Copertina
Autore Amélie Nothomb
Titolo Una forma di vita
EdizioneVoland, Roma, 2011, Amazzoni 61 , pag. 116, cop.fle., dim. 14,5x20,4x0,9 cm , Isbn 978-88-6243-078-4
OriginaleUne forme de vie
EdizioneAlbin Michel, Paris, 2010
TraduttoreMonica Capuani
LettoreFlo Bertelli, 2011
Classe narrativa francese
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Pagina 7

Quella mattina ricevetti una lettera diversa dal solito:


Cara Amélie Nothomb,

sono un soldato di seconda classe dell'esercito americano, mi chiamo Melvin Mapple, ma lei mi può chiamare Mel. Sono di stanza a Baghdad dall'inizio di questa guerra di merda, cioè più di sei anni. Le scrivo perché soffro come un cane. Ho bisogno di un po' di comprensione e lei, io lo so, lei mi capirà.

Mi scriva. Spero di avere presto una sua risposta.

Melvin Mapple
Baghdad, 18/12/2008


All'inizio pensai a uno scherzo. Ammesso che questo Melvin Mapple esistesse davvero, aveva forse il diritto di scrivermi, e cose del genere? Possibile che la censura militare avesse lasciato passare quel "fucking" davanti a "war"?

Esaminai la lettera. Se si trattava di un falso, era davvero ben fatto. L'affrancatura era americana, e il timbro iracheno. Ma ciò che la rendeva assolutamente autentica era la calligrafia: una scrittura americana standard, semplice e stereotipata, che spesso mi era capitato di osservare durante i miei soggiorni negli Stati Uniti. E quel tono diretto, di una indiscutibile legittimità.

Quando non ebbi più dubbi sull'autenticità della missiva, fui colpita dall'aspetto più incredibile del messaggio: se non c'era da stupirsi che un soldato americano catapultato fin dall'inizio in quella guerra soffrisse "come un cane", era allucinante che lo scrivesse a me.

Come aveva sentito parlare di me? Alcuni dei miei romanzi erano stati tradotti in inglese e negli Stati Uniti avevano avuto un'accoglienza piuttosto intima, cinque anni prima.

Non mi ha mai sorpreso ricevere lettere da parte di militari belgi o francesi, che il più delle volte mi chiedevano delle foto con dedica. Ma un seconda classe dell'esercito americano di stanza in Iraq era davvero troppo.

Sapeva chi ero? A parte l'indirizzo del mio editore redatto correttamente sulla busta, niente lo dimostrava. "Ho bisogno di un po' di comprensione e lei, io lo so, lei mi capirà." Come poteva sapere che io lo avrei capito? Ammesso che avesse letto i miei libri, possibile che quei libri fossero la testimonianza più flagrante della comprensione e della compassione umane? La scelta di Melvin Mapple di attribuirmi il ruolo di madrina di guerra mi lasciava perplessa.

D'altro canto, desideravo le sue confidenze? Erano già tante le persone che mi scrivevano raccontandomi nel dettaglio le proprie pene. La mia capacità di sopportare il dolore altrui era giunta al limite. In più, la sofferenza di un soldato americano sarebbe stata alquanto ingombrante. Sarei riuscita a contenere un simile volume? No.

Melvin Mapple aveva sicuramente bisogno di uno psicoanalista. Ma non era il mio mestiere. Mettermi a disposizione delle sue confidenze avrebbe significato rendergli un cattivo servizio, perché avrebbe creduto di poter fare a meno della terapia che sei anni di guerra avevano di certo reso necessaria. Non rispondere affatto mi sembrava un tantino scortese. Escogitai una soluzione intermedia: scrissi una dedica al soldato sui miei libri tradotti in inglese, li impacchettai e glieli spedii. Mi parve di aver fatto un gesto a beneficio di uno stipendiato dell'esercito americano e mi sentii la coscienza a posto.

