quasi la verità saputa da tempo e rivelata nel risveglio improvviso da un sonno durato a lungo. I dati della demografia italiana, esplosi in un attimo, parlano forse questo linguaggio. E qualcuno può pensare che al di là del sonno controriformista non ci sia che l'incubo berlusconiano.
Posso sbagliarmi, può essere la mia ignoranza perdurante di italiano o il
mio genetico ottimismo comunista, ma ho l'impressione che questo papa parli
davvero un linguaggio diverso, non solo perché è polacco. Le parole della
tradizione, quelle di cui avevamo perduto il senso e persino il richiamo
emotivo, qui ci sono tutte e niente affatto dissimulate o attenuate da quel
che un tempo nelle parrocchie ci insegnavano a chiamare rispetto umano, ed è il
tratto prevalente in gran parte dei cattolici progressisti o modernizzanti. Ma
il papa non le usa neppure, queste parole, al modo dei cattolici conservatori, i
più nella nostra tradizione, come formule dietro cui celarsi e difendersi, per
sfuggire il confronto.
NO ALLA CATASTROFE Ancor meno – e questa è forse la sorpresa maggiore – come fanno i cattolici reazionari o peggio ancora i profeti delle nuove religioni e sette del consumo moderno. Cioè al modo di armi di offesa e minaccia, cariche di disgusto terrorizzante nei confronti dell'uomo. Direi anzi che l'avversario principale contro cui si rivolge la parola del papa sembra essere proprio una visione della storia umana come ininterrotta e catastrofica decadenza, degrado inarrestabile, condanna senza appello di una natura violata dal peccato e solo eccezionalmente, solo per pochi eletti, redimibile dal miracolo e dall'arbitrio della grazia. È una visione che ha precedenti illustri e dalla gnosi contemporanea delle origini cristiane procede traversando gran parte della storia cristiana, protestante e anche cattolica. Può essere curioso ma forse non impertinente notare che, se il suo massimo interprete contemporaneo è stato il grande cattolico e reazionario de Maistre, questa visione ha poi contaminato di sé tutte le grandi crisi dell'idea moderna di progresso e sembra oggi dominare in forme più o meno celate la quasi totalità del pensiero laico (specie dopo la grande crisi comunista). Papa Giovanni Paolo apre e chiude il suo libro, ancora una volta, con il grido che ha voluto avviare il suo pontificato: «Non abbiate paura». È un modo per collocarsi alle radici del pensiero moderno, di fronte a Hobbes, il filosofo della paura, e alle fonti di ogni totalitarismo. Franz Neumann, il meno maistriano dei filosofi francofortesi, scrisse un bel saggio sulla paura, poco dopo l'avvento di Hitler. Ma io trovo una singolare e credo difficilmente casuale consonanza delle parole del papa con i concetti espressi da Hans Jonas, il pensatore ebreo allievo e avversario di Martin Heidegger. Jonas muove, come il papa, dalla constatazione della ragionevolezza e anche di quale utilità della paura in un mondo che di fatto muove verso la catastrofe, naturale e umana. Ma poi rinviene nel principio, paterno come in Wojtyla, della responsabilità, la risposta al pericolo e l'avvio possibile della ricostruzione. Hans Jonas, sia ricordato tra parentesi, è anche il maggior studioso della religione gnostica, di cui ha visto benissimo la consonanza con il nichilismo contemporaneo.
L'accento dell'intervista papale è tutto sulla positività non
solo dell'uomo, ma della natura, della materia, del cosmo. Dio
non ha solo creato il mondo, lo ha anche redento attraverso il
sacrificio del Figlio. Che è, dice il papa, quasi la giustificazione
di Dio di fronte all'uomo per lo scandalo e il mistero del male.
Si leggono pagine molto belle, su questi temi, nell'intervista. Il
papa si interroga, e non a caso lo definisce un mistero, sulla
contraddizione tra la volontà divina di salvare tutti gli uomini
e la minaccia della dannazione eterna. E non la nega, ma sembra ritrarsene.
Coerentemente, anche l'atteggiamento nei confronti delle diverse religioni con
cui si svolge il dialogo ecumenico si atteggia di conseguenza.
