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| << | < | > | >> |Pagina 7Il primo giorno la vidi sorridere. Subito desiderai conoscerla.Sapevo bene che non sarebbe accaduto. Di fare un passo verso di lei, no, non ne ero capace. Aspettavo sempre che fossero gli altri ad avvicinarsi a me, ma nessuno lo faceva mai.
Era questo, l'università: credere che ti saresti aperta sull'universo e non
incontrare nessuno.
Una settimana dopo i suoi occhi si posarono su di me. Pensai che li avrebbe distolti molto in fretta. E invece no: rimasero lì e mi squadrarono con molta attenzione. Non osai sostenere quello sguardo: mi mancava la terra sotto i piedi, facevo fatica a respirare. Poiché la cosa continuava, la sofferenza divenne intollerabile. A prezzo di un coraggio senza precedenti, piantai i miei occhi nel suoi: lei mi fece un piccolo gesto con la mano e rise. Poi, la vidi parlare con dei ragazzi. | << | < | > | >> |Pagina 17Sedici anni di solitudine, disprezzo di sé, paure inesprimibili, desideri mai realizzati, dolori inutili, scatti d'ira implosi ed energia inutilizzata erano rinchiusi in quel corpo.Il corpo ha tre possibilità di bellezza: la forza, la grazia e la pienezza. Certi corpi miracolosi arrivano a riunirle tutte e tre. Al contrario, il mio non possedeva neanche un'oncia di quelle tre meraviglie. La carenza era la sua lingua madre: esprimeva l'assenza di forza, l'assenza di grazia e l'assenza di pienezza. Somigliava a un urlo di fame. A quel corpo mai mostrato alla luce del sole, almeno si addiceva il mio nome, Blanche: bianca era quella cosa gracile, bianca come l'arma dallo stesso nome, ma mal affilata, con la parte tagliente rivolta verso l'interno. - Vuoi farmi aspettare fino a domani? - disse a bruciapelo Christa che, distesa sul mio letto, aveva l'aria di divertirsi un mondo ad assaporare le più minuscole briciole della mia sofferenza. Allora, per farla finita, con il gesto rapido di chi toglie la sicura a una granata, mi strappai di dosso la maglietta e la gettai a terra, come Vercingetorige che lancia il suo scudo ai piedi di Cesare. Tutto dentro di me gridava di orrore. Il poco che avevo, quel povero segreto del mio corpo, l'avevo perduto. Si trattava, alla lettera, di un sacrificio. Ed era terribile vedere che lo stavo sacrificando per niente. Perché Christa mosse appena la testa. Mi squadrò dalle dita dei piedi alla cima dei capelli, con l'aria di trovare lo spettacolo del tutto privo di interesse. Un solo dettaglio attirò la sua attenzione: - Allora ce l'hai, il seno! Pensai di morire. Nascondendo lacrime di rabbia che mi avrebbero resa ancor più ridicola, dissi: - Certo. Che ti aspettavi? - Considerati fortunata. Vestita, sei piatta come una sogliola. Incantata da questa osservazione, mi chinai per raccogliere la maglietta. - No! Voglio vederti con l'abito cinese. Me lo porse. Lo infilai. - Sta meglio a me - concluse. Quell'abito mi apparve all'improvviso come un sovrappiù di nudità. Me lo tolsi alla svelta. Christa balzò in piedi e si piazzò accanto a me davanti al grande specchio. - Guarda! Non siamo mica fatte allo stesso modo! esclamò. - Non insistere - dissi. Era un supplizio. - Non distogliere lo sguardo - ordinò. - Guardaci. Il paragone era schiacciante. - Dovresti sviluppare il seno - disse in tono saccente. - Ho appena sedici anni - protestai. - E con questo? Anch'io! E il mio è un'altra cosa, o no? - Ognuno ha il suo ritmo. - Balle! Ti insegnerò un esercizio. Mia sorella era come te. Dopo sei mesi di questi esercizi, era cambiata, dài retta a Christa. Forza, fai come me: uno - due, uno - due... - Lasciami in pace, Christa - dissi, andando a raccogliere la mia maglietta. Lei vi saltò sopra e la portò dall'altra parte della stanza. Mi misi a inseguirla. Si sbellicava dalle risa. Ero così umiliata e furiosa che non mi venne in mente di prendere una maglietta di ricambio dall'armadio. Christa correva per la stanza e mi sfidava con il suo bel corpo trionfante. | << | < | > | >> |Pagina 35Passai la notte a rovistare nella mia testa: qualcuno mi aveva amata? Avevo mai incontrato sulla mia strada un bambino o un adulto che mi avesse fatto provare l'incredibile elezione dell'amore? Per quanto le avessi desiderate, non avevo mai vissuto le amicizie grandiose delle ragazzine di dieci anni; al liceo, non avevo mai attirato l'attenzione appassionata di un professore. Non avevo mai visto accendersi per me, negli occhi di un altro, l'unica fiamma che ci consola di vivere.Quindi, potevo anche prendere in giro Christa. Forse era presuntuosa, vanesia e sciocca, ma almeno lei si faceva amare. E mi veniva in mente il salmo: "Beati quelli che ispirano l'amore." Sì, beati loro, perché quand'anche avessero tutti i difetti del mondo, erano comunque il sale della terra, di quella stessa terra dove io non servivo a niente, io, della cui esistenza nessuno si era mal accorto. Ma perché? Sarebbe stato più che giusto, se io non avessi amato. Invece era il