In seguito, pensai che l'assenza di censura militare fosse dovuta alla recente elezione di Barack Obama alla presidenza; certo, Obama avrebbe assunto l'incarico più di un mese dopo, ma quella rivoluzione evidentemente produceva già i suoi effetti. Obama aveva sempre preso posizione contro quella guerra e dichiarato che, in caso di vittoria dei democratici, avrebbe richiamato le truppe. Mi figuravo l'imminente ritorno di Melvin Mapple nella sua America natale: nelle mie fantasie lo vedevo arrivare in una confortevole fattoria, circondata da campi di granturco, con i genitori che lo accoglievano a braccia aperte. Questa idea finì di tranquillizzarmi. Di certo avrebbe portato con sé i miei libri con dedica, e io avrei contribuito indirettamente alla pratica della lettura nella regione della Corn Belt.

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Pagina 22

Cara Amélie Nothomb,

sto un po' meglio e trovo la forza per scriverle. Bisogna che le spieghi: soffro di una malattia sempre più frequente tra le truppe americane inviate in Iraq. Dall'inizio dell'intervento nel marzo del 2003, il numero dei malati è raddoppiato e la percentuale continua ad aumentare. Sotto l'amministrazione Bush la nostra patologia veniva nascosta, era ritenuta degradante per l'immagine dell'esercito americano. Dopo l'elezione di Obama i giornali hanno cominciato a parlare di noi, ma in punta di piedi. Lei starà sicuramente pensando a una malattia venerea, ma si sbaglia.

Sono obeso. Non è la mia natura. Da bambino, da adolescente, ero normale. Da adulto, sono dimagrito a causa della povertà. Mi sono arruolato nel 1999 e sono ingrassato in fretta, ma non in maniera esagerata: ero soltanto uno scheletro affamato al quale veniva finalmente concessa la possibilità di mangiare. In un anno ho raggiunto quello che doveva essere il mio peso di soldato muscoloso: 80 chili. Mi sono mantenuto così senza difficoltà fino alla guerra. Nel marzo del 2003 ho fatto parte del primo contingente inviato in Iraq. Laggiù sono iniziati subito i problemi. Ho affrontato i miei primi veri combattimenti, con il lancio dei razzi, i carri armati, corpi che ti esplodono accanto e uomini che sei tu a uccidere. Ho scoperto il terrore. C'è gente coraggiosa che sopporta, io no. C'è gente che perde l'appetito per questo, ma la maggior parte, tra cui io, ha una reazione opposta. Torniamo dal combattimento stupefatti, sbalorditi di essere ancora vivi, spaventati, e la prima cosa che facciamo dopo esserci cambiati i pantaloni (ce li sporchiamo a ogni esplosione) è buttarci sul cibo. Per la precisione, partiamo con una birra - anche questa è cosa da grassi, la birra. Ci scoliamo una o due lattine e poi arraffiamo roba più consistente. Gli hamburger, le patatine fritte, i peanut butter and jelly sandwiches, l' apple pie, i brownies, i gelati, ci puoi dare dentro a volontà. E noi ci diamo dentro, eccome. È incredibile quanto riusciamo a ingurgitare. Siamo fuori di testa. Qualcosa si è rotto dentro di noi. Non è che ci piaccia mangiare così, ma è più forte di noi, potremmo ammazzarci di cibo, e forse è proprio quello che tentiamo di fare. All'inizio alcuni vomitano. Io ci ho provato, ma non ci sono mai riuscito. Lo avrei tanto voluto. Stiamo malissimo, con la pancia sul punto di scoppiare. Giuriamo a noi stessi di non rifarlo mai più, è troppo doloroso. L'indomani dobbiamo ritornare a combattere, prendiamo parte a orrori peggiori di quelli del giorno prima, a cui è impossibile abituarsi, ci viene una diarrea mostruosa senza che possiamo smettere di sparare e di correre, e vorremmo che l'incubo finisse. Chi scampa a quell'inferno è ridotto a un vuoto. Allora, ricominciamo con la birra e il cibo e poco a poco lo stomaco si dilata al punto da non fare più male. Chi vomitava non vomita più. Ingrassiamo come porci. Ogni settimana siamo costretti a chiedere una divisa più grande di una taglia. La cosa ci mette in imbarazzo, ma nessuno riesce a invertire la tendenza. E poi non è il nostro corpo. Questa faccenda succede al corpo di qualcun altro. Quel cibo lo scaraventiamo nel ventre di uno sconosciuto. La prova è che ce ne accorgiamo sempre meno. E allora ingurgitiamo ancora di più. Non proviamo piacere, ma un atroce conforto.

