Copertina
Autore Amélie Nothomb
Titolo Diario di Rondine
EdizioneVoland, Roma, 2006, Amazzoni 37 , pag. 100, cop.fle., dim. 14,5x20,4x0,7 cm , Isbn 978-88-88700-76-2
OriginaleJournal d'Hirondelle
EdizioneAlbin Michel, Paris, 2006
TraduttoreMonica Capuani
LettoreGiovanna Bacci, 2007
Classe narrativa francese
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Pagina 7

Ti risvegli al buio nella più assoluta incoscienza. Dove sono, che cosa è successo? Per un istante la memoria è cancellata. Non capisci più se sei un bambino o un adulto, un uomo o una donna, colpevole o innocente. Le tenebre sono quelle della notte o di una prigione?

Capisci solo una cosa, e tanto più intensamente dal momento che è il tuo unico bagaglio: sei vivo. Più di così non lo sei mai stato: sei vivo e basta. In che consiste la vita all'interno di questa frazione di secondo in cui hai il raro privilegio di non avere identità?

In questo: hai paura.

Non c'è libertà più grande di questa breve amnesia del risveglio. Sei un neonato che conosce il linguaggio. Puoi assegnare un vocabolo alla scoperta senza nome della nostra nascita: sei scaraventato nel terrore della vita.

Durante questo intervallo di pura angoscia, non ti ricordi nemmeno che al risveglio è possibile che si verifichino simili fenomeni. Ti alzi, cerchi la porta, ti senti smarrito come in albergo.

E poi i ricordi reintegrano il corpo in un baleno restituendogli quanto gli fa da anima. Ti senti rassicurato e deluso: dunque sei questo, dunque sei solo questo.

Subito ritrovi la geografia della tua prigione. La mia stanza sfocia nel lavabo, dove mi inondo d'acqua gelata. Cosa cerchi di sfregarti via dal volto, con tutta quell'energia e quel freddo?

Poi riparte il tran tran. A ciascuno il suo: caffè-sigaretta, tè-toast o cane-guinzaglio, il percorso di tutti noi è organizzato in modo che si abbia meno paura possibile.

In realtà, passiamo il nostro tempo a lottare contro il terrore della vita. Per sfuggirgli, inventiamo definizioni: mi chiamo tizio, sgobbo per conto di caio, il mio lavoro consiste nel fare questo e quello.

Sotterranea, l'angoscia avanza con il suo lavoro di trincea. La sua voce non si può completamente imbavagliare. Credi di chiamarti tizio, che il tuo lavoro consista nel fare questo e quello ma al risveglio niente di tutto ciò esisteva. E può darsi che davvero non esista.


Tutto è cominciato otto mesi fa. Ero reduce da una delusione d'amore così idiota che è meglio non parlarne. Alla mia sofferenza si aggiungeva la vergogna della sofferenza. Per impedirmi un simile dolore, mi strappai il cuore. Un'operazione semplice, ma poco efficace. Il dolore che mi aveva assediato dilagava ovunque, sotto la pelle e sopra, negli occhi, nelle orecchie. I miei sensi mi erano nemici e non la smettevano di ricordarmi quella stupida storia.

Decisi allora di uccidere le mie sensazioni. Mi bastò individuare l'interruttore interno e spostarlo verso l'universo del né-caldo-né-freddo. Fu un suicidio sensoriale, l'inizio di una nuova esistenza.

Da allora, non soffrii più. Non sentii più niente. La cappa di piombo che mi mozzava il respiro scomparve. E anche il resto. Abitavo in una specie di vuoto.

Passato il sollievo, cominciai ad annoiarmi di brutto. Pensai di riportare l'interruttore interno sulla posizione di partenza e mi accorsi che era impossibile. La cosa mi preoccupò.

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Faceva proprio per me questo mestiere le cui esigenze mi incantavano. Per esempio, prima di ogni missione il tiratore deve lavarsi le mani: non tanto per averle pulite, quanto piuttosto per eliminare ogni traccia di sudore. Niente di peggio delle dita unte che fanno scivolare la pistola e rendono impossibile la precisione. Vanno dunque evitate le creme detergenti all'olio di mandorla che hanno la reputazione di ammorbidire le mani mentre invece le ricoprono di una pellicola untuosa che imburra pericolosamente il grilletto. La cosa di gran lunga migliore è la vecchia saponetta Sunlight al limone, un solvente che riesce anche a smacchiare i pantaloni dalla morchia.