contrario; ero sempre disponibile all'amore. Dalla prima infanzia, non ricordavo neanche più a quante ragazzine avessi offerto il mio cuore, puntualmente rifiutato; adolescente, andavo in visibilio per un ragazzo che non si era neanche mai accorto che esistevo. Si trattava, in quei casi, di slanci d'amore; ma con altrettanta ostinazione mi era stata rifiutata anche la minima tenerezza. Christa aveva ragione: dovevo avere un problema. Ma quale? Non ero poi così inguardabile. E d'altronde avevo visto ragazze brutte essere molto amate. Mi venne in mente un episodio della mia adolescenza che forse conteneva la chiave mancante. Non dovevo cercare lontano: l'episodio risaliva all'estate precedente. Avevo quindici anni e soffrivo di non avere amici. Nella mia classe c'erano tre ragazze inseparabili: Valérie, Chantal e Patricia. Non avevano niente di straordinario, se non il fatto di stare sempre insieme, e pareva ne fossero molto felici. Il mio sogno era far parte di quel gruppo. Cominciai a seguirle ovunque: per mesi non si vide mai il trio senza che ci fossi anch'io. Mi immischiavo in continuazione nelle loro conversazioni. Certo, mi accorgevo che non mi rispondevano se rivolgevo loro qualche domanda; eppure non mi spazientivo e mi accontentavo di quanto avevo, che mi sembrava già molto: il diritto di essere là. Sei mesi più tardi, dopo una sonora risata, Chantal pronunciò questa orribile frase: - Siamo proprio un terzetto eccezionale, noi tre! E tutte e tre si rimisero a ridere. Peccato che ci fossi pure io là, tra loro, come sempre. Una pugnalata mi trafisse il cuore. E compresi la terribile verità: io non esistevo. Non ero mai esistita. Non mi si vide più con il trio. Le ragazze non notarono la mia assenza più di quanto avessero fatto caso alla mia presenza. Ero invisibile. Era quello, il mio problema. Assenza di visibilità o assenza di esistenza? Il risultato era lo stesso: io non c'ero. Quel ricordo fu una tortura. Constatai disgustata che le cose non erano cambiate. O forse sì: c'era Christa. Christa, che mi aveva vista. No, sarebbe stato troppo bello. Christa non aveva visto me: aveva visto il mio problema. E ne approfittava. | << | < | > | >> |Pagina 49Fino all'incontro con Christa, una delle gioie della mia vita di adolescente consisteva nella lettura: mi sdraiavo sul mio letto con un libro e diventavo il testo. Se il romanzo era bello, mi trasformavo in lui. Se era mediocre, trascorrevo comunque delle ore meravigliose a godere delle cose che non mi piacevano e a sorridere delle sue occasioni mancate.La lettura non è un piacere sostitutivo. Vista dall'esterno, la mia esistenza era scheletrica; vista dall'interno ispirava quello che ispirano gli appartamenti il cui unico mobilio è una biblioteca sontuosamente stracolma di libri: l'ammirazione gelosa per chi non si sovraccarica del superfluo e trabocca del necessario. Nessuno mi conosceva dall'interno: nessuno sapeva che non ero da compatire, tranne me, e questo mi bastava. Approfittavo della mia invisibilità per leggere giornate intere senza che nessuno se ne accorgesse. Solo i miei genitori notavano quel comportamento. Io sopportavo il loro sarcasmo: mia madre, la biologa, si irritava perché trascuravo l'esercizio fisico; mio padre la sosteneva a furia di citazioni greche e latine, mens sana in corpore sano etc., mi parlava di Sparta e immaginava senza dubbio che esistesse una palestra dove avrei potuto allenarmi come discobolo. Avrebbe magari preferito una figlia Alcibiade piuttosto che un'amante della letteratura, sognatrice e solitaria. Non cercavo di difendermi. A che scopo tentare di spiegare che ero invisibile? Loro mi credevano altera, sdegnosa delle gioie normali della mia età: avrei adorato trovare le istruzioni per l'uso della mia adolescenza, ma era impossibile senza lo sguardo di qualcuno. I miei genitori non mi guardavano perché avevano già decretato com'ero: "troppo seria, poco vivace etc." Uno sguardo autentico non ha idee preconcette. Se degli occhi si fossero posati davvero su di me, avrebbero visto una pila atomica, un arco teso all'estremo che chiedeva solo una freccia e un bersaglio, urlando tutto il suo desiderio di ricevere quei due tesori. Tuttavia quella grazia mi era stata rifiutata così a lungo che non provavo alcuna frustrazione a fiorire nei libri: attendevo il mio momento, nutrivo i miei petali di Stendhal e Radiguet, che non mi sembravano gli ingredienti peggiori di questa terra. Non vivevo al ribasso.
Da quando era comparsa Christa la lettura si era trasformata in un coito
interrotto: se mi sorprendeva a leggere, cominciava a strapazzarmi ("sempre tra
i tuoi libercoli!"), poi si metteva a parlarmi di mille cose senza interesse,
che ripeteva invariabilmente quattro volte, e dato che mi annoiavo a morte
mentre cianciava, non avevo altro diversivo che contare le sue ripetizioni e
meravigliarmi di quel ciclo quaternario.
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