Il piacere, io lo conosco: non è questo. Il piacere è qualcosa di grande. Per esempio, fare l'amore. Non mi capiterà mai più. Innanzitutto, perché non mi vorrà nessuno. Poi, perché non ne sono più capace. Come si fa a muovere seppure di poco un corpo di 180 chili? Riesce a immaginarselo? Da quando sono in Iraq, sono ingrassato di cento chili. Diciassette chili l'anno. E non è finita. Ne ho ancora per diciotto mesi: il tempo di prendere trenta chili. Ammesso che tornato al mio paese smetta di ingrassare. Io sono come tanti soldati americani, un bulimico incapace di vomitare. In queste condizioni, dimagrire è l'ultima cosa ipotizzabile.

Cento chili, è una persona enorme. Mi sono arricchito di una persona enorme da quando sono a Baghdad. Dato che mi è capitato qui, la chiamo Sharazád. Non è carino nei confronti della vera Sharazád, che doveva essere una creatura snella. Preferisco però identificarla con una persona sola piuttosto che con due, e con una donna piuttosto che con un uomo, sicuramente perché sono eterosessuale. E poi, Sharazád fa proprio al caso mio. Mi parla per notti intere. Sharazád sa che non posso più fare l'amore, allora sostituisce quell'atto con bellissime storie che mi incantano. Voglio confidarle il mio segreto: è grazie alla mia immaginaria Sharazád che sopporto l'obesità. Se i miei compagni sapessero che ho assegnato al mio grasso un nome di donna, non devo farle un disegno di quello che mi succederebbe. Ma lei, so che lei non mi giudicherà. Nei suoi libri ci sono parecchi obesi, e lei non li descrive mai come persone senza dignità. E nei suoi libri, i suoi personaggi inventano bizzarre leggende per continuare a vivere. Come Sharazád.

Ho l'impressione che sia lei a scrivere questa lettera: non riesco a farla smettere. In vita mia, non ho mai composto un messaggio così lungo, ecco la dimostrazione che non ne sono io l'autore. La mia obesità mi fa orrore, ma amo Sharazád. La notte, quando il mio peso mi opprime il petto, penso che non sono io, ma immagino che sia una bella ragazza sdraiata sul mio corpo. Se riesco a calarmi completamente in questa fantasia, sento la sua dolce voce femminile mormorarmi all'orecchio cose ineffabili. Allora, le mie grosse braccia stringono quella carne e la convinzione è così potente che, invece di sentire il mio grasso, tocco la soavità di un'innamorata. Mi creda, in quegli istanti, sono felice. Meglio: siamo felici, lei e io, come solo due amanti possono esserlo.

So che questo non mi protegge da nulla: si può morire di obesità, e visto che continuerò a ingrassare mi succederà di certo. Ma se Sharazád mi ama davvero morirò felice. Ecco. Sharazád e io volevamo raccontarle questo.

Sinceramente,
Melvin Mapple
Baghdad, 5/03/2009


Caro Melvin Mapple,

grazie per la sua sorprendente missiva che ho appena letto e riletto con stupore e sgomento. Quanto mi scrive è sconvolgente. Più ci ripenso, più sono indignata, sbalordita e incantata. Posso pregare lei e Sharazád di raccontarmi questa storia ancora e ancora?

Non ho mai letto niente di simile.