CONTRO LA GNOSI Massima, a parte l'ostilità espressa nei confronti della gnosi (unica religione soltanto avversata), è la distanza dalle religioni orientali, appunto per il loro distacco dal mondo. Minima è quella rispetto all'ortodossia greca e grandissima è la consonanza con i fratelli maggiori ebrei, il popolo «divenuto più simile al Figlio dell'uomo» attraverso l'esperienza dell'Olocausto. Rispettosa ma distante è la posizione rispetto all'Islam, che conosce solo «un Dio al di fuori del mondo», la definizione data dal papa anche del Dio dell'Illuminismo. C'è davvero pochissima politica, in questa pagina. Fin qui, in termini astrattamente dottrinari, si potrebbe dire che siamo soltanto nella tradizione cattolica, e sia pur forse la migliore e vivificata da una parola tutt'altro che inerte e indifferente. Ma proprio attraverso questa dimensione il discorso del papa si avvicina al tema che sembra essergli più caro ed è certo il più tormentato, quello della storia. Il papa considera merito della tradizione cristiana dell'occidente, e lo rivendica, lo sviluppo della civiltà scientifica e tecnologica, oltre che quella dei diritti umani e della libertà di coscienza. Dunque si guarda bene da sommarie condanne del moderno in tutte le sue espressioni. Ma è difficile sostenere che quest'atteggiamento sia conciliato qui con l'affermazione, più volte presente, della negatività del distacco da Dio, e della visione di un Dio estraneo al mondo, che contraddistingue i secoli della modernità e starebbe all'origine della violenza di questa storia. Qui, lo sappiamo, c'è un problema anche per il più eroico dei pensieri. Dovessimo cavarcela con una battuta, diremmo che Marx ha avuto al suo tempo una visione assai più ricca e promettente, quando ha visto la connessione tra svuotamento e cinismo da un lato e crescita della ricchezza astratta dall'altro, come tratti del progresso borghese. Non senza qualche percezione delle implicazioni teologiche di questa riflessione. Quel che è appassionante in questa intervista, è l'apertura alla storia, e a una concezione fortemente drammatica della storia, di una grande realtà culturale e religiosa come quella cattolica. Il cristianesimo, che al pensiero della storia ha dato origine, con Agostino, è stato poi una cultura largamente estranea alla storia (a parte Vico), specie nella sua componente cattolica, non a caso legata prevalentemente alla tradizione erudita e antiquaria. Oggi, dopo le proclamazioni di morte dello storicismo prima e della storia poi, non si può pensare che in termini di storia. Nella grande mutazione antropologica (o rivoluzione) che stiamo vivendo, il fronte che contrapponeva scienza e fede (e culture alte e basse) è forse definitivamente caduto. Mi pare che anche il papa, a un altissimo livello di consapevolezza e rischiando molto, parli questo linguaggio. | << | < | > | >> |Pagina 193Una volta Norbert Wiener raccontò l'aneddoto di quell'inventore che aveva due soli obiettivi nella vita, trovare un solvente universale capace di sciogliere qualsiasi sostanza solida e fabbricare un recipiente universale in grado di conservare senza logorarsi qualsiasi tipo di liquido. Quell'inventore, oggi lo sappiamo anche meglio del giovane Marx, è una perfetta metafora del capitalismo, che fluidifica ogni cosa e di ogni cosa vuole appropriarsi sottraendola al flusso. È stato proprio Wiener, il padre della cibernetica, a vedere tra i primi l'insolubilità e l'estrema attualità del problema. Se le nuove macchine possono sostituire il lavoro fisico e gran parte del lavoro mentale di routine, osservò precocemente, allora il valore di una merce sarà identico al suo contenuto di informazione, come tale inappropriabile e destinato rapidamente a degradarsi, per il secondo principio della termodinamica.
Wiener era un grande matematico, a suo agio nel mondo delle astrazioni più
sottili e per questo rischiava di cogliere con troppo anticipo i fenomeni. Così
già negli anni '40 scrisse a Walter Reuther, capo del sindacato americano,
mettendolo in guardia contro la minaccia della disoccupazione tecnologica di
massa. Non per niente Wiener è stato uno dei primi scienziati a rifiutare
qualsiasi coinvolgimento nella ricerca militare, mettendone precocemente in
rilievo il nesso con l'esigenza di segreto e di monopolio proveniente
dall'economia.