Yuri mi aveva assunto in un febbraio polare. Adepto delle docce bollenti, presi tuttavia l'abitudine di lavarmi le mani con l'acqua gelata. Era l'ultimo gesto prima di andare in missione: sfregarmi a lungo palmi e dita con la Sunlight, massaggiare energicamente la schiuma, poi sciacquarli sotto un getto così freddo che non mi sarei stupito di veder scorrere pezzi di ghiaccio dal rubinetto. Non so perché godessi tanto a gelarmi le mani in quel modo. Me le asciugavo poi con un panno non riscaldato per conservare quella sensazione di iceberg che avrei detestato in qualsiasi altra parte del corpo, ma che nelle mani mi faceva esultare come una purificazione degna di loro. Lungi dall'intorpidirmi le falangi, quella scarica di freddo le rendeva straordinariamente vive, toniche e sicure.

A pensarci bene, un'altra parte di me esige l'acqua ghiacciata che il resto del mio corpo odierebbe. È il viso, a esclusione della testa. Tanto le mie membra hanno bisogno del conforto del calore, tanto il viso e le mani cercano lo sgomento del gelo. Cos'hanno in comune il viso e le mani? Il linguaggio, che l'uno parla e le altre scrivono. Le mie parole sono fredde come la morte.


Sulla scrivania di Yuri, c'erano foto di belle donne.

– Russe? – chiesi indicandole con il mento.

– Francesi – rispose alzando le spalle.

– Perché non ho mai incrociato ragazze simili per strada?

– Le hai incrociate. Gli uomini qui sono ciechi. A Mosca, noi abbiamo conosciuto la miseria.

— Ma che racconti. Dicono che le donne russe siano una cannonata.

— Più che altro gli uomini russi hanno gli occhi, al contrario dei francesi che li hanno foderati di prosciutto. Credimi, le francesi sono le migliori.

Mi ricordai di quel tempo lontano in cui quelle parole per me avevano un senso.

– Non mettere il broncio – disse Yuri fraintendendo la mia espressione. – Finirai per vederle anche tu.

Ahimè, non c'era niente di meno certo.


Fortunatamente, mi restava la sensazione di uccidere. Quella non mi tradiva mai.

La perdita di sapore, che avevo tanto temuto, non appannò quella frenesia: al contrario, ogni volta si amplificava.

Il bisogno di andare a concludere sul mio letto diventò sempre più urgente. Eppure, nel mio atteggiamento non c'era niente di sessuale: mi conosco abbastanza per sapere che sono in grado di provare quel genere di emozioni soltanto per persone belle. Invece quelli che uccidevo non erano mai belli, e neanche abbastanza ripugnanti da suscitare un desiderio paradossale.

Il meccanismo veniva attivato dall'atto di uccidere, che mi apparentava alle divinità più ingiuste oppure, al contrario, al dio più avveduto, colui che unico traccia il confine tra il bene e il male. Al momento di sparare la parte più alta del mio cervello non dubitava di realizzare non solo il destino delle mie vittime, ma anche la più sublime volontà celeste.

Prima della mia perdita sensoriale non credo che sarei stato capace di commettere simili omicidi. Avrei dovuto superare parecchi ostacoli. È il corpo a renderci gentili e pieni di compassione per il prossimo. Mi ricordo che non riuscivo neanche a dare un calcio a un cane che mi mordeva la gamba.

Adesso per far fuori quegli sconosciuti dovevo superare una resistenza così debole che si poteva appena qualificarla come fisica. In un ultimo bastione del mio corpo, situato chissà dove, e che forse ne era il semplice ricordo, c'era la memoria immateriale di quello che era stato materia e che aveva l'unica funzione di servire al mio godimento. Non esiste piacere senza un minimo di organi.

Ma un minimo bastava ampiamente. La sede della mia voluttà si limitava ormai a delle piccolissime zone erogene; mi era solo più facile stimolarle da solo. L'omicidio comportava una straordinaria carica spirituale: se si considera che l'orgasmo è carne satura di pensiero, si ottiene la chiave della mia quotidianità di allora.

La moto mi era indispensabile, perché mi consentiva di salvarmi la pelle e di trasportare la mia estasi fino alla stanza in cui potevo soddisfarla.

Se durante il percorso avevo perso un po' del mio ardore, lo rianimavo con l'aiuto di immagini di altri omicidi, sognando modi di uccidere che non praticavo: pugnale affondato nel cuore, gola tagliata, decapitazione con la sciabola. Perché la fantasia fosse efficace, doveva esserci spargimento di sangue.

Strano, perché comunque ci sarebbe stata altrettanta crudeltà nello strangolamento, nell'avvelenamento o nel soffocamento. Il mio sesso si eccitava solo all'idea dell'emoglobina. Non c'è niente di più bizzarro dell'erotismo.

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