Con amicizia,
Amélie Nothomb
Parigi, 10/03/2009

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Attesi la successiva epistola di Melvin in preda alla febbre. Ero continuamente assalita da immagini incredibili: vedevo una dopo l'altra scene di iracheni dilaniati, di deflagrazioni che mi spaccavano il cranio, soldati americani che si abbuffavano in modo impressionante fino a riprodurre nel loro ventre le esplosioni al fronte. Vedevo la grassezza guadagnare terreno, le posizioni perdute una dopo l'altra, man mano che diventava indispensabile la taglia più grande, un fronte di grasso avanzare sulla mappa. L'esercito degli Stati Uniti costituiva un'entità in continua espansione, sembrava una gigantesca larva che assimilava sostanze informi, forse le vittime irachene. Tra le unità militari c'è il corpo, e quello che vedevo doveva essere un corpo, per quanto si potesse ancora riconoscere la parola in quell'efflorescenza di grasso. In inglese corpse significa "cadavere". In francese è soltanto uno dei significati possibili della parola "corpo". Un corpo obeso è vivo? La sola prova che non è morto è che continua a ingrassare. È questa la logica dell'obesità.

Poi vedevo qualcuno che poteva essere Melvin Mapple e che, sdraiato, soffocava nella notte. Calcolai che, dei 100 chili accumulati, quelli situati sul petto e sul ventre dovevano rappresentarne la metà: 50 chili erano un peso verosimile per Sharazád, quindi credevo all'esistenza dell'amante distesa sul suo cuore. E vedevo l'idillio, la conversazione intima, l'improvvisa apparizione dell'amore là dove uno meno se lo aspetta. E in sei anni di guerra, le mille e una notte erano state superate.

"Chi vuoi fare l'angelo fa la bestia" lo sappiamo fin da Pascal. Melvin Mapple aggiungeva la sua versione: chi vuol fare la bestia fa l'angelo. Certo, non era solo angelico il suo racconto, anzi. Ma la potenza della visione che consentiva al mio corrispondente di sopravvivere all'intollerabile imponeva rispetto.

Al Salon du livre di Parigi, tra le persone che vennero a chiedermi la dedica, c'era anche una ragazza obesa. La lettera di Melvin mi aveva contaminato al punto che la fanciulla mi parve fragile, stretta nell'abbraccio di un Romeo annesso al suo corpo.


Cara Amélie Nothomb,

la sua reazione mi commuove. Tuttavia, spero che lei non enfatizzi il lirismo della mia situazione. Sa, anche con Obama presidente, la guerra non è finita. Lo sarà solo se la parte avversa la riterrà conclusa. Finché resteremo qui, saremo in pericolo. Certo, gli assalti atroci che mi hanno fatto diventare bulimico non ci sono più. Ma la minima sortita ci trasforma in bersagli e si continua a morire nelle nostre file. Qui ce l'hanno con noi, e come dargli torto?

Gli obesi della mia specie sono sempre in prima linea. Inutile che gliene spieghi la ragione, salta agli occhi: un obeso è il migliore degli scudi umani. Là dove un corpo normale protegge un solo individuo, il mio ne protegge due o tre. Inoltre la nostra presenza funge da parafulmine: gli iracheni patiscono così tanto la fame che la nostra obesità è una provocazione per loro, e siamo noi quelli che vogliono fare fuori per primi.

Sono convinto che i capi americani vogliano la stessa cosa. Anche per questo motivo gli obesi rimarranno qui fino all'ultimo giorno fissato da Obama: per moltiplicare le probabilità del nostro omicidio. Dopo ogni conflitto, si sono visti tornare negli Stati Uniti soldati affetti da patologie orrende, che hanno turbato la coscienza di tutto il paese. Ma la stranezza dei loro disturbi era tale che la popolazione poteva addebitarli a quello che, in guerra, supera la comprensione umana.

