Copertina
Autore Amélie Nothomb
Titolo Causa di forza maggiore
EdizioneVoland, Roma, 2009, Amazzoni 51 , pag. 114, cop.fle., dim. 14,5x20,4x0,8 cm , Isbn 978-88-6243-023-4
OriginaleLe fait du prince
EdizioneAlbin Michel, Paris, 2008
TraduttoreMonica Capuani
LettoreGiovanna Bacci, 2009
Classe narrativa francese
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Pagina 7

– Se le muore inopinatamente un ospite in casa, si guardi bene dall'avvertire la polizia. Chiami un taxi e gli dica di condurla all'ospedale con l'amico che ha avuto un malore. Il decesso verrà constatato appena arrivati al pronto soccorso e lei potrà assicurare, testimone alla mano, che il trapasso del tizio è avvenuto durante il tragitto. In questo modo, la lasceranno in pace.

– Io, a dire la verità, mi sarei preoccupato di chiamare un medico, non la polizia.

– Stesso risultato. Quelli sono tutti in combutta. Se qualcuno di cui non le importa un accidenti ha una crisi cardiaca nel suo appartamento, il primo a essere sospettato è lei.

– Sospettato di che, se ha avuto una crisi cardiaca?

– Finché non verrà dimostrato che è stata una crisi cardiaca, casa sua sarà considerata come la scena di un crimine. Lei non potrà più toccare niente. Il suo alloggio sarà invaso dalle autorità, ci mancherà poco che non traccino la posizione del corpo con il gesso. Si sentirà a disagio. Le faranno mille domande, sempre le stesse.

– E dov'è il problema, se uno è innocente?

– Ma lei non è innocente. Una persona le è morta in casa.

– Bisogna pur morire da qualche parte.

– A casa sua, non al cinema, non in banca, non nel sonno. Quel tale ha aspettato di trovarsi a casa sua per passare a miglior vita. Le coincidenze non esistono. Se è morto nella sua abitazione, lei c'entra per forza qualcosa.

– Ma no. Quella persona può aver provato un'emozione violenta, che non c'entra affatto con me.

– Ma ha avuto il cattivo gusto di provarla nel suo appartamento. Vada a spiegarlo alla polizia. Anche supponendo che le autorità alla fine le credano, fino a quando lei ha il cadavere in casa, quello non si tocca. Se è morto sul suo divano, non potrà più sedercisi. Se è trapassato alla sua tavola, si abitui a condividere i pasti con lui. Bisognerà che coabiti con un cadavere. Per cui, glielo ripeto: chiami un taxi. Ha mai fatto caso, nei giornali, alla formula di rito: "L'uomo è morto mentre veniva trasportato in ospedale." Ammetterà che è buffa, questa propensione che ha la gente a morire durante uno spostamento, a bordo di un veicolo anonimo. Sì, perché lo avrà capito che non deve usare la sua auto.

– Non sta un po' esagerando con la paranoia?

– Da Kafka in poi, è dimostrato: se uno non è paranoico, è lui il colpevole.

– Ma allora è meglio non invitare mai nessuno.

– Sono contento di sentirglielo dire. Proprio così, meglio non invitare mai nessuno.

– E noi, signore, cosa stiamo facendo?

– Siamo stati invitati, mica abbiamo invitato noi. Siamo parecchio furbi, noi. I nostri ospiti devono apprezzarci non poco, per correre il rischio che gli si venga a morire in casa...

- Lei mi sembra in buona salute.

– Si dice sempre così. Lei lo sa com'è. È più tardi di quanto pensiamo. Forse ci resta pochissimo da vivere. E questo poco tempo non dovremmo dedicarlo alle mondanità.

– E come mai lei è qui?

– Per una ragione identica alla sua, immagino: perché è difficile rifiutare. Una domanda meno misteriosa di quest'altra: perché i nostri ospiti ci hanno invitato?

– Parli per sé.

– Non intendo affatto mettere in dubbio i suoi pregi o quelli delle persone che abbiamo intorno. Ed è tanto più bizzarro per il fatto che tutti i presenti, individui intelligenti e che provano visibilmente una certa simpatia, se non addirittura amicizia, gli uni per gli altri, non hanno assolutamente niente da dirsi. Li ascolti. È inevitabile: superati i venticinque anni, tutti gli incontri umani sono una ripetizione. Il signor tal dei tali le parla e lei pensa: "Ecco, è il caso 226 bis." Che noia. So già tutto quello che mi dirà. Io sono qui stasera unicamente perché non mi va di inimicarmi i nostri ospiti. Sono miei amici, per quanto non mi interessi la loro conversazione.

– E non ricambia mai la cortesia?

– Mai. Non capisco perché continuino a invitarmi.

– Forse perché lei stesso è la migliore smentita di quanto afferma: quello che mi ha appena raccontato sulla morte, non l'avevo mai sentito.

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Pagina 52

Erano solo le dieci e mezzo. Avrei continuato le indagini più tardi. Sarei andato a crogiolarmi in un lungo bagno. Se fossi stato Baptiste Bordave, ora mi sarei trovato al lavoro, in ufficio, con i miei colleghi. Come avevo potuto perdere tanti anni della mia vita in un'occupazione della quale conservavo così pochi ricordi?