UN'OSSESSIONE È curioso che proprio in questo momento sia riemerso dagli archivi e sia stato pubblicato con quarant'anni di ritardo un libro scritto da Wiener nel 1954 e dedicato appunto a L'invenzione (Bollati Boringhieri). | << | < | > | >> |Pagina 197Hans Jonas era straordinariamente simpatico. Almeno così è apparso a me, che l'ho visto e sentito una volta sola al premio Nonino del 1993. Appena quattro anni fa, quando aveva già novant'anni e presto avremmo saputo che non c'era più. Non sembrava né un americano né un tedesco. E neppure un ebreo, qualsiasi cosa voglia dire sembrare un ebreo, fisicamente. Come qualcuno ha detto di Proust, sembrava un orientale, forse un indiano. Ci parlò dell'amore e della riconoscenza che portava ai triestini e alla gente del Friuli che aveva conosciuto nel 1945 in divisa da ufficiale inglese. E di cui disse che lo aveva commosso sapere dell'affetto solidale con cui avevano protetto gli ebrei minacciati dai nazisti. Forse per l'evocazione di quel ricordo che lo animava, sembrava un guerriero buono, spontaneamente gentile. Credo che non citò, ma era certo nella mia memoria la promessa che aveva fatto a se stesso nel 1933, lasciando la Germania nazista, di tornarci soltanto da soldato di un esercito vittorioso. Non sembrava per niente un accademico, anche nel migliore dei sensi, neppure a quelli di noi che avevano letto i suoi libri eruditi e svarianti su un campo di cognizioni straordinariamente vasto: la gnosi antica, la filosofia della vita e della biologia, l'etica della responsabilità nel mondo della tecnologia come destino. Anche questo suo ultimo libro che arriva tradotto da noi, a dodici anni dall'edizione tedesca, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità (nella nuova Biblioteca Einaudi), ha i tratti di quella saggezza guerriera: paziente, mai arresa, non disperata della sordità apparente del mondo e neanche degli orrori che ne derivano. Jonas, ce lo ha ricordato Paolo Maranini, ha scritto di Dio dopo Auschwitz. E contro gnosi e nichilismi, antichi e heideggeriani, prendendoli molto sul serio, per tutta la vita. Era uno specialista, forse il massimo al mondo, della lotta contro le apocalissi di poco prezzo. | << | < | > | >> |Pagina 201«Si dibatte spesso se un calcolatore sia capace di pensare. La risposta è "no", ciò che pensa è un circuito complessivo, che magari comprende un calcolatore, un uomo e un ambiente. Analogamente potremmo chiederci se un cervello sia capace di pensare e la risposta sarebbe ancora "no"; ciò che pensa è un cervello dentro un uomo che fa parte di un sistema che comprende un ambiente». È un Bateson del 1977, questo. Ma in effetti è tutto Gregory Bateson, in nuce. Certo è lo stesso che alla stessa domanda, rivolta a un calcolatore, gli fa rispondere: «Questo mi ricorda una storia». Lo vediamo più facilmente, ora che sappiamo meglio, lo dicono tutti gli informatici, che «qualsiasi cosa» è un calcolatore, e «qualsiasi cosa» è una storia. Voglio bene a Gregory Bateson, da quasi trent'anni, ho cominciato insieme a Franco Basaglía e Marcello Cini. Più che a qualsiasi altro autore del Novecento. Come ne voglio a Stendhal e a Leopardi, due autori che gli somigliano, impossibili da classificare, romantici e classici, materialisti religiosi, pessimisti amanti degli uomini e col senso dell'umorismo. Qualche amico mi rimprovera, meriterebbe rompessi l'amicizia: «Come fai a essere comunista, persino marxista, non lo vedi dove porta la prassi»? Oppure, al contrario, «come ti può piacere uno che ama insieme macchine e metafore, per di più snob e tendente al misticismo?». Ci dev'essere un doppio vincolo, da qualche parte, l'amore ha sempre a che fare coi doppi vincoli (adesso però ci si mettono persino le crisi di governo, pazze anche loro). Forse siamo fatti, non solo io, come la Bread-and-Butter-fly, la Farfalla-Pane-e-Burro di Lewis Carrol che piaceva tanto a Bateson: «Le sue ali sono fettine sottilissime di pane spalmate col burro, il corpo un pezzo di crosta, e la testa una zolletta di zucchero. "E di che cosa si nutre?" "Di tè leggero con panna". Venne in mente ad Alice una difficoltà imprevista. "E se non lo trova?" chiese. "Allora muore, naturalmente". "Ma una cosa che le deve capitare assai spesso" osservò Alice, pensierosa. "Le capita sempre" rispose la Zanzara. Dopo di che, Alice restò zitta per un paio di minuti, sovrappensiero...». La farfalla, commenta Bateson, muore di un doppio vincolo. «Non dei particolari