L'obesità, invece, non è insolita in America, è soltanto ridicola. Anche se è una malattia, raramente viene percepita come tale dalle persone normali, che ancora parlano di noi come di gente che se la passa troppo bene. L'esercito degli USA può accettare tutto, tranne di essere grottesco. "Ha sofferto? Non si vede!" oppure "Cosa ha fatto in Iraq, a parte mangiare?" sono le riflessioni che raccoglieremo. Avremo problemi seri con l'opinione pubblica. È indispensabile che l'esercito americano veicoli un'immagine virile di forza dura e coraggiosa. Invece l'obesità che ci impaccia di seni e natiche enormi restituisce un'immagine femminile di flaccidità e codardia.

I caporali hanno cercato di metterci a dieta. Impossibile: la nostra ingordigia ci rende capaci di tutto. Il cibo è una droga come un'altra ed è più facile spacciare i doughnuts che la coca.

Durante il periodo di proibizione alimentare che ci hanno imposto, siamo ingrassati più del solito. Hanno tolto l'embargo sul cibo e il nostro aumento di peso ha ritrovato la sua velocità di crociera.

La droga, parliamone: una guerra moderna non si riesce a sopportare senza l'uso di stupefacenti. In Vietnam i nostri avevano l'oppio che, qualunque cosa se ne dica, crea una dipendenza molto inferiore a quella che è ormai la mia per i panini col pastrami. Quando i boys degli anni '60 e '70 sono tornati nel loro paese, nessuno è ricaduto nell'oppio, sostanza difficile da procurarsi negli USA. Quando ritorneremo a casa, come faremo a privarci del junk food sempre a portata di mano? I capi avrebbero fatto molto meglio a distribuirci l'oppio: a quest'ora non saremmo obesi. Di tutte le droghe, il cibo è la più nociva e quella che crea maggiore dipendenza.

Bisogna mangiare per vivere, pare. Noi, invece, mangiamo per morire. È l'unico suicidio a nostra disposizione. Sembriamo a malapena umani tanto siamo enormi, eppure i più umani tra noi sono sprofondati nella bulimia. Ci sono ragazzi che hanno sopportato la mostruosità di questa guerra senza cadere in nessuna forma di patologia. Io non li ammiro. Non è coraggio il loro, ma mancanza di sensibilità.

Non c'erano armi di distruzione di massa in Iraq. Ammesso che vi fossero dubbi in proposito, oggi non ve ne sono più. Il conflitto quindi era un'ingiustizia scandalosa. Non sto cercando di discolparmi. Forse sono meno colpevole di George W. Bush e della sua cricca, ma sono comunque colpevole. Ho partecipato a questo orrore, ho ucciso dei soldati, ho ucciso dei civili. Ho fatto esplodere abitazioni con dentro donne e bambini, morti per colpa mia.

A volte, dico a me stesso che Sharazád è una di quelle irachene che ho massacrato senza vederle. Fuor di metafora, mi porto addosso tutto il peso del mio crimine. Posso ritenermi fortunato, Sharazád avrebbe buone ragioni per odiarmi. Però la notte sento che mi ama. Va' a capire: io odio il mio grasso e lui mi tortura tutto il giorno. Vivere con questo fardello mi strazia, le mie vittime mi ossessionano. E tuttavia, in questo ammasso di carne, c'è Sharazád che, quando si spengono le luci, mi dà l'amore. È consapevole che probabilmente il suo assassino sono io? Gliel'ho mormorato in risposta ad alcune sue dichiarazioni. Non mi è sembrato che la cosa la turbasse. L'amore è un mistero.

Odio la mia presenza a Baghdad. Tuttavia non ho neanche molta voglia di tornare a Baltimora. Non ho detto ai miei di essere ingrassato più di 100 chili, e la loro reazione mi terrorizza. Non sono in grado di mettermi a dieta. Non voglio perdere Sharazád. Dimagrire significherebbe ucciderla per la seconda volta. Se il mio castigo per questo crimine di guerra è portare addosso la mia vittima sotto forma di grasso, lo accetto. Primo perché è giusto, e poi perché, in maniera inspiegabile, mi rende felice. Non è masochismo, non appartengo a quella specie.