Rimasi immerso nell'acqua calda. Ero felice come un fungo secco in ammollo nel brodo: ritrovare il mio volume di un tempo era una goduria. Ho sempre avuto pietà delle verdure liofilizzate: a che vita si può aspirare quando si è perduta la propria umidità? Sulle confezioni si dichiara che il prodotto secco ha conservato tutte le sue proprietà, se si interrogasse il vegetale in scatola, non c'è dubbio che la sua opinione sarebbe diversa. Che noia, l'immarcescibilità!

Da quando mi chiamavo Olaf, mi sentivo poroso. Come la semola del couscous, assorbivo il liquido circostante. Se continuava così, il mio corpo avrebbe occupato tutto il volume della vasca da bagno. Vista la quantità di bagnoschiuma scandinavo che avevo versato nell'acqua, i miei tessuti avrebbero avuto il sapore del sapone.

Quando il mio cervello cominciò ad ammollarsi anch'esso, uscii dal bagno. Era meglio conservare la centralina in funzione ed evitare cortocircuiti. Allo specchio, ero del colore di un gambero bollito. Indossai di nuovo l'accappatoio e scesi nel salone. C'era un impianto stereo che Baptiste Bordave non aveva mai neanche sognato di avere. Gli svedesi e l'alta fedeltà, cosa nota. Pensai che ero lì da un giorno e due notti e non avevo mai sentito della musica. L'ultimo ad aver introdotto un CD nell'apparecchio doveva essere stato il fu Olaf. Se era come me, non aveva rimesso a posto il disco dopo averlo ascoltato. Feci la prova accendendo l'impianto e spingendo il tasto Play.

Mi batteva forte il cuore al pensiero di ascoltare l'ultima musica che aveva udito il mio predecessore. Le prime note segnalarono che si trattava di musica classica. Sollievo: avevo scampato a delle svedesate tipo Abba. Molto presto, identificai lo Stabat Mater di Pergolesi.

Affinché il momento fosse perfetto, andai in cucina a prendere un bicchiere del Clos Vougeot della sera prima. Tornai a sdraiarmi sul divano e assaporai quella grande musica e quel grande vino.

Era quello che bevevano i convitati attoniti del Pranzo di Babette: decisamente, i nordici se ne intendevano di Bourgogne. Aggrottai le sopracciglia: l'ultimo ad avermi parlato dei vini della Bourgogne era quel tizio dell'enoteca al telefono, subito dopo la morte di Olaf. Sinceramente, avevo mai avuto un'enoteca di fiducia, io? A maggior ragione, un'enoteca specializzata in vini della Bourgogne? Baptiste Bordave non beveva a quei livelli. C'era un po' troppo vino della Bourgogne in questa storia. Doveva far parte del complotto.

Mi tornò in mente che avevo preventivato di dover fare delle indagini telefoniche per ritrovare il numero dell'ultimo interlocutore di Olaf. Ahimè, lo Stabat Mater aveva coperto la melodia nel mio cervello che aveva buon gusto: tra Pergolesi e France Télécom, la scelta non era difficile. Tuttavia avevo bisogno di quel ricordo decafonico: come potevo riesumarlo dalla memoria?

Girai a vuoto strappandomi i capelli. Non c'è niente di più arduo che disseppellire un ritornello facile facile dalla propria testa invasa da un'orchestra sublime. Avevo l'impressione di scavare sotto una città magnifica per portare alla luce le rovine di un borgo senza prestigio. Quell'assurda archeologia finì per farmi impazzire.

Cominciai a gemere dei "Sta' zitto, Pergolesi!" sempre più frenetici. Biscuit mi contemplava con disprezzo. Corsi al piano di sopra a prendere lo scarabocchio della notte prima. Si rivelò mnemotecnico quanto una paletta per dolci. Gridai per la disperazione.

Ridiscesi. In cucina, mi cadde di nuovo sotto gli occhi il messaggio di Sigrid. Il suo numero di telefono corrispondeva alla data di quel giorno: una buona scusa per chiamarla.

Rispose subito.

— È una coincidenza — le chiesi — che il suo numero corrisponda alla data di oggi?

— No, cambio numero ogni mattina. È uno stratagemma per sapere sempre che giorno è.

— Ma davvero?

— Su, Olaf, certo che è una coincidenza! Senza di lei, non ci avrei fatto caso. Solo lei riesce a notare questo genere di dettagli.

— Ne è convinta?

— Sì. Deformazione professionale, immagino.

Mi salutò con molto garbo. Mi chiesi che lavoro potesse deformare il cervello in quel senso. Agente segreto? Si, un agente segreto avrebbe avuto un'attenzione simile ai dettagli. La mia paranoia avrebbe reso preziosi servigi nel controspionaggio. E se il mio predecessore riceveva in casa un agente segreto, esercitava anche lui quella professione?

Il cervello è un computer caotico. La melodia del numero a dieci cifre saltò fuori dalla mia memoria. Sempre così, è quando non cerchi più un'informazione che la trovi.