traumi dovuti a una testa sciolta nel tè leggero e neppure d'inedia, bensì dell'impossibilità di un adattamento contraddittorio». | << | < | > | >> |Pagina 221Di noi Michelangelo è stato il più colto, il più naturalmente libero, il più solitario e imprevedibile. Colto perché leggeva come altri respirano, perché sue erano le grandi letture e riletture settecentesche (era settecentesca la sua curiosità per uomini e cose, e il gusto di conversarne), e sue le letture più aggiornate di filosofia e di storia e di politologia. Ne veniva un giudizio sempre a qualche distanza da quello che, di fase in fase, è comune, corrente anche nelle sinistre meno obbedienti. Una recensione di Michelangelo ti prendeva sempre un po' di sorpresa, aveva una luce diversa. Solitario perché se si può dire per qualcuno che «il comunismo è l'orizzonte del movimento delle cose presenti», questo era per lui, comunista per nulla nostalgico e del tutto sicuro. Dall'illuminismo e poi da Marx, che ne è un nipote, gli veniva lo sguardo lungo sul passato e sul futuro, sul procedere della storia dove nulla va davvero mai perduto, una gran talpa la cui galleria non va misurata sulle proprie modeste peripezie. Gliene veniva anche l'ironia per le perpetue scene di delusione non meno che per i repentini mutamenti di ottica di questo e di quello. Ci siamo azzuffati per quarant'anni, perché lo faceva sorridere quel che chiamava il pessimismo cosmico, il mio frequente accennare a una sconfitta: e io lo accusavo di un imperturbabile ottimismo, nel lungo termine, che era il solo a interessarlo intellettualmente davvero. Perdonava strida e lamenti soltanto ai giovanissimi e a quelli che erano stati sul serio sessantottini, persuaso come era il '68 ha segnato la tappa più importante della seconda metà del secolo, un punto di non ritorno che può essere per un tempo occultato ma modifica le categorie per sempre. Il '68 come modo di essere, quello della critica alla scienza, fino a Feyerabend, che sta alle spalle di Gregory Bateson, di Medicina democratica, dell'ecologismo, del secondo femminismo. Di questo '68 aveva anache la radicalità morale, che solo lo spessore culturale spogliava di intolleranza. Era libero nel senso assoluto, spinoziano, di libero dalle passioni subite come un oscuramento. A cominciare dalla passione di sé. Non ho mai conosciuto qualcuno che fosse così riservato e così privo di interesse per la propria collocazione oggi e domani. Tanto da essere quasi naturalmente a parte sia dai vecchi sia dai giovani – i vecchi perché senza dirselo ne temevano la singolarità, i giovani perché, spiazzati da quel suo spostare di regola i termini della questione, non sapevano bene dove collocarlo. Non chiedeva mai niente, mai nessuno fu generoso con lui, Michelangelo è quello cui si ricorreva ad ogni bisogno, che non piantava mai grane e per il quale dunque neppure ci si sbatteva. Era così da sempre, da quando l'ho conosciuto a Milano segretario d'una Fgci eterodossa rispetto al partito, per non dire degli Alberganti e dei Secchia che nutrirono vasti sospetti su di lui come su altri di noi – una fronda di formazione intellettuale simile, banfiani più che vittoriniani – e volentieri ci spedivano appena potevano a Roma. Dove, uno prima uno poi, ci saremmo ritrovati tutti negli anni sessanta. Nel Pci Michelangelo restò dunque a parte, volentieri tornava ai libri e a Milano fece una prima grossa esperienza editoriale – era un editore nato, di quella che poteva essere una editoria di cultura politica superlativa. Lasciò Milano e le sue edizioni per venire al manifesto per qualche anno, poi seguì Lucio Magri e Luciana Castellina in Pace e Guerra, poi gli furono affidati gli Editori Riuniti, dove costruì quella che rimane tuttora la parte più importante del catalogo. Ma la casa era già pericolante, e dovette lasciarla per il tempo in cui, alla deriva, rischiò di naufragare prima di passare a Novelli e Minucci. Ma Michelangelo se ne era già dovuto andare, se ne andava, da là come da altrove, indifferente a come sarebbe vissuto e dove, senza rete, mentre tutte le istituzioni e i poteri della vecchia e nuova sinistra lo tenevano di regola fuori da qualsiasi ruolo e potere, compresi quelli che avrebbe ottimamente svolto. Battitore libero, impenitente, un uomo che con nessun tipo di mercato, neanche quello più nobile delle amicizie, aveva nulla a che vedere.
Rossana Rossanda, 28 agosto 1998
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