In America, all'epoca della mia magrezza, ho avuto un bel po' di donne. Si sono dimostrate generose con me, non posso lamentarmi. A volte, mi sono perfino innamorato. Come tutti sanno, fare l'amore con la persona amata è il culmine della felicità terrestre. Ebbene, quello che provo con Sharazád è persino meglio. Forse perché Sharazád condivide la mia intimità in maniera più concreta? O magari solo perché è lei?

Se nella mia esistenza ci fossero soltanto le notti, sarei l'uomo più felice del mondo. Ma ci sono anche i giorni, che mi schiacciano nel senso letterale del termine. Bisogna trasportarlo, questo corpo: non si riuscirà a spiegare mai abbastanza il calvario dell'obeso. Gli schiavi che hanno costruito le piramidi non erano carichi quanto me, che non posso mettere giù il mio fardello neanche per un istante. La gioia semplice di camminare con passo leggero, senza sentirmi oppresso, mi manca terribilmente. Ho voglia di gridare alle persone normali di approfittare dell'incredibile privilegio di cui non sembrano consapevoli: saltellare, muoversi con noncuranza, godere della danza degli spostamenti più banali. E pensare che c'è gente che brontola se deve andare a fare la spesa a piedi, o camminare per dieci minuti fino alla metropolitana!

Ma la cosa peggiore è il disprezzo. Mi salva il fatto di non essere l'unico obeso. La solidarietà degli altri mi impedisce di soccombere. Subire gli sguardi, i giudizi, le angherie, è il massimo della sofferenza. Non ricordo come mi comportavo un tempo con gli ammassi di grasso che incontravo: facevo anch'io lo stronzo con loro? Sempre con la coscienza a posto perché alla fine, se uno è grasso, se l'è proprio cercata, uno non diventa grasso senza motivo, perciò andiamo, hai il diritto di fargliela pagare, innocente certo non è.

È la verità, io non sono innocente. Né nel morale, né nel fisico. Ho commesso crimini di guerra, e mi sono strafogato come un ossesso. Però chi si permette di giudicarmi non vale più di me. I nostri ranghi sono composti solo da assassini della mia specie. Se non sono ingrassati è perché le loro malefatte non gli pesano sulla coscienza. Sono peggiori di me.

Quando i miei compagni e io ci rimpinziamo, i soldati magri ci urlano: "Cazzo, ragazzi, ma la volete smettere! Fate schifo, guardarvi mangiare fa venire il vomito!" Non diciamo niente, ma tra noi ne parliamo: sono loro a farci schifo quando mangiano in maniera normale, perché hanno massacrato civili senza cambiare modo di vivere, senza manifestare il minimo trauma. Alcuni li difendono, sostenendo che magari soffrono di una pena segreta. Come se una pena segreta potesse espiare crimini tanto poco segreti! Noi, almeno, la nostra colpevolezza la ostentiamo. I nostri rimorsi non sono discreti. Non è forse indice di rispetto verso chi abbiamo così gravemente offeso?

Fra noi aborriamo Pappe' nativo di grassi, ci chiamiamo i sabotatori. La nostra obesità costituisce un formidabile e spettacolare atto di sabotaggio. All'esercito noi costiamo cari. Ci danno cibo a buon mercato, ma ne mangiamo in quantità talmente sbalorditive che il conto è comunque salato. Perfetto, offre lo Stato. A un certo punto, in seguito a una lamentela dell'amministrazione, i capi hanno cercato di far pagare quelli che si servivano più di due volte. Per loro sfortuna non hanno tentato il colpo con uno sprovveduto, ma con il nostro amico Bozo, il grassone cattivo per eccellenza. La faccia di Bozo quando il soldato di guardia gli ha presentato il conto! Che lei mi creda o no, Bozo glielo ha fatto mangiare, lo scontrino. E quando il tizio lo ha inghiottito, Bozo ha urlato: "Ti puoi considerare fortunato. Se ci riprovi, io mi mangio te." Non se ne è più parlato.