Risalii di sopra ed entrai in tutte le stanze. Un'ampia camera con scrittoio: doveva essere quella di Olaf. Mi sedetti al suo secrétaire. Vista la quantità di numeri nella rubrica telefonica, mi ci sarebbe voluto un secolo per identificare quello della melodia.

In ogni caso disponevo di tutto il mio tempo e non avevo altro da fare. Mi misi all'opera all'istante: appena un numero cominciava per 01 o 04, alzavo la cornetta e picchiettavo la sua partitura, fermandomi alla prima divergenza con la decafonia che cercavo. L'ordine alfabetico valeva come un altro per accingersi all'impresa. Alla lettera B constatai, non senza sollievo, che non c'era nessun Bordave. Sembrava inoltre che Olaf e io non avessimo conoscenze in comune. Meglio così.

I compiti monotoni e stupidi mi sono sempre piaciuti. Altrimenti, come avrei potuto lavorare tanto a lungo in un ufficio? Mi piace sentirmi operativo senza avere il cervello contratto per lo sforzo. È meglio dell'inazione, libera la testa dall'angoscia. Le fantasticherie più belle nascono nel corso dei lavori più idioti. L'inserimento del pilota automatico non impedisce alla materia grigia di analizzare l'attività in maniera fruttuosa: alla lunga, quella notazione musicale a dieci cifre diventò per me familiare al punto che non avrei quasi più avuto bisogno della tastiera per sentirla. Io che ho sempre ammirato chi legge le partiture lanciando esclamazioni sulla loro bellezza, ero fiero dei miei piccoli progressi.

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Pagina 92

I passi di Sigrid penetrarono nel mio sonno. Affascinato dall'idea di vederle le caviglie, aprii gli occhi e mi ritrovai faccia a faccia con Biscuit che mi ispezionava con disgusto.

— Do da mangiare al gatto e le preparo qualcosa. Come si sente, Olaf?

— Mai stato meglio.

Mi misi in piedi senza troppi problemi e andai a guardare dalla finestra. Fine luglio, inizio di serata, c'era ancora luce come in pieno giorno. Faceva un caldo afoso, la gente aveva sudato e penato, mentre io ero rimasto al fresco nella villa, a bere champagne ghiacciato. Non avevo sofferto il caldo, neanche per un attimo.

Il tipo che mi sbirciava dalla strada doveva essere geloso. Lo capivo. Al posto suo, mi sarei invidiato. E inoltre, non sapeva con quale creatura di sogno avevo trascorso la giornata. L'idea della gelosia del voyeur portò la mia gioia al culmine. A pensarci, questa caratteristica della specie umana — rallegrarsi di essere invidiati — basta a screditarla profondamente.

Cominciai a squadrare l'uomo, tanto per rimproverargli la bassezza del sentimento che mi ispirava. Certo un voyeur non ama affatto essere osservato, come un innaffiatore non ama essere innaffiato. Stranamente, la cosa non lo disturbò. Restò piantato lì. Un altro tizio lo raggiunse e gli porse un sandwich. Adesso i due uomini mi guardavano mangiando.

"Tiratemi delle noccioline, già che ci siete" pensai. Il mio cervello avvinazzato tardò a innestare il segnale di allarme. Accidenti, sono gli sbirri di Georges Sheneve che montano la guardia! Da quanto tempo?

Mi rifugiai nella cucina che non era visibile dalla strada.

— Preparo fragole mozzarella e basilico — disse Sigrid. — È meglio della versione classica con i pomodori.

— Perfetto.

Non si accorse che la mia voce suonava falsa. Tanto meglio. Non dovevo dirle che eravamo sorvegliati. La rivelazione ne avrebbe comportate altre e, passando di palo in frasca, avrei dovuto confessarle la morte di Olaf.

— E se cenassimo in cucina? — proposi con pochissima naturalezza.

— Mangiamo sempre in cucina — rispose meravigliata.

Era davvero urgente che cambiassi atteggiamento: avrebbe finito per sospettare che c'era un problema. Mi sedetti riflettendo che era troppo tardi per fuggire. Non avevamo più scelta. Quest'ultima frase mi rassicurò. Fintanto che credo a una possibilità di salvezza, mi innervosisco, mi angoscio. Quando capisco che non ce n'è, divento zen e piacevole. Visto che correvamo verso la catastrofe, tanto valeva godersi la vita.

Sigrid dispose i piatti sul tavolo, e un cestino di pane.

— Sono andata a prendere una bottiglia di Krug — disse indicando il secchiello del ghiaccio. — Con un piatto all'olio d'oliva e basilico, mi è sembrato che un vino rosso sarebbe stato un errore, e il vino bianco non mi piace.

— Ha fatto bene. Perché bere qualcosa di diverso dallo champagne?

— Non ha paura di stancarsene, dopo tutto quello che abbiamo bevuto oggi?

— Visto che ne abbiamo voglia.

— È vero. Bisogna ascoltare solo il proprio desiderio.

Aprii la bottiglia pensando che questa frase avrebbe potuto trascinarmi lontano. Bevvi religiosamente un sorso di champagne: era pur sempre un Krug del 1976.

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