Costiamo cari anche in termini di vestiti: ogni mese dobbiamo cambiare l'uniforme, perché non ci stiamo dentro. Non riusciamo più ad abbottonarci i pantaloni e la camicia. Pare che l'esercito abbia dovuto creare per noi dei modelli di una nuova taglia: la XXXXL. Ne andiamo molto fieri. Spero che lancino la XXXXXL, perché non abbiamo intenzione di fermarci su una strada così promettente. Detto tra noi, se fossero meno idioti, ci confezionerebbero una divisa elasticizzata. Ne ho parlato con il responsabile dell'equipaggiamento, ed ecco cosa mi ha risposto: "Impossibile. L'elasticizzato è contrario allo spirito militare. Ci vogliono abiti rigidi, in tessuti non estensibili. L'elastico è il nemico dell'esercito:" Pensavo fossimo in guerra contro l'Iraq, e scopro che siamo in guerra contro il lattice.

Costiamo cari in termini di cure sanitarie. Quando si è obesi, si soffre sempre di qualcosa. La maggior parte di noi è diventata cardiopatica: dobbiamo prendere medicine per il cuore. E farmaci contro l'ipertensione. Il peggio è stato quando hanno voluto operarci. Che storia! Avevano fatto venire dagli Stati Uniti un chirurgo rinomato per l'impianto di cerchi gastrici: ti strizzano lo stomaco e non hai più fame. Ma non hanno il diritto di impiantarti questo affare contro la tua volontà e nessuno si è dichiarato d'accordo. Noi vogliamo avere fame! Il cibo è la nostra droga, la nostra valvola di sfogo, non vogliamo perderla. La faccia del chirurgo quando ha visto che non c'erano candidati! Allora i caporali hanno scovato l'anello debole, un certo Iggy, visibilmente più complessato di noi per il sovrappeso. Hanno cominciato a lavorarselo, mostrandogli fotografie di com'era prima: "Eri bello, Iggy, quando eri magro! Cosa dirà, la tua fidanzatina, al tuo ritorno? Non vorrà più saperne di te!" Iggy ha ceduto, e lo hanno operato. Ha funzionato, è dimagrito come un pazzo. Ma il famoso chirurgo, offeso per lo scarso successo, è ripartito per la Florida. Poco dopo il cerchio gastrico si è danneggiato, si è spostato, e a Iggy è toccato essere operato d'urgenza. I chirurghi militari hanno fallito, e il poveraccio ci è rimasto secco. Pare fosse inevitabile; a meno di non essere uno specialista, difficilmente l'operazione poteva riuscire. Bisognava far tornare il chirurgo della Florida, ma non sarebbe arrivato in tempo. Insomma, la famiglia di Iggy ha intentato una causa all'esercito americano e l'ha vinta alla grande. Lo Stato ha dovuto versare ai genitori di Iggy una somma enorme.

Dunque, costiamo cari anche in termini di spese legali. La storia di Iggy ha fatto nascere molte idee. Dopo tutto, siamo obesi a causa di George W. Bush. Di ritorno nel nostro paese, conosco un bel po' di soldati pronti ad andare dall'avvocato. Non io. Io non voglio avere più niente a che fare con questa gente. Sono dei criminali: in nome di una menzogna, hanno mandato a morte migliaia di innocenti e hanno rovinato la vita a quelli che sopravvivranno.

Io vorrei procurare loro danni maggiori. Ma ahimè, appartengo a una specie piuttosto inoffensiva. È continuando a mangiare che riesco a sabotare meglio il sistema. Il problema è l'aspetto kamikaze del gesto: distruggo più me stesso che il mio bersaglio.

Comunque, sono abbastanza fiero della mia ultima vittoria: non entro più nei tank. La porta è troppo stretta. Meglio così, ho sempre odiato infilarmi dentro quegli affari che ti fanno venire la claustrofobia e dove non sei neanche protetto come credi.

Ha visto quant'è lunga la mia lettera? Non riesco a credere di aver scritto tanto. Ne avevo proprio bisogno. Spero di non nausearla.

Sinceramente,
Melvin Mapple
Baghdad, 17/